31 ottobre 2022

Le Memorie di Enrico Martini

I testi che contengono le memorie dei personaggi storici possono essere a volte piuttosto noiosi da leggere. Spesso sono scritti con stile antiquato e in certi casi anche abbastanza ostico per il lettore di oggi. Quando poi si tratta di testi ancora manoscritti, le difficoltà di interpretazione di certe frasi e parole possono rendere la lettura più disagevole. Un manoscritto che invece non presenta troppe difficoltà di lettura e che non annoia chi lo consulta è quello delle Memorie di Enrico Martini. Questo scritto autografo è conservato a palazzo Moriggia, in via Borgonuovo a Milano, presso la biblioteca e l’archivio delle civiche raccolte del Museo del Risorgimento. Il manoscritto fa parte del fondo archivistico Enrico Martini, conferito a questo Museo nel 1894 da Emilia Martini. Il fondo è sommariamente inventariato e ordinato in cinque plichi di documenti, collocati in tre cartelle d’archivio.

Queste Memorie sono interessanti innanzitutto perché descrivono in modo molto vivo e con piena cognizione di causa fatti, personaggi e situazioni di un periodo fondamentale del nostro Risorgimento, quello del Quarantotto e delle Cinque Giornate. Ma sono interessanti anche perché sono state oggetto di una vicenda storiografica molto particolare all’inizio del Novecento, con ricadute importanti nei decenni successivi. In pratica, nei confronti di queste Memorie è stata tentata un’operazione di delegittimazione storiografica che può meritare qualche attenzione e considerazione. Accade infatti a volte che esistano manoscritti “scomodi”, contrari cioè alle interpretazioni storiche prevalenti in un certo contesto sociale e istituzionale, e che verso tali manoscritti si esercitino azioni intese a renderli inoffensivi. A seconda dei vari contesti storici, la soluzione può essere quella della pura e semplice distruzione fisica dell’opera. Altre volte si procede con il suo occultamento. Oppure, quando l’esistenza di un testo è già nota ed è difficile agire con distruzioni od occultamenti, si deve procedere con un’operazione di delegittimazione del suo contenuto, in vari modi e con diversi tipi di intervento, in genere attraverso il pubblico discredito di quanto affermato in quelle pagine. È quanto è accaduto alle Memorie di Enrico Martini poco più di un secolo fa e questo articolo intende descrivere tale vicenda.

Prima di parlare delle Memorie di Enrico Martini, va detto qualcosa del loro autore. Discendente da una famiglia di Firenze giunta a Crema a metà del Seicento (il capostipite si chiamava Antonio), poi divisasi in due rami, uno nobilitato nel Settecento (quello di Andrea, da cui discende Enrico) e l’altro rimasto borghese (quello di Cristoforo), il conte Enrico Martini Giovio della Torre nasce a San Bernardino il 18 aprile 1818, da Francesco Martini e Virginia Giovio della Torre Rezzonico di Milano. Esce dall’Imperial Regio Collegio Marittimo di Venezia nel 1837 come ufficiale Guardiamarina. Presto orfano dei genitori (il padre muore nel 1835, la madre nel 1836), frequenta la società aristocratica e culturale milanese del tempo, legandosi per qualche tempo alla contessa russa Julija Pavlovna Samoylova, che aveva il palazzo proprio in via Borgonuovo, all’attuale numero civico 20, quasi davanti al Museo del Risorgimento. Poi viaggia in Europa, trascorrendo lunghi periodi a Parigi e a Londra.

A Parigi Martini frequenta Thiers, Guizot, Lamartine e altri esponenti di rilievo della società francese del tempo. Tiene buoni rapporti con Gioberti, allora esule, e conosce Mamiani della Rovere, a cui lo legheranno comuni interessi letterari e politici. Dal 1846 è spesso in Italia e nel 1847 torna a frequentare gli ambienti politici milanesi, che in quel periodo si stanno preparando ai mutamenti istituzionali conseguenti al nuovo clima patriottico. È politicamente vicino all’amico cremasco Vincenzo Toffetti e agli altri esponenti milanesi del cosiddetto partito albertista, favorevole a Carlo Alberto e alla monarchia sabauda, da loro vista come la sola possibile soluzione per l’unità e l’indipendenza dell’Italia dall’Austria, rispetto alle varie illusioni neoguelfe e repubblicane dimostratesi sino ad allora fallimentari e spesso controproducenti per la causa nazionale. Sposa Deidamia Manara, sorella di Luciano Manara, che però muore nel novembre del 1847, dopo soli otto mesi di matrimonio.

