20 luglio 2022

Le battaglie del colonnello Vincenzo Cotti (1772-1810)

Vincenzo ha venticinque anni. Suo padre è un orefice, piuttosto benestante. Siamo nel 1797, a Crema. Da un anno i francesi sostengono militarmente le nuove istituzioni repubblicane, in alta Italia e anche qui da noi. Hanno già arruolato molti italiani sotto le loro insegne, per combattere contro la cosiddetta prima coalizione, cioè la prima delle numerose alleanze che, anche negli anni successivi, uniranno i paesi nemici di Napoleone Bonaparte. Vincenzo si arruola come volontario nella Legione Lombarda. Sono molti i giovani volontari italiani che, senza aspettare la chiamata di leva oppure rinunciando ai benefici che escluderebbero tale chiamata, partono volontari sotto le bandiere napoleoniche. La prima bandiera tricolore italiana è proprio quella dei Cacciatori a Cavallo della Legione Lombarda. Si trova a Milano, al Museo del Risorgimento, in Palazzo Moriggia. E questo con buona pace di reggiani e genovesi perché, rispettivamente, anche le bandiere militari sono bandiere, non solo quelle del potere civile; e una coccarda, per quanto tricolore, non è una bandiera. Anche un altro orefice di Crema vede suo figlio arruolarsi. Si chiama Livio e ha quattro anni più di Vincenzo. E pure un negoziante cremasco vede arruolarsi il suo, che ha soltanto diciotto anni e si chiama Gaetano. Non sono i soli. Perché la città sta cambiando. I “parrucconi”, i “codini”, insomma i Goghi, come si chiamano a Crema, sono stati sbalzati dai loro scranni consiliari e i loro diplomi nobiliari vengono bruciati pubblicamente in piazza. E c’è una gioventù che in molti casi decide di rinunciare agli agi familiari e alle rassicurazioni sociali, per imbracciare il fucile e andare a combattere in nome dei nuovi ideali. Oggi sembra una cosa incredibile, impensabile, forse persino esecrabile. Ma quelli erano altri tempi. Con altri maestri.

Tra i tanti esempi di volontarismo cremasco, Mario Cassi, nel suo articolo su Insula Fulcheria del 2020, ha avuto il merito di citare anche Vincenzo Cotti, Livio Galimberti e Gaetano Soldati, che raggiunsero, nei ranghi della Grande Armée, gradi e riconoscimenti molto importanti, aggiungendo pure l’allora quarantenne Luigi Massari, che in quei momenti non era più ragazzo da un pezzo. Gli italiani che hanno combattuto, spesso con eroismo, nelle armate napoleoniche, nelle divisioni e nei reggimenti della Cisalpina e poi della Repubblica Italiana e del Regno d’Italia, non hanno mai riscosso molto apprezzamento in certa storiografia e anche dalle nostre parti si tende spesso a dimenticarli, magari per celebrare i fasti dell’Austria Felix e il notabilato locale della Restaurazione. Ovviamente, i cremaschi combattenti sotto le aquile napoleoniche non furono tutti volontari e la maggior parte rispose invece al servizio di leva previsto dalle nuove realtà istituzionali. Comunque, furono in molti a farsi onore, nelle varie Armi e nei vari corpi, come semplici soldati ma pure come sottufficiali, ufficiali inferiori o superiori, anche generali. Molti morirono sui terreni di guerra o poco tempo dopo, per le ferite ricevute, oppure restarono invalidi per il resto della vita. Quasi sempre, se riuscivano a tornare a casa, ricordavano con orgoglio e con passione le loro battaglie furibonde, le cariche travolgenti, i boati delle artiglierie, gli scontri ravvicinati all’arma bianca, la vita al campo, lo stendardo del reggimento, l’esempio dato dai superiori. Vincenzo Cotti non è tornato a casa. Questa è la sua storia.

