18 novembre 2021

Quando per la prima dell'opera si accendevano le lampade ad olio

Mario Levi, grande cronista e direttore del giornale la Provincia, raccolse nel 1955 una serie di articoli sia inediti che del quotidiano locale in una agile pubblicazione dal titolo "Vecchia Cremona". E' il racconto di una Cremona che non c'è più. Riprendiamo da "Vecchia Cremona", un pezzo che racconta come ci si preparava nell'Ottocento per la prima dell'opera.

Quando, nei tempi andati, il Condominio del teatro della Concordia aveva fissato le tre o quattro opere da rappresentare nel corso di due mesi consecutivi e la direzione aveva fatto i necessari approcci, il presidente, conte Fortunato Turina, impartiva le sue disposizioni affinchè nella sera di santo Stefano in cui lo spettacolo doveva essere inaugurato, fosse tutto pronto.

Il conte Fortunato Turina, che aveva la sua casa patrizia in piazza Filodrammatici, era un'autorità in materia di teatro, non solo perchè (come, del resto, tutti i nobili del suo tempo) era appassionatissimo per le opere, non solo perchè era il presidente era il presidente della “Concordia”, una carica, allora, ambita ed altissima, ma perchè il suo nome era legato a quello di Vincenzo Bellini. Casa Turina, aveva terre e palazzo anche a Casalbuttano. Oggi, quell'edificio è diventato la sede del Comune; ma sulla facciata, vi è ancora una lapide nella quale viene tramandato un glorioso racconto: qui, proprio in questo palazzo, ospite dei Turina, Vincenzo Bellini, compose la Norma. In tempi in cui il fanatismo teatrale era al di sopra di ogni altra passione, in giorni in cui il pubblico (i fastigi del giuoco del calcio erano ancora al di là da venire) faceva il tifo per un soprano o per una prima ballerina, questa d'aver dato ospitalità al “Cigno Catanese” in un suo splendido momento creativo, era tal gloria, che nessun altro nobile cremonese avrebbe mai potuto aspirare a “soffiare” a Fortunato Turina, il posto di presidente del teatro.

Turina frequentava palcoscenico e sale di prova da quando i primi i primi operai vi cominciavano a lavorare; e sino all'ultima sera dello spettacolo, era (con il suo candido sparato di pizzo) fra i più assidui e severi tutori della perfezione e della disciplina del teatro. Allora, in teatro, vi erano persone che svolgevano mansioni alle quali oggi non si penserebbe neppure. Per esempio: i lampionisti ai quali era affidato la illuminazione della sala e del palcoscenico. Essi dovevano rivedere, una a una, tutte le lumiere a petrolio infisse alla ribalta, mettendo gli stoppini nuovi, tergere i tubi di vetro, controllare il buon funzionamento del minuscolo apparecchio che faceva salire lo stoppino. Poi si arrampicavano sulle soffitte, sollevavano il lampadario. Mettevano l'olio di balena in ogni ampolla, vi preparavano il lucignolo che infilavano in un piccolo galleggiante di sughero. Quindi cominciavano la rivista di tutte le lampade ad olio o a petrolio che vi erano nelle corsie dei palchi, nell'atrio, nel caffè dalle pareti coperte da pannelli dipinti, nei palchi. La manutenzione e il funzionamento dell'orologio, erano affidati all'orefice Ernesto Tarsetti, suonatore di corno e stimatore al Monte di Pietà.

Cosa si poteva ottenere in quelle luci fumose? Nessun effetto e una semioscuritàsecondo gli attuali concetti; ma i nostri nonni erano entusiasti di quegli effetti; e costituiva per loro un richiamo irresistibile l'annuncio fatto il occasione di qualche festa solenne:”Il teatro sarà illuminato a giorno”. Il che voleva dire che oltre alle comuni lampade a olio venivano accese anche le candele dei bracciali, che continuavano ad ardere anche quando sul palcoscenico si svolgeva lo spettacolo.

Deciso il repertorio, nel salone al secondo piano di quell'ala di fabbricato che sorge nel cortile del teatro, i pittori stendevano degli immensi fogli di carta sui quali, con pennelli grossi come scope, tracciavano disegni e spandevano colori, che poi rappresentavano sale sfarzose, giardini misteriosi, cimiteri illuminati da “un raggio di incerta luna”, castelli dall' “orrida torre” e tutti gli altri elementi melodrammatici tanto cari ai nostri nonni. A pian terreno, invece, in alcune stanzaccie umide e prive di luce, le sarte riadattavano i vestiti che erano serviti nel corso di tante altre stagioni e che potevano benissimo essere utilizzati, con qualche piccolo accorgimento, sia per i coristi dell'Ernani, molti dei quali sono guerrieri, che per quelli del Trovatore che sono poi dei soldati, o per i Due Foscari dato che, in fondo, i veneziani andavano press'a poco vestiti come gli spagnoli...Erano tempi in cui non si andava troppo per il sottile in fatto di scene, di costumi e di stili.

La figura del direttore d'orchestra dopo l'esempio del celebre Mariani, aveva da poco sostituito quella del capo orchestra, rappresentato dal primo violino che ogni tanto staccava l'archetto dallo strumento per battere alcuni colpi sul leggio e ristabilire un equilibrio ritmico perduto; e al direttore di scena nessuno aveva ancora pensato. Erano gli stessi artisti che provvedevano a far disporre le masse, coì come le avevano viste negli altri teatri; e i coristi e le comparse, non avrebbero mai supposto che, oltre che cantare e far numero, avrebbero dovuto, un giorno o l'altro, compiere anche dei movimenti e delle azioni. Allora, sul palcoscenico, oltre alle goffe movenze dei divi, non vi erano che le evoluzioni delle ballerine, le quali costituivano una delle più notevoli attrattive di ogni spettacolo. Non si sarebbe potuto concepire una stagione d'opera senza le ballerine e senza una azione coreografica, dedicata esclusivamente a loro. Da qui la necessità di far giungere “sulla piazza” le ballerine molti giorni prima dell'inizio dello spettacolo, e di offrir loro una confortevole sala di prova, sia pur in coabitazione con le masse corali.

Gli orari venivano congegnati in modo che coristi e ballerine non avessero a interferirsi. Non si incontravano che sul palcoscenico, quando cominicavano le prove d'assieme. Una stagione lirica in quei tempi, richiedeva almeno due mesi di preparazione: era intorno al 15 ottobre che le sale venivano ripulite per essere pronte a ricevere le masse che dovevano iniziare le loro prove.

Quando la sera di santo Stefano lo spettacolo inaugurale stava per concludersi, i giovani “lions” cittadini si tenevano pronti per correre alla porta del palcoscenico, per poter avere “l'onore” (come si diceva in quei tempi...) di staccare i cavalli dalla vettura dell'artista preferito (o preferita) ed aggiogarsi alle stanghe, per trainare il veicolo sino alla porta dell'albergo Cappello in corso Campi fra le entusiastiche acclamazioni.  

Nella foto il bozzetto per il sipario del teatro Ponchielli andato in asta a Roma una decina di anni fa

Mario Levi


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