Nel febbraio del 1848 ritorna a Parigi, su incarico della dirigenza politica torinese, nei momenti della rivoluzione repubblicana. Poi rientra a Torino, presso il Re Carlo Alberto, con cui instaura un rapporto personale improntato a reciproca fiducia e considerazione. Entra in contatto con Cavour. Iniziata l’insurrezione di Milano, il 21 marzo porta alla Municipalità milanese il messaggio del Re e la sua disponibilità a entrare in guerra. Ottiene la costituzione del Governo Provvisorio, nonostante l’opposizione di Cattaneo, e torna a Torino per definire con Carlo Alberto le modalità dell’intervento piemontese. Con l’inizio della campagna di guerra, diventa inviato diplomatico del Governo Provvisorio presso Carlo Alberto. Diviene poi il maggior propugnatore della fusione istituzionale tra il Piemonte, la Lombardia, il Veneto e i Ducati, che si realizza anche grazie al suo impegno diplomatico. Ammesso da Carlo Alberto alla cittadinanza piemontese, è nominato Ambasciatore regio, Capitano di Fregata (in Marina, il grado equivale a quello di Tenente Colonnello dell’Esercito) e Commendatore dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro. Nel 1849 è inviato da Gioberti in missione a Gaeta presso Pio IX e il cardinale Antonelli, dopo che le precedenti missioni di Rosmini, Ricciardi, De Ferrari e Della Minerva hanno fallito l’obiettivo di un’alleanza con il Papa. Comprende l’inutilità della missione e chiede di affiancare il suo Re nella breve campagna del 1849, però Chiodo e poi de Launay gli confermano di restare a Gaeta. Infine d’Azeglio invia Balbo presso il Papa e Martini può tornare a Torino.

Nella IV legislatura del parlamento subalpino, viene eletto deputato per il collegio di Genova. Diventa intimo di Cavour e facilita, insieme a Castelli e a Buffa, l’operazione del connubio politico con Rattazzi. Prende domicilio all’interno del palazzo Cavour di Torino. Non è estraneo alla estromissione politica di d’Azeglio. Si fa promotore durante il ministero Cavour di studi e proposte di riforma, come quella della Marina. Sostiene Siccardi e gli esponenti liberali che conducono l’operazione di contrasto alle gerarchie ecclesiastiche e il progetto di abolizione di determinati ordini religiosi. Con lui a Torino ci sono anche il fratello Alberto, l’amico Vincenzo Toffetti, che successivamente si ritirerà nell’eremo di San Michele, sopra San Remo, e il cugino Ottaviano Vimercati, vicinissimo a Vittorio Emanuele II (la madre di Ottaviano, Maria Martini, è sorella del padre di Enrico). All’inizio del 1851, sposa Maria Canera di Salasco, figlia del generale già Capo di Stato Maggiore di Carlo Alberto, che nel dicembre 1851 gli dà una figlia, Virginia, battezzata nella chiesa della Madonna degli Angeli, a pochi passi dalla loro residenza familiare in palazzo Cavour. Il matrimonio viene annullato due anni dopo dalle autorità religiose, a seguito di un accordo consensuale basato sulla comune presa d’atto dell’impossibilità a mantenere in essere il rapporto coniugale. Nel 1854 Maria emigrerà a Londra e da lì avrà inizio la sua celebre vita avventurosa, che la vedrà legata a Garibaldi, alla spedizione dei Mille e ad altre romanzesche vicende. Nel 1853 Martini è colpito dal provvedimento di sequestro di tutti i suoi beni da parte dell’Austria. Si tratta di uno dei patrimoni familiari più ingenti del territorio cremasco. Si consulta con Cavour e con altri esponenti politici torinesi, definendo il suo ritorno in Lombardia.

Chiede e ottiene allora il rimpatrio dal Piemonte a Crema, accettando la sudditanza all’Austria e favorendo così gli attacchi di quanti avrebbero voluto vederlo portatore di un beau geste patriottico ma in totale rovina economica e politica. Come la maggior parte dei patrioti colpiti dal sequestro, si attiva per evitarlo ma, essendo tra i pochi a riuscirci (per lui si muove anche Thiers, che frequenta a Parigi il salotto della sorella di Enrico, la contessa Emilia Martini Taverna), finisce col subire l’astio degli esclusi dalla remissione del provvedimento. La stessa dirigenza liberale di Torino cerca di facilitare, per i numerosi esuli lombardi colpiti in modo così drastico, soluzioni che evitino la distruzione dei patrimoni della nobiltà filopiemontese e la loro confisca da parte dell'Austria. Cavour in prima persona, in quel periodo, fa del tema del sequestro dei beni degli esuli uno dei principali punti di discussione e mediazione con l’alleato francese e con le potenze europee. Sa infatti che la nobiltà lombarda filosabauda diventerà, dopo pochi anni, preziosa per i suoi progetti politici. Dopo il 1859, le soluzioni adottate per evitare le conseguenze drammatiche di tale confisca, così come accaduto del resto per molti altri patrioti (si pensi ad esempio a Cristina di Belgiojoso, i cui tentativi hanno però meno successo di quelli di Martini), saranno strumentalizzate nelle lotte politiche postunitarie. Infatti, nelle varie tornate elettorali per il collegio di Crema, Martini dovrà subire per questo motivo gli attacchi dei suoi antagonisti, anche di quelli improvvisatisi corifei di italianità dopo aver servito per decenni l’Austria (è allora che la propaganda elettorale avversaria escogita la locuzione “impune rimpatrio”).