Tra le varie fonti che ci raccontano di lui e di quegli anni nei quali “ogni soldato poteva avere nello zaino il bastone di Maresciallo”, c’è innanzitutto Giacomo Lombroso, nel suo celebre testo del 1843 sui generali e gli ufficiali italiani nelle guerre napoleoniche. E lo fa iniziando con un’informazione piuttosto sorprendente, sia pure nell’eccezionalità di quelle circostanze belliche, e purtroppo poco verificabile: “Arruolatosi il 21 marzo 1797 nella legione lombarda, il 1° aprile egli era già capitano”. Nei tre anni successivi, Cotti combatte come ufficiale inferiore nella campagna militare italiana contro la seconda coalizione, nelle varie fasi in cui i francesi prima si ritirano, poi arrivano gli austro-russi (anche a Crema), infine i francesi ritornano stabilmente. Quando la rinata Cisalpina inizia a riorganizzare la propria forza militare allestendo le sue due divisioni iniziali, Lombroso riferisce che “costituitosi il 1° (reggimento, nda) di linea, Cotti ascese (2 aprile 1800) al grado di ajutante maggiore, e prese parte alla breve guerra combattuta tra i generali Brune e Bellegarde al Mincio”.

Si tratta della campagna militare che porta poi alla battaglia di Pozzolo (o di Monzambano), vinta dai francesi del generale Brune contro gli austriaci guidati dal generale Bellegarde. È una battaglia fondamentale, che porta all’armistizio di Treviso e consente ai francesi di installarsi durevolmente nell’Italia settentrionale. Prosegue Lombroso: “Nel 1803 egli crebbe a capo battaglione nel 2° leggiero organizzato a Modena e fece le battaglie sulle coste dell’Oceano (1804 e 1805)”. La fanteria cosiddetta “leggera”, distinta dalla tradizionale fanteria di linea, era formata nelle armate napoleoniche da corpi speciali incaricati di creare uno schermo avanzato al grosso dei contingenti di fanteria, anche per disturbare in avanscoperta il nemico oppure per ritardarne l’avanzata. In quelle formazioni, i voltigeurs erano truppe di fanteria leggera specializzate, poste davanti alla linea d’attacco principale con lo scopo di bersagliare il nemico da lontano con un fuoco di fucileria ben mirato oppure di colpire i ranghi avversari con azioni rapide e di sorpresa. Nelle divisioni italiane il termine era tradotto con volteggiatori oppure anche con veliti, richiamando l’analoga funzione di fanteria nell’esercito romano. Le campagne militari del 1804 e 1805 sono quelle contro la terza coalizione, con il progetto francese di invasione dell’Inghilterra e la creazione dell’armata di Boulogne, la sconfitta di Trafalgar e le vittorie di Ulm e Austerlitz. Cotti combatte quindi in nord Europa, partecipando costantemente, al comando delle sue formazioni, a battaglie importanti e decisive, sempre in posizioni di schieramento avanzato, con ruoli che richiamano, ante litteram, le azioni di commando e un certo arditismo.

Dopo dieci anni di campagne di guerra in giro per l’Europa, Vincenzo Cotti è ormai un ufficiale veterano delle guerre napoleoniche, noto e apprezzato per il suo coraggio in battaglia. Nel 1806 viene inviato con la divisione Italica, guidata dal generale Pietro Teulié, a combattere nella campagna di guerra in Prussia, nei territori della Pomerania. A seguito della quarta coalizione, la Prussia aveva invaso la Sassonia, costringendo Napoleone a inviare dei corpi di spedizione per impedire il peggio. È quasi una guerra-lampo, condotta positivamente dall’esercito napoleonico, in cui militano vari corpi italiani, tra i quali la divisione Italica al comando di Teulié, della quale fanno parte le formazioni guidate da Cotti. Napoleone sconfigge i prussiani e i loro alleati nelle battaglie di Jena e di Auerstädt, entrando poi da vincitore in Berlino. Seguono la campagna di guerra polacca, più contrastata, il tentativo di sconfiggere anche la Russia, che ha esito quanto meno incerto, e quindi il trattato di Tilsit.

Sul Baltico e in Pomerania i reggimenti italiani si distinguono per valore e riconoscimenti sul campo. Questo importante ruolo bellico è ben descritto nel testo di Felice Turotti, in tre cospicui volumi, sulla storia delle armi italiane dal 1796 al 1814, un’opera del 1856-1858 sui contingenti italiani nelle guerre napoleoniche. Anche Vincenzo Cotti vi è citato più volte e si può dire che, insieme al precitato testo del Lombroso, questo del Turotti costituisca la fonte principale di notizie su di lui. Tra i vari fatti d’arme in cui Cotti, che è uno dei sei ufficiali capo-battaglione della divisione Teulié, mette in luce il proprio coraggio e le sue doti militari, ci sono quelli riferiti all’assedio della città-fortezza di Kolberg, nel voiovodato della Pomerania occidentale (oggi Kołobrzeg, in Polonia), alla foce del fiume Persante (oggi Parset). Napoleone in persona scrive ammirato al maresciallo Jean-Baptiste Bernadotte: “Il generale Teulié co’ suoi Italiani va a passo raddoppiato. Egli ha completamente battuto la guarnigione di Colberg, e l’ha costretta a rinchiudersi nella piazza”. E al maresciallo François Joseph Lefebvre: “Gl’Italiani sono appena arrivati e già si distinguono”. “Il generale Teulié, con tre reggimenti italiani, tre compagnie fucilieri della guardia e una compagnia di dragoni d’ordinanza ha attaccato il nemico in prossimità di Colberg e gli ha preso sei cannoni e trecento prigionieri”. Il 12 dicembre 1807, Cotti è decorato con la Corona di Ferro e nominato colonnello del reggimento dei Veliti italiani. Il generale Teulié muore eroicamente, combattendo a Kolberg. Dice Turotti: “ebbe da un colpo di cannone fracassata la coscia”. Viene a mancare pochi giorni dopo, il 18 giugno, essendo inutile l’amputazione della gamba.

Nel 1808 il colonnello Vincenzo Cotti è inviato in Spagna, per combattere in una delle più difficili ed estenuanti guerre napoleoniche. Non è possibile in questa sede, per motivi di spazio, inquadrare le specifiche vicende in cui Cotti viene personalmente coinvolto all’interno del più generale scenario di quella guerra, combattuta nella penisola iberica dall’impero francese contro Spagna, Inghilterra e Portogallo, ricostruendo cioè il quadro generale di quei fatti, con l’invasione francese, poi l’intervento diretto di Napoleone, quindi il suo ritorno in Francia e infine la situazione di persistente guerrilla spagnola e di ripetute insurrezioni contro l’occupazione francese. Basti dire che due divisioni italiane, quelle comandate dal generale Giuseppe Lechi e dal generale Domenico Pino, partecipano molto attivamente a quella guerra, in particolare nel problematico e contrastato scacchiere catalano, e che Cotti viene coinvolto nella cosiddetta prima campagna di guerra della Catalogna, quella durata dal 1808 al 1811. I militari italiani, soprattutto quelli provenienti dal Regno d’Italia (molto meno quelli provenienti dal Regno di Napoli, secondo la prevalente opinione della storiografia), si rivelano in quelle circostanze degli ottimi soldati, molto adatti alle caratteristiche del conflitto. Sebbene inclini a saccheggi e violenze e per quanto temuti per la loro ferocia, sui campi di battaglia ma anche nei confronti delle popolazioni ribelli, si dimostrano in genere molto valorosi contro il nemico, abili nell’assalto a città e fortezze, coraggiosi nel combattimento ravvicinato all’arma bianca, esperti in manovra sui territori impervi che facilitano gli agguati e le imboscate del nemico, come quelli dell’entroterra catalano e dell’Empordà oppure quelli situati lungo la costiera rocciosa del gironese. I contingenti italiani allora combattono anche in alcuni luoghi nei quali oggi, due secoli dopo, molti turisti italiani vanno in vacanza, tra la Costa Brava e diverse località del territorio barcellonese e tarragonese.