Dal 1854 al 1858 risiede spesso nella villa di famiglia a San Bernardino, alternando i viaggi in Europa allo sviluppo di nuove tecniche di coltivazione nelle sue tenute agricole, sperimentando, tra i primi nel territorio cremasco, l'utilizzo delle cosiddette marcite. E’ sempre in contatto con Cavour, Rattazzi e gli altri esponenti del governo di Torino. Invia loro, correndo rischi notevoli, periodiche relazioni sulla situazione politica ed economica della Lombardia, avendone in cambio indicazioni sui nuovi sviluppi che, dopo la guerra di Crimea, tra il 1857 e il 1858 stanno portando alla guerra italo-francese contro l’Austria e quindi alla prossima liberazione dei territori lombardi. Anche in base alle indicazioni della dirigenza politica torinese, tra la seconda metà del 1858 e i primi mesi del 1859 raccoglie a Crema quei consensi e quelle adesioni che gli consentiranno di costituire una prima base operativa politica in vista delle imminenti modifiche istituzionali. Dopo l’unione della Lombardia al Piemonte, nel 1860 si candida al parlamento e viene eletto nella VII legislatura per il collegio di Crema.

Alle successive elezioni del 1861 per l’VIII legislatura, la prima del Regno d’Italia, il partito conservatore locale gli oppone con successo la candidatura di Faustino Vimercati Sanseverino, che sarebbe stato di certo confermato nel collegio di Soncino ma che viene condotto, in modo strumentale, ormai sessantenne, nella lotta per quello di Crema, in una contesa elettorale così indecorosa da nuocere tanto al vinto quanto al vincitore. Dopo questa momentanea sconfitta del 1861, nelle successive legislature Martini ottiene sempre delle schiaccianti vittorie, senza neppure la necessità del ballottaggio. Viene infatti eletto per il collegio di Crema sia nel 1865, nella IX legislatura, sia nel 1867, nella X legislatura. Gli avversari soccombenti tentano di accusarlo di brogli elettorali ma tutte le indagini che ne conseguono dimostrano la correttezza delle sue vittorie. La dirigenza politica nazionale del tempo, a partire da Rattazzi, condanna queste accuse e sostiene Martini, di cui si ipotizzano anzi, negli anni immediatamente a venire, incarichi ministeriali nei governi successivi. Ma quella che sta per diventare una brillante carriera politica a livello nazionale è interrotta dalla sua prematura scomparsa, il 24 aprile 1869. I suoi resti vengono tumulati nella cappella di famiglia del cimitero di San Bernardino.

Quando Enrico Martini viene a mancare nel 1869, la famiglia si prende cura dei suoi archivi personali, ricchi di carteggi diplomatici, corrispondenza politica, incartamenti parlamentari e documenti sui suoi rapporti con gli esponenti istituzionali e culturali del tempo, dalla metà degli anni Quaranta fino ai suoi ultimi mesi di vita. Il fratello Alberto, la sorella Emilia e la figlia Virginia raccolgono e ordinano con diligenza una documentazione cospicua e di notevole interesse storico, conservandola con attenzione e discrezione. Il quarto figlio di Francesco Martini, Lodovico, era morto adolescente. Quando alcuni anni dopo anche Alberto (1819-1873) viene a mancare e quando Virginia sposa nel 1874 Giuseppe Vimercati Sanseverino, Emilia rimane la principale custode di questo patrimonio archivistico familiare, oltre che, più in generale, della memoria del fratello Enrico. Emilia (1820-1899) ha sposato giovanissima il conte Lorenzo Taverna di Milano, da cui si è però presto separata. Dopo aver vissuto diversi anni a Parigi, alterna ora la sua residenza tra la casa di Milano e la villa di San Bernardino.

All’inizio degli anni Ottanta, Emilia entra in corrispondenza epistolare con Luigi Chiala. Già ufficiale dell’esercito, vicino ad Alfonso Ferrero della Marmora, eletto deputato nel 1882 e senatore nel 1892, autore negli anni precedenti di importanti pubblicazioni di carattere storico e militare, Chiala sta preparando l’opera che gli darà maggior fama nei decenni successivi: le “Lettere edite ed inedite di Camillo Cavour”, pubblicate in sei volumi tra il 1883 e il 1887. Emilia, d’accordo con la nipote Virginia, gli invia parte della documentazione del fratello, comprendente la corrispondenza con Cavour e due suoi manoscritti: il primo, di maggiore estensione e rilevanza, viene comunemente definito “Memorie” o “Ricordi politici del 1848” ed è stato composto nel 1848; il secondo, più breve, è dei primi mesi del 1869 e risulta quindi redatto da Enrico poco prima della sua scomparsa. Chiala, che è uno studioso e un ricercatore storico molto preparato e rigoroso, resta impressionato dalla rilevanza di questa documentazione e dalle informazioni che vi sono contenute, con particolare riferimento alle effettive dinamiche delle parti politiche coinvolte nel Quarantotto milanese e nella prima guerra di indipendenza. La corrispondenza tra Emilia e Luigi Chiala continua poi negli anni successivi. Quindi Chiala utilizza, con il consenso di Emilia e di Virginia, quanto gli può essere utile per la sua pubblicazione su Cavour e sottolinea ad Emilia il grande valore storico di questo archivio familiare e delle Memorie del fratello.