Non mancano dunque gli autori che danno atto ai combattenti italiani, in quella campagna militare catalana, di grande valore bellico ma anche di notevole violenza e crudeltà. Queste due caratteristiche fungono però a volte da deterrente contro le efferatezze che spesso sono commesse dagli avversari (e in certi casi dalla popolazione) contro i reparti nemici isolati, i prigionieri e i feriti caduti in mano alle forze ribelli. I Disastres de la guerra avrebbero potuto benissimo rappresentare anche quanto compiuto dagli spagnoli. Sulla operational military effectiveness, come oggi si usa dire nei manuali di strategia militare, delle formazioni italiane in quella campagna, oltre che sulla loro durezza e spietatezza, basti citare, oltre allo stesso Napoleone, anche autori come il generale Laurent de Gouvion-Saint-Cyr e il generale Gabriel Laffaille, che di certo non resero le loro attestazioni di encomio senza diretta cognizione di causa. Tra le numerosissime fonti riguardanti le forze italiane nella prima campagna di guerra catalana, c’è solo l’imbarazzo della scelta, nelle biblioteche e anche sul web. Tra i contribuiti di sintesi e tuttavia molto validi, si citano solo due articoli su “Spagna contemporanea - Rivista semestrale di storia, cultura e istituzioni”: il primo di Silvia Bobbi, “Gli italiani e la Guerra de la independencia”, n. 40, 2011, pp. 33-66, anche con riferimento al massacro di Palamòs, nella cui conquista ebbe un ruolo decisivo Vincenzo Cotti; il secondo di Michele Abbiati, “Assalto, massacro e saccheggio: l’esercito italiano contro la difesa della Catalogna nella Guerra de la independencia”, n. 54, 2018, pp. 7-32, tratto dalla tesi di dottorato dell’autore, aa. 2015-2016 (entrambi gli articoli sono scaricabili in rete). La guerra napoleonica in Spagna, nel suo complesso, è infatti definita dalla storiografia spagnola Guerra de la independencia. Per quella francese la definizione prevalente è Guerre d’Espagne. Per quella anglosassone è Peninsular War. Per i catalani è La guerra del Francès.

Torniamo ora a Vincenzo Cotti, che come colonnello ha delle responsabilità di primo piano in quel conflitto. Uno dei suoi compiti è di intercettare i contingenti ribelli che bloccano gli approvvigionamenti alle città tenute dai francesi e dagli italiani, a partire da Barcellona, con azioni preventive o punitive. Poi occorre bloccare le azioni di rivolta nei centri muniti di scarso presidio, intervenendo per tempo in soccorso di quelle ridotte guarnigioni. Il territorio da gestire è molto esteso e parecchio infido per le asperità geografiche e per la resistenza delle popolazioni locali. Gli effettivi sono scarsi e la guerrilla impone modalità di contrasto diverse dalle solite, fino ad allora basate molto spesso su scontri in campo aperto tra unità belliche tradizionali. Cambiano le tecniche, gli armamenti, la logistica, gli approvvigionamenti. Cotti si fa subito un nome per la sua efficacia e implacabilità. Dopo il fallito tentativo del generale François Xavier de Schwarz di recarsi da Barcellona a Manresa con un distaccamento, nel giugno 1808 Cotti è incaricato di frenare le incursioni spagnole, che arrivano persino ai sobborghi della capitale catalana. Gli spagnoli sono infatti imbaldanziti dal successo di El Bruc contro Schwarz e dalla loro successiva azione contro il generale Joseph Chabran. Il generale Guillaume Duhesme ordina al reggimento veliti di Cotti di fare ricognizione e accertare la gravità della situazione. Cotti si attesta sul Llobregat e dal villaggio di Sant Zelim vede che le alture sono piene di ribelli. Manda esploratori e inizia l’opera di contrasto. Alla fine, la battaglia di fucileria e gli scontri ravvicinati allontanano gli insorgenti. I veliti “ripuliscono” la zona con molto coraggio e determinazione. Dice Lombroso: “Il loro contegno e la loro intrepidezza riempì di stupore i militari i più provetti, e ne insuperbirono i capi che presagirono altre imprese a que’ giovani”. I comandi ammirano il loro “amor della gloria, l’amor della patria ed il dovere della disciplina e della subordinazione”. Non è possibile dar conto analiticamente, in questa sede, delle numerose azioni militari, cioè delle predette “altre imprese”, condotte da Vincenzo Cotti in quel periodo. Ci si limita dunque, qui di seguito, a una breve sintesi riassuntiva dei fatti principali.

Poco dopo l’intervento attuato per contenere il “disastro di Schwarz”, Cotti riesce a liberare “due battaglioni napoletani e un terzo guidato dal prode colonnello Foresti” del 5° reggimento di linea, che erano assediati da alcuni contingenti di insorti su un “passo malagevole” dell’interno, disperdendo il nemico con assalti e molta “intrepidezza”. A fine novembre del 1808 il generale Theodor von Reding, alla guida di un corpo di spedizione spagnolo contro Barcellona, viene attaccato da Cotti, il quale, invece di attendere l’avanzata nemica, con un’azione a sorpresa, assale in anticipo gli avversari dentro il loro campo trincerato, “seminando il terrore e lo scompiglio”. L’attacco italiano prosegue poi più in profondità e blocca l’iniziativa spagnola: con una forte percussione diretta, Cotti “ricacciò la prima linea sulla seconda, questa sulla terza, liberando così la metropoli catalana senza che il generale S. Cyr, come era intenzione degli spagnuoli, abbandonasse l’assedio di Rosas per accorrere in soccorso”. Successivamente, i veliti italiani di Cotti sono impegnati nei primi tentativi di assedio a Gerona, nelle comarcas più settentrionali. I vari blocchi militari e gli assalti del generale Guillaume Duhesme e del generale Jean Antoine Verdier non hanno successo. Soltanto alla fine del 1809, dopo un lungo assedio durato sette mesi, dal maggio al dicembre di quell’anno, e costato perdite molto ingenti da ambo le parti, la città sarà espugnata. Nel gironese gli italiani di Cotti si fanno notare per le efficaci azioni di contrasto alla guerrilla e per la loro durezza contro le bande ribelli. A un certo punto Cotti “riceveva l’ordine di impadronirsi di Palamòs”, riferisce Lombroso, “la cui caduta si sperava accelerasse quella di Gerona”. Superando lungo la costa il fuoco delle navi cannoniere nemiche che li bersagliano, gli italiani si impadroniscono, dopo scontri molto cruenti, del villaggio di Sant Juan e da lì iniziano l’attacco a Palamòs. La vicenda della conquista di tale importante presidio costiero è famosa, nella storia di questa campagna di guerra, sia per l’abilissima azione militare condotta dagli assedianti, guidati da Cotti, nell’espugnare la città fortificata, sia per i saccheggi, le violenze e le stragi che ne seguono.

Un’altra impresa in cui Vincenzo Cotti dimostra il proprio valore è la conquista di un altro presidio gironese, quello di Bagur. Cotti divide i suoi contingenti in tre colonne, che sferrano su tre direttrici diverse un attacco concentrico inatteso. La sorpresa riesce anche perché una parte degli effettivi è riuscita a salire sulla collina dove si trova il paese durante la notte, col buio, nel silenzio più assoluto. La difesa è molto accanita ma alla fine la resistenza è vinta, grazie all’impetuosità e anche a una certa temerarietà degli italiani. Il successo di Cotti e dei suoi veliti, che si sono mossi con una strategia da truppe d’assalto e da commando, ha ampia risonanza. Le efferatezze di Palamòs sono ripetute a Bagur solo in parte minore. Oltre a questo, dopo la conquista di Palamòs e di Bagur, Cotti riesce in un’altra impresa molto azzardata. Con assalti portati con mezzi di fortuna e addirittura a nuoto, i suoi riescono a impadronirsi di diverse imbarcazioni militari nemiche, che facevano fuoco sulle formazioni francesi e italiane operanti sulla costa. In realtà, alcuni “legni erano ivi ancorati”, dice Lombroso, e quindi l’azione risulta, in questi casi, meno arrischiata. Alla fine, “28 de’ quali (ci si riferisce alle imbarcazioni nel complesso, nda) caddero in potere degli italiani e furono condotti a Palamòs”. Mentre prosegue l’assedio di Gerona, Cotti alterna la sua azione nell’entroterra del barcellonese e nelle comarcas catalane meridionali, ad alcuni interventi nel gironese e nell’Empordà. Come si è detto, non è possibile in questa sede seguirlo in tutte le sue iniziative durante questa campagna di guerra. Scorrendo la citata opera del Turotti, è però possibile “incontrare” spesso Cotti e le sue formazioni militari, soprattutto nel secondo dei tre predetti volumi, nei libri settimo, ottavo e nono, oltre che nel già menzionato testo del Lombroso. Non mancano insomma le possibilità di approfondimento per gli eventuali soggetti interessati. La successiva vicenda di Hostalric si trova invece nel terzo volume, nel libro decimo.