Intanto, nel 1881 si è svolta l’Esposizione Generale di Torino, in cui è stata organizzata una Sezione Storica intesa a illustrare, a vent’anni di distanza dalla formazione del Regno d’Italia, le vicende del nostro Risorgimento. La città di Milano partecipa alla Sezione Storica con numerosi documenti e cimeli. Il sindaco di Milano, Gaetano Negri, costituisce delle commissioni municipali con lo scopo di trasformare il materiale raccolto a quei fini in una esposizione permanente che celebri le glorie patriottiche italiane e, soprattutto, milanesi. Tra il 1883 e il 1884 vengono così gettate le basi per la fondazione di un nuovo museo, che sarà poi il Museo del Risorgimento di Milano. La lettura dei verbali delle “Commissioni Consultive del Museo”, dal 22 novembre 1883 al 15 dicembre 1884, ed una minima conoscenza dei fatti, dei personaggi e delle lotte politiche del 1848 a Milano non lasciano dubbi sul genere di operazione svolta in quella circostanza. Basta scorrere i nomi dei componenti di tali Commissioni: Cesare Correnti, Gabrio Casati, Carlo d’Adda, Giovanni Visconti Venosta e via dicendo. Si tratta dei superstiti della lobby aristocratica moderata milanese, inizialmente alquanto tiepida verso l’alleato piemontese, spesso in antagonismo con la componente albertista che fu artefice della fusione con il Regno di Sardegna e che alla fine prevalse nettamente. Ci sono anche alcuni repubblicani milanesi usciti seccamente sconfitti dal plebiscito del maggio 1848, ormai ben integrati nelle istituzioni monarchiche. Con l’eccezione di Correnti, che aveva poi riconosciuto a Martini le sue giuste ragioni, gli altri soccombenti erano usciti parecchio rancorosi dallo scontro coi fusionisti.

Si realizza così la codificazione ufficiale del canone patriottico milanese, che enfatizza il ruolo del ceto nobiliare cittadino, camuffando spesso per patriottismo il proprio campanilismo e minimizzando l’operato dei patrioti più vicini a Carlo Alberto. Iniziano anche le strumentalizzazioni delle frequentazioni del salotto della Samoylova, in precedenza contrapposto a quello tutto meneghino della Clarina Maffei, come ben indicato da autori validi (vedi il Bonfadini). E’ una codificazione che conserva al suo interno anche mal dissimulate punte di nostalgia per una certa inconcludente facinorosità, tipica di quegli aristocratici milanesi che nel 1848 si atteggiarono a republicaneggianti. Questa enfatizzazione del ruolo di coloro che risultarono storicamente soccombenti nel 1848 (e poi in tutto il Risorgimento) darà i suoi frutti nel secondo dopoguerra, quando questa riscrittura storica sarà completata in chiave opportunamente antisabauda dagli osanna a Carlo Cattaneo e ai suoi libelli antipiemontesi.

Emilia ha ottime entrature nell’ambiente culturale milanese e probabilmente ha anche la possibilità di leggere quei verbali delle Commissioni. Si rende conto del fatto che, a metà degli anni Ottanta, questa sorta di Concilio di Nicea del Risorgimento lombardo ha ormai fissato i testi sacri e scartato tutti gli altri. Ed i padri conciliari sono gli stessi che suo fratello ha combattuto politicamente nel 1848, descrivendoli con impietosa chiarezza e inoppugnabile precisione nel suo manoscritto, che contiene brani estremamente illuminanti sui pretesi eroismi e sulla presunta lungimiranza politica di tanti celebrati padri della Patria. Adesso le Memorie di Enrico Martini sono diventate un’eresia rispetto al vangelo ambrosiano. La scelta è se sollevare un vespaio oppure attendere un momento in cui la polemica possa risultare meno aspra. Emilia sceglie la seconda strada. Non segue la proposta di Chiala, volta ad aprire gli archivi del fratello, nonostante i ripetuti inviti di questo storico. Li sigilla di nuovo.

Seguono anni difficili per Emilia, che vede progressivamente estinguersi la propria famiglia. Virginia e Giuseppe Vimercati Sanseverino non hanno figli. Virginia muore nel 1893 e l’anno successivo viene a mancare anche Giuseppe. Si chiude quindi in tal modo la linea di sangue legittima di Enrico. L’unica figlia di Alberto Martini e di sua moglie Antonietta Landriani di Vidigulfo si chiama Emilia come la zia. Questa nipote ha sposato nel 1876 Gerolamo Rossi, figlio di Antonio, amico ed erede di Vincenzo Toffetti a Ombriano. La coppia non sembra nutrire molto interesse per la memoria di Enrico Martini, anche se Gerolamo Rossi aggiungerà nel 1895 al proprio cognome quello dei Martini. Sua moglie Emilia, l’ultima dei Martini del ramo di Andrea, morirà quasi centenaria nel 1953. Sua figlia Antonietta Caterina, l’ultima sopravvissuta dei Rossi-Martini, morirà ultranovantenne nel 1970. Né i Rossi, né i Landriani, né i Vimercati Sanseverino sembrano interessati a mantenere vivo il ricordo di Enrico Martini. Pare anzi che tale ricordo venga rimosso. I motivi di questa rimozione possono essere vari. Emilia cerca allora di evitare la dispersione dei documenti d’archivio da lei custoditi sino a quel momento, nel tentativo di salvare almeno la memoria del fratello e del suo operato, rassegnandosi all’ipotesi di un conferimento di questa documentazione al Museo del Risorgimento di Milano.