Oggi il borgo fortificato di Hostalric è visitato anche dai turisti italiani, che però raramente sanno dei fatti accaduti in questo posto nel 1810. La visita al forte si può fare in circa un paio d’ore. La cittadina di Hostalric si trova, percorrendo la AP 7 (la cosiddetta Autopista del Mediterraneo) a una sessantina di chilometri da Gerona e a una settantina da Barcellona. Nella prima metà del 1810 questa fortezza diviene uno dei perni delle manovre militari che vedono contrapporsi le forze spagnole, tra cui spiccano quelle del generale Enrique José O’Donnell, di origini irlandesi, e le formazioni dell’esercito napoleonico, di cui fanno parte le divisioni italiane, in particolare quella guidata dal generale Filippo Severoli, succeduto al generale Domenico Pino. Hostalric è fieramente difesa dalla guarnigione spagnola, mentre l’assedio è attuato soprattutto dagli italiani di Severoli. Il 2° reggimento di Cotti deve stringere la morsa molto da vicino, anche per scoraggiare o almeno per rintuzzare le sortite che a volte sono tentate dagli assediati. Il blocco di Hostalric avviene in più fasi, tra l’inizio dell’anno e il mese di maggio, perché in certi momenti parte delle truppe assedianti è richiamata in operazioni campali che si svolgono nelle realtà territoriali circostanti. Le sortite tentate hanno soprattutto l’obiettivo di approvvigionare il forte di acqua. Riferisce Lombroso: “Gli assediati fecero molte sortite per riavere libere quelle sorgenti, ma indarno, ché l’instancabile Cotti si adoperò da rendere inutile ogni tentativo ed ogni sforzo”. L’opera di vigilanza, contrasto e soppressione contro i gruppi di fuoriusciti in sortita è continua e sistematica. Al reggimento dei veliti di Cotti spetta il compito più gravoso, più pericoloso e, visto che i difensori presi in sortita sono sempre e subito passati per le armi, anche più impietoso.

In aprile arriva in soccorso delle guarnigione assediata una colonna guidata dal generale O’Donnell, con l’obiettivo di liberare la cittadella e il forte dalla morsa italiana o almeno di vettovagliare e rinfrancare gli assediati con approvvigionamenti e scorte d’acqua. La divisione Severoli viene così presa tra due fuochi, con le truppe di O’Donnell alle spalle e le sortite dei difensori, rianimati dalla presenza dei contingenti giunti in soccorso e quindi speranzosi di rompere definitivamente il blocco. Si susseguono scontri molto violenti. Gli italiani non cedono le posizioni e riescono in genere a ricacciare gli spagnoli di O’Donnell. Sono diversi gli episodi in cui i militari di Cotti si battono con grande valore e ardimento. È in uno di questi scontri che, nel mese di maggio, il 2° reggimento dei veliti si trova stretto tra una tentata sortita dal forte e un attacco spagnolo dalle retrovie. È fondamentale, in quella situazione, non cedere la posizione e non consentire il ricongiungimento tra i contingenti di O’ Donnell e gli assediati. Dice Turotti: “Ma Cotti, il bravissimo Cotti, dotato di sommo sangue freddo e del più risoluto coraggio, infervora i suoi soldati coll’esempio e con le parole, li pone in triplice linea tra il Molino ed il Monte Verde, ossia proprio tra il forte e i soccorsi. E qui, dice al suo reggimento, noi morremo tutti, se fa bisogno, per impedire a costoro una vittoria che disonorerebbe il reggimento e il nome italiano. Gli Spagnuoli non giungeranno al forte, che calpestando i nostri cadaveri”. La risposta dei suoi veliti è immediata e unanime. Ci si trincera, si innestano le baionette e ci si prepara a “resistere fino all’ultimo uomo”. Inizia una terribile carneficina. “La pugna è lunga, ostinata, midicialissima”. “Soli 800 sono i soldati di Cotti, assaliti colla moschetteria e la baionetta sulla fronte dai 3000 del colonnello spagnolo Villamil, e fulminati alle spalle dai fuochi del forte”. “Aumenta la strage fra le soverchiate e poche file del colonnello Cotti. Non cedono esse perciò tampoco un pollice di terreno”.

Al termine della battaglia, il terreno è ricoperto da uno stuolo di cadaveri ma la bandiera del reggimento italiano continua a sventolare nella posizione iniziale, difesa dai veliti superstiti, “grondanti sangue proprio ed altrui”. Solo all’imbrunire gli spagnoli si ritirano e dalla fortezza cessa la fucileria. Dice Lombroso: “Il presidio si rinchiuse nel forte, le truppe venute in suo soccorso s’inselvarono nei risvolti dei monti; la notte sola pose fine a quel sanguinoso conflitto, e la notte sola salvò gli avanzi delle colonne spagnuole, le quali approfittarono delle tenebre e della piena cognizione della località per porsi in salvo”. Ma Vincenzo Cotti è gravemente ferito, per due volte. Così Turoni: “Ad onta che straziato sia da due colpi di fuoco, prosegue ciò non ostante il distintissimo Cotti, appoggiato al braccio di un uffiziale, a comandare imperterrito il suo reggimento. Fracassata la coscia da un terzo colpo (la stessa ferita mortale di Teulié a Kolberg, nda), e perdendo il sangue in gran copia, non può più in piedi sostenersi. Tamburo, egli dice, portami la tua cassa. Ed ei vi si asside, e con animoso volto continua, come se sano intieramente ei fosse, a dirigere la pertinace difesa ed il fuoco del suo bravo Corpo”. Cotti sopravvive per un breve periodo. Si rende indispensabile l’amputazione della gamba, che però non è sufficiente. Muore pochi giorni dopo l’operazione, il 26 giugno 1810, a trentotto anni. Con lui sono caduti, armi in pugno, altri cinque ufficiali del reggimento. Nel frattempo, Hostalric viene espugnata, gli italiani entrano nella fortezza e vi piantano le loro bandiere, tra le quali svetta lo stendardo del 2° reggimento veliti di Vincenzo Cotti. Lo stesso Napoleone rimane colpito dall’eroismo di Cotti e assegna personalmente una pensione vitalizia alla madre. Le sue esequie sono molto solenni. “Vada Crema superba di aver dato cuna (è un termine desueto per culla, nda) fra le sue mura a un tanto eroe, ed i suoi cittadini non siangli ingrati di un monumento che attesti alla posterità le virtù di un tanto Italiano. Pianto dal suo reggimento qual padre e dai suoi amici e compagni, che tutti il stimavano ed amavano, furongli resi gli ultimi onori nella cattedrale di Gerona, ove riposano in pace le di lui ceneri”. Non si commenta la frase del Turoni sul monumento a Cotti, in una città come Crema, nella quale oggi si fatica addirittura a mantenere al loro posto i monumenti già esistenti da tempo, cercando di evitare di rimuoverli per fare altro spazio ai parcheggi, ai plateatici e alla movida.

Una lettura agile e gradevole su Vincenzo Cotti è quella offerta da Francesco Sforza Benvenuti, che prima nella sua “Storia di Crema” del 1859 e poi nel suo “Dizionario biografico cremasco” del 1888 riprende molto in sintesi alcuni testi precedenti, soprattutto quello del Lombroso, del quale riporta anche un ampio stralcio. Il testo del “Dizionario” riguardante Cotti è ripreso dal Benvenuti, quasi senza alcuna modifica, da quello della sua precedente “Storia di Crema”. Per completezza, ferma restando la vastità, come si è già detto, delle fonti a disposizione, non ci si può esimere dal richiamare in questa sede, oltre ai testi già menzionati del Lombroso e del Turoni, oltre agli articoli già citati dell’Abbiati e della Bobbi, anche la ricca memorialistica storica su quella campagna militare di Catalogna, a partire dai resoconti di origine italiana. Basti qui ricordare, di Antonio Lissoni, la sua opera sugli italiani in Catalogna, pubblicata nel 1814; inoltre, di Camillo Vacani, la storia delle campagne e degli assedi degli italiani in Spagna, in tre volumi, edita nel 1823 (con altra edizione nel 1845); quindi, di Cesare de Laugier, il suo monumentale contributo, in tredici volumi, sui fasti e le vicende dei popoli italiani in quegli anni, con pubblicazione tra il 1829 e il 1838, un’opera in cui la guerra napoleonica in Spagna ha notevole risalto. Infine, possono essere d’aiuto, anche in termini di aggiornamento storiografico rispetto a quei testi originari, i numerosi lavori dedicati da Vittorio Scotti Douglas a queste tematiche, a partire dal suo libro sui combattenti italiani in Spagna, edito del 2006. Quanto alla storiografia straniera, soprattutto francese, britannica e spagnola, la bibliografia è veramente sterminata e, vista la materia trattata, diverse ricostruzioni di quei fatti sono molto controverse.