Nel 1894, dopo aver ben ponderato e definito le condizioni di questa operazione con la struttura museale milanese, Emilia dona al Museo del Risorgimento la maggior parte del materiale del fratello, che costituisce ancor oggi il fondo archivistico Enrico Martini. Probabilmente non conferisce tutto l’archivio di Enrico. Emilia muore cinque anni dopo, nel 1899. L’acquisizione di questa documentazione da parte del Museo non dà adito, per qualche tempo, a particolari attenzioni o rilievi. All’inizio, il fondo Martini è poco consultato e sono scarsi gli studiosi che vi fanno ricorso. Occorre attendere i primi anni del Novecento perché ci si renda conto del fatto che le Memorie esprimono punti di vista antitetici a quelli dell’ormai diffusa oleografia sulle Cinque Giornate. Come infatti si è detto, il manoscritto di queste Memorie chiarisce, in termini ben diversi da quelli consolidati, molti aspetti riferiti a quegli eventi e riconduce alla realtà dei fatti una certa agiografia di campanile, tesa ad enfatizzare i meriti di una ristretta cerchia di famiglie nobili cittadine e di certi repubblicani del Quarantotto, poi convertitisi alla monarchia sabauda per motivi di opportunità. Fatto sta che, un poco alla volta, diventa chiara la contraddizione tra questo manoscritto e la memorialistica celebrativa risorgimentale milanese. Intanto, la citata pubblicazione del Chiala e altri testi riferibili ad ambiti torinesi di matrice cavouriana o anche semplicemente fedeli alla memoria carlo-albertina iniziano a dare degli avvenimenti risorgimentali, in particolare dei fatti delle Cinque Giornate, una versione non lontana da quella delle Memorie di Martini. Tanto che qualcuno arriva anche ad auspicare una loro edizione a stampa.

L’Italia è allora molto diversa da quella degli anni dell’unificazione. Quasi tutti i protagonisti del Risorgimento sono morti. A Milano si è conclusa la escalation celebrativa quarantottesca ufficiale, con il suggello delle ultime esternazioni pubbliche di Cesare Correnti, delle affermazioni memorialistiche di Giovanni Visconti Venosta e delle numerose pubblicazioni che hanno definitivamente codificato per i posteri l’oleografia locale. A questo punto, le Memorie di Martini, anche se non ancora pubblicate, possono diventare scomode. Ecco quindi che nel 1906 il colonnello Carlo Pagani dà alle stampe, presso la casa editrice Cogliati di Milano, il libro “Uomini e cose in Milano dal marzo all’agosto 1848”. È un’opera che in teoria si proporrebbe la pubblicazione delle Memorie di Martini. Per lo meno, così viene allora pubblicizzata. Di fatto, si tratta di un testo tutto teso a contrastare la versione dei fatti esistente nelle Memorie di Martini, che sono riprodotte nel libro del Pagani in modo parziale, con esplicite e pesanti censure riguardo al loro contenuto. Questa operazione editoriale può anche essere vista come un modo per rendere pubblicamente meno opportuna una pubblicazione corretta e integrale di quel manoscritto, anticipandone preventivamente (e in modo ben orientato) i contenuti.

Lo zelante Pagani dichiara subito, in apertura d’opera (“A chi legge”) il contenuto della sua missione speciale: difendere il patriziato milanese dalle accuse delle Memorie, confutando gli argomenti del loro autore e confermando i meriti di quella parte nobiliare cittadina davanti alla Patria e alla Storia. L’obiettivo apologetico nei confronti dell’establishment milanese è poi ripetutamente ribadito nel corso del testo, quasi a rassicurare che, grazie alle argomentazioni del solerte colonnello, il lettore non correrà il rischio di credere alle parole di Enrico Martini. Colpisce dunque, sin dalle prime pagine dell’opera, il dichiarato ed esplicito intento di delegittimazione delle Memorie, del tutto palese e ben sottolineato. Non si può dire, leggendo questo testo, che l’azione delegittimante sia occulta e celata. Cooptato dall’establishment ambrosiano all’inizio del Novecento, Pagani diventerà successivamente generale e non mancherà di intervenire attivamente nei contesti culturali e nelle associazioni storiche milanesi. Il problema posto dalle Memorie viene così risolto, almeno temporaneamente, con tale operazione editoriale di sbarramento storiografico. Questa edizione delle Memorie, opportunamente riveduta e corretta dal diligente Pagani, è un chiaro esempio di depistaggio mediatico. Contiene infatti un apparato molto orientato di brani esplicativi, di ben posizionate note a commento e di valutazioni critiche verso il contenuto originario del manoscritto. Ed è basata, come si è detto, su significative omissioni. Un lavoro accurato e metodico, rilevabile solo da un attento esame comparativo del testo dato alle stampe dal Pagani rispetto ai brani corrispondenti, contenuti nell’originale delle Memorie. 