Dei tre giovani volontari partiti nello stesso periodo di Vincenzo Cotti per le campagne di guerra napoleoniche, citati all’inizio di questo articolo, Cotti è l’unico a non essere ritornato a Crema, cadendo eroicamente sul campo di battaglia. Livio Galimberti diventa addirittura generale e muore il 29 giugno 1832, quasi sessantaquattrenne. Una via gli è dedicata a San Bernardino. Gaetano Soldati raggiunge il grado di colonnello e muore nel marzo del 1856, a settantotto anni. Anche di loro il Benvenuti dà conto nel suo “Dizionario”, oltre che, per il solo Galimberti, nella sua “Storia di Crema”. Nel “Dizionario” il Benvenuti riporta in realtà, per il Galimberti, la biografia scritta sul generale da Faustino Vimercati Sanseverino. Difficile accostare l’esperienza di Luigi Massari a quella di Cotti, Galimberti e Soldati: il suo volontarismo si manifestò molto negli uffici civili e molto poco sui terreni di guerra, anche se pure, in sede amministrativa e anche politica, non gli si può negare il merito di un ardente patriottismo e di un ammirevole impegno al servizio della nostra comunità. Massari muore nel 1847 a ottantanove anni, sin da allora dimenticato dai suoi concittadini. Tra l’altro, il manoscritto delle sue Memorie attende ancora un’edizione valida, in grado di rendergli la dovuta giustizia, dopo la damnatio memoriae impostagli a Crema, a suo tempo, dai Goghi rientrati dopo la Restaurazione.

Sembra giusto riportare, al termine dell’articolo, il giudizio espresso dal Lombroso su Vincenzo Cotti, che probabilmente deriva anche da altri testi e commenti raccolti a suo tempo da questo autore: “Cotti, ove fosse più lungamente vissuto, giunger poteva ai primi gradi della milizia; egli era fornito di tutte le doti richieste a percorrere con successo quella malagevole carriera; egli sembrava modellato appositamente per le armi, e per le armi delle moderne guerre; era vivo, solerte, impaziente, e pure intrepido e dotato di sangue freddo ammirabile e straordinario; sapeva a tempo avanzare, a tempo perseverare, ed a tempo pure, sebben con ripugnanza, retrocedere; ebbe pochi e limitati gli studj, ma lunga la pratica, instruttiva l’esperienza, che sole furono ad esso maestre e precettori; egli non militava per dovere, ma per passione, per cui, ben lungi dall’evitare i cimenti, ne andava ardentemente in traccia, più graditi quanto più avventati, e tanto più di esito sicuro quanto più durava la mischia, giacché il suo ardore cresceva in mezzo al fuoco e tra l’alternar delle sorti, ch’egli sapeva piegare a prosperi destini quanto più minacciavano di riuscirne avverse; egli si accendeva vieppiù in mezzo al fuoco, al sangue ed alle stragi, per cui il suo colorito, abitualmente pallido, riaccendevasi nella mischia; egli possedeva interamente il cuore del soldato al quale additava sempre il trionfo certo ed imminente; più gli altri avvilivansi a presagire la sconfitta, più Cotti sublimavasi nel conseguir la vittoria”.

Nell’immagine, il borgo fortificato catalano di Hostalric come è oggi, con la collina del forte sullo sfondo.

Pietro Martini


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