Per parecchio tempo, sono stati numerosi i ricercatori che, volendo evitare di accollarsi l’opera di lettura e trascrizione diretta dall’originale delle Memorie, si sono basati sul testo a stampa di Pagani, riproducendo le sue omissioni e le sue alterazioni. Si è trattato di storici, studiosi, giornalisti. Si sa, non tutti se la sentono di sobbarcarsi le fatiche della consultazione dei documenti d’archivio originali. Sfogliare un libro stampato e citarne i brani ritenuti maggiormente utili è molto più facile e veloce. Solo una ragazza intelligente e coraggiosa, nel preparare la sua tesi di laurea su Enrico Martini, discussa nel 1964 presso l’Università degli Studi di Milano con il prof. Leopoldo Marchetti, ha letto con attenzione le Memorie e ha accuratamente rilevato le interpolazioni e le omissioni di cui Pagani si è reso consapevolmente responsabile, assestando un colpo decisivo alla sua credibilità. Il nome di questa ragazza è Milvia Fodri. E l’autorità di uno studioso come Leopoldo Marchetti, nel panorama della nostra tradizione storiografica, non è certo discutibile. Una simile tesi di laurea assume quindi, agli occhi di chiunque conosca bene i contesti accademici e culturali nazionali, una rilevanza già di per sé notevole. Leggendo poi attentamente il contenuto di questo lavoro, si può avere sicura e definitiva conferma della validità di quanto ivi rilevato, ponderato e ben valutato. Un’altra meritevole tesi di laurea su Enrico Martini, che però lascia ancora parecchio spazio al testo del Pagani, è quella di Pierangela Bonomi, discussa nel 1972 presso l’università Cattolica di Milano con il prof. Bernardino Ferrari. La Bonomi sembra avvertire gli eccessi del Pagani. Ma forse non conosce il testo della Fodri. 

L’aver messo in luce l’inaffidabilità di Pagani non è stato l’unico o il principale merito della tesi di laurea di Milvia Fodri. Numerosi e validi sono stati i contributi forniti dal suo accuratissimo lavoro su Enrico Martini, non certo mutuati da pubblicazioni di facile accessibilità ma frutto di nuove ricerche d’archivio e di considerazioni molto pertinenti, sempre basate su approfondimenti quanto mai documentati. Insomma, c’è molto materiale ricavato dagli accessi a fondi storici semi-inesplorati a Milano e a Torino, dalle interviste con le ultime discendenti Rossi-Martini, dai testi sul Quarantotto sino ad allora quasi dimenticati (la meritevole opera del prof. Antonio Monti e di altri studiosi coevi non aveva potuto esaurire tutti i risvolti quarantotteschi, in occasione delle celebrazioni del centenario nel 1948). Milvia Fodri trova anche un’immagine di Enrico Martini molto giovane, del tutto inedita, e la pone all’inizio della sua tesi. E fotografa, all’interno della cappella di famiglia dei Martini a San Bernardino, i luoghi di tumulazione di Enrico Martini e dei suoi familiari, con le relative ornature scultoree. Una documentazione oggi preziosa, qualunque possa essere l’utilizzo che si intenda farne.

È in gran parte merito di questa tesi di laurea, guidata e approvata da Leopoldo Marchetti, se i detrattori di Enrico Martini, come ad esempio coloro che hanno utilizzato in passato il libro del Pagani per i loro fini denigratori, oggi non possono più ricorrere in modo credibile a questo testo. Inoltre, per fare soltanto un esempio, oggi sappiamo che un brano delle Memorie, redatto in data 19 marzo 1848, scritto in evidente pericolo di vita, dice effettivamente “raccomando all’Alberto il sepolcro della povera Deidamia” (la prima moglie di Martini, come si è detto) e non “raccomando all’Alberto il nipotino della povera Dei Caccia”, come invece riportato da Pagani. Gli esempi sono parecchi e stupisce che, per così tanto tempo, nessun ricercatore e studioso abbia avuto saputo rilevarli, prima che lo facesse una semplice laureanda, per quanto molto brava. Ma così a volte vanno le cose, anche nella ricerca storica. L’abitudine al “palleggio delle citazioni”, senza il controllo dei documenti originali d’archivio, non è qualcosa di nuovo o di inusuale. 

Ovviamente, quanto affermato nelle Memorie non costituisce una verità assoluta, non rappresenta l’unica interpretazione veritiera dei fatti accaduti in quei frangenti storici. Ci sono anche affermazioni poco condivisibili, opinioni discutibili, punti di vista molto soggettivi. Ma questo è normale e appartiene al consueto processo di redazione dei testi aventi carattere diaristico e memoriale. E non solo di quelli. È umanamente comprensibile che anche in queste Memorie ci possano essere elementi su cui confrontarsi, discutere e magari esprimere opposte considerazioni. In particolare, pensando al nostro Risorgimento, soprattutto al Quarantotto e alle Cinque Giornate, è risaputo quanto le relative rievocazioni, interpretazioni e prese di posizione successive abbiano fornito (e ancor oggi offrano) visioni e convinzioni differenti e spesso conflittuali. Il nostro processo storico risorgimentale non è stato quel facile idillio che a volte viene illustrato in certe trattazioni superficiali. Le differenze di credo, fazione ed azione sono state continue e laceranti. Per cui, anche le Memorie di Enrico Martini si inscrivono in questo scenario storico, fin dal suo inizio così divisivo e ancor oggi così controverso.

Ciò posto, chiarito che anche Enrico Martini era uomo di parte e di fazione (come tutti, allora) ma anche uomo di fede patriottica superiore alle parti e alle fazioni, in nome dell’Italia in quei momenti ancora tutta da creare e costruire, torniamo al libro di Pagani. Un elemento delle Memorie per il quale Pagani ostenta ipocritamente rammarico e riprovazione è l’indubbia vis polemica che in certi brani Martini dimostra nei confronti di taluni personaggi, quasi sempre appartenenti alla cerchia aristocratica milanese di cui Pagani è in effetti, con questa sua sistematica operazione denigratoria, il portavoce editoriale. Pagani infatti assume in molti di questi casi l’atteggiamento del benpensante che si scandalizza di fronte alle affermazioni troppo dirette, alle descrizioni troppo impietose, ai resoconti troppo aggressivi. Insomma, recita la parte del gentiluomo tutto fair play, savoir faire e bon ton, per evidenziare come Martini esageri nelle critiche agli avversari, ecceda nelle censure, non riesca a darsi sufficiente controllo e misura nel giudicare gli antagonisti. Pagani pare prendere da parte il lettore e, con l’aria del gran signore tutto contegno e dignità, sembra dirgli con aria complice che queste pagine di Martini, così violente verso i poveri avversari, manifestano un eccesso di critica e un atteggiamento tanto ingeneroso quanto ingiusto nei confronti di quegli uomini così ammodo, meritevoli e perbene.

Questa modalità narrativa viene utilizzata a più riprese da Pagani per distogliere il lettore dai precisi contenuti sostanziali delle Memorie e condurlo sulla via del biasimo verso un Enrico Martini presentato come esageratamente polemico, verbalmente intemperante e quindi poco affidabile nei suoi giudizi su fatti, cose e persone. In realtà, il testo di Enrico Martini presenta veri e propri pezzi di bravura, che colpiscono in modo micidiale certi comportamenti e determinate situazioni, con un senso dell’umorismo e una capacità di rappresentazione davvero notevoli e, per chi ha studiato quel contesto storico e quei personaggi, proprio godibilissimi. E’ noto quanto la sua preparazione letteraria fosse stata solida negli anni degli studi e quanto l’esercizio dello scrivere si fosse in lui affinato attraverso frequentazioni, in Italia e in Europa, di tutto rispetto. Non a caso Terenzio Mamiani della Rovere considerava Martini, negli anni della loro frequentazione a Parigi, uno dei suoi migliori interlocutori in campo letterario, oltre che politico. Nelle Memorie ci sono passaggi e frasi formidabili per la loro efficacia e pregnanza. Probabilmente, si tratta delle pagine che più inquietavano i salotti milanesi.

Ciò detto, appare del tutto pretestuoso il tentativo di indicare al lettore come eccessivi e fuori misura i giudizi personali contenuti nelle Memorie, in quanto mancanti di quell’equilibrio e di quella pacatezza che secondo Pagani dovrebbero contraddistinguere anche i rapporti di interlocuzione più difficili. Ed emerge in tutta la sua gravità la disparità di trattamento che in tal modo si introdurrebbe tra le Memorie di Martini e gli innumerevoli testi dati alle stampe in quello stesso periodo storico, caratterizzato da aspri contrasti personali e, conseguentemente, da scritti di una violenza spesso inaudita. Non serve un’approfondita conoscenza della letteratura politica risorgimentale in genere e di quella quarantottesca in particolare per comprendere all’istante come Martini non abbia nulla da invidiare, quanto a forza polemica e aggressività dialettica, ad altri autori del suo tempo, ai cui scritti sono riservati oggi encomi e notorietà, pur contenendo le esternazioni più offensive e pregiudizievoli dell’onore altrui. Ne è un lampante esempio il testo di Carlo Cattaneo “L’insurrezione di Milano nel 1848”, per non citare che uno degli scritti di Cattaneo in cui abbondano gli attacchi personali più indegni, come già Bonfadini, Torelli, Antonio Casati e altri ebbero a rilevare. A questo proposito, va ricordato come ancor oggi si debbano studiare sui banchi di scuola i testi basati su quella “retorica dell’anti-retorica”, per dirla con Antonio Monti, che attraverso la filiera storiografica degli Spellanzon, dei Della Peruta e dei loro epigoni, spesso gratificati con incarichi ufficiali nelle attuali istituzioni di storia patria, invece di stigmatizzare gli eccessi di Cattaneo contro chiunque non la pensasse come lui, li hanno ripresi e riciclati di continuo. Le librerie e il web abbondano di testi che ripropongono acriticamente le gravissime, velenose e ingiustificate accuse di Cattaneo, lanciate stizzosamente contro tutti coloro che non si genuflettevano davanti alla sua politecnica spocchia professorale.

L’esempio di Cattaneo è solo uno dei tanti che si potrebbero fare a testimonianza della violenza contenuta non soltanto nella memorialistica risorgimentale ma anche in innumerevoli corrispondenze epistolari, editoriali giornalistici e pubblicazioni a stampa. Come si è già detto, il Risorgimento non fu un pacifico periodo di condivisione tra patrioti ma un conflittuale processo storico intessuto di terribili contrasti, furibonde contrapposizioni e acerrime polemiche. Gli scritti dei suoi protagonisti sono lo specchio di questo continuo procedere per contese più che per intese. Tra l’altro, lo stesso Martini fu tra i più duramente colpiti da Cattaneo, in quanto molto vicino a Carlo Alberto, in quanto vincitore il 21 marzo della fondamentale contesa con Cattaneo sulla formazione o meno del Governo Provvisorio e in quanto artefice di quella fusione istituzionale che pose la parola fine alle utopiche fantasie federali e cantonali dello stesso Cattaneo, quando i reggimenti di Radetzky erano già dietro l’uscio del governo Casati. In pratica, i suoi avversari poterono attaccare pesantemente, in modo incredibilmente ingiurioso, Enrico Martini. Basti, per intenderci, la similitudine fatta da Cattaneo tra Martini e Sgricci. Quando lui si difese dai suoi detrattori, evitando di offrire sempre l’altra guancia, e quando a distanza di anni i suoi scritti divennero accessibili al pubblico, si decise di far scendere in campo Pagani con i suoi rimbrotti da purista del bello scrivere, dandogli l’incarico di esporre l’autore delle Memorie alla riprovazione dei lettori e all’orchestrata censura della storiografia meneghina.

Pagani però non si limita a interpolare le Memorie ed a delegittimarle in modo sistematico nelle sue chiose e nelle sue glosse. Cerca anche di sminuire l’immagine fisica e caratteriale di Enrico Martini, descrivendolo come un “bel giovane, di aspetto distinto, elegantissimo nel vestire, abbondante nella parola, caro alle signore nonostante zoppicasse un tantino da un piede come Talleyrand”. Essendo nato a San Bernardino di Crema, viene anche definito come “l’insinuante cremasco”. A saper leggere tra le righe, ne esce il ritratto di un dandy esibizionista e chiacchierone, zoppo e “insinuante”. In realtà, Enrico Martini riesce a entrare nella Milano assediata dagli austriaci dopo prove fisiche notevoli e riesce ad uscirne con molto coraggio. Insieme a Borgazzi, che però viene colpito a morte dalla fucileria nemica, è uno dei due soli patrioti, temerari fino all’incoscienza, che riescono a superare sia in entrata che in uscita, durante le Cinque Giornate, il formidabile blocco militare austriaco. Non Casati, non Borromeo, non d’Adda, non Cattaneo, non Correnti, non altri: lui. A fine marzo, dopo giorni di pioggia e con il fiume in piena, a detta di Correnti attraversa il Ticino a nuoto per portare al suo Re il messaggio dei milanesi. Forse qui Correnti esagera. Chi conosce le piene del Ticino sa che cosa significherebbe. Ma non ci sono dubbi sul modello comportamentale di Martini. Che anzi potrebbe essere criticato per un certo eccesso di byronismo, per richiamare una celebre opera di Mario Praz. E si potrebbe continuare a lungo, con altri esempi di prestanza fisica e forza caratteriale.

Enrico Martini non “insinua” proprio un bel niente e, come ambasciatore, poi come parlamentare, parla chiaro e forte, anzi forse in certi casi esagera in senso contrario. Se a volte è elegante, è perché tratta con sovrani e ministri, non perché è un damerino. Al contrario, ha una concezione molto “fisica” della vita, da tutti i punti di vista. Quanto alla fola dello “zoppicare un tantino”, Enrico Martini riuscì sempre a non dare a vedere che la frattura al tarso del 1837, allora mal curata, gli provocava a volte qualche difficoltà nell’appoggio del piede. Fu proprio Pagani a svelare con compiacimento, approfittando forse di un’ingenua confidenza da parte di Antonietta Landriani o di sua figlia Emilia (beffardamente ringraziate da Carlo Pagani per le informazioni resegli, all’inizio del suo testo basato sulla delegittimazione del rispettivo cognato e zio), questo piccolo segreto familiare. Il segreto di un uomo che concepiva la vita come forza ed energia continua, che quando si ammalava non voleva si vedesse e che tentò di nascondere, almeno sino a quando riuscì a farlo, il male che alla fine lo portò alla tomba. Ma anche questo fece parte della “missione speciale” compiuta dal colonnello Carlo Pagani, il quale agì soltanto dopo che la sorella e la figlia di Enrico Martini erano scomparse, non temendo più la reazione di due persone che, se fossero state ancora in vita, della memoria del loro congiunto avrebbero saputo essere valide custodi.

Verrebbe infine da dire che, quando una famiglia si estingue, in assenza di discendenti che possano poi rammentare nelle ricorrenze e nelle sedi opportune chi dovrebbe essere ricordato, è più probabile che si perda pubblicamente la memoria di personaggi che invece sarebbero degni di non finire nell’oblio. Anche per questo, un auspicio è che il testo delle Memorie di Enrico Martini possa diventare accessibile al grande pubblico, attraverso un’opportuna iniziativa editoriale.

Nell’immagine: Karl Pavlovič Brjullov, “Ritratto del conte Enrico Martini su un calesse”, Museo Civico di Crema e del Cremasco.

 

Pietro Martini


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