19 luglio 2021

Quel cuore cremonese che batté 34 milioni di volte prima di arrendersi alla pallottola austriaca. Impediamo al silenzio di averla vinta su tutto

Proprio il 4 luglio di centocinque anni fa si spegneva la vita di un fante italiano, Ernesto Brugnoli, classe 1888, del Comune di Castelverde, colpito in trincea ai primi di agosto dell’anno prima da un colpo di fucile, che gli penetrò nella spalla destra, rendendolo mutilato. Un caduto qualsiasi, in quegli anni della Grande Guerra, quando i soldati italiani vennero lanciati contro le difese austriache come “carne da cannone” da generali come Luigi Cadorna, convinto che le nostre truppe sarebbero arrivate rapidamente a Vienna? Certo che no, perché il Brugnoli fu suo malgrado protagonista di una vicenda di cui è giusto raccontare la straordinaria storia, in cui l’altro protagonista e narratore fu il dott. Ercolano Cappi, padre di quel Giuseppe Cappi, che sarebbe diventato giudice costituzionale e poi Presidente della Corte Costituzionale.

L’Italia era entrata in guerra il 24 maggio e si trovò a combattere lungo un fronte amplissimo, che andava dalle cime bresciane all’Adamello, poi dal Monte Grappa fino alle pietraie carsiche, in direzione di Gorizia e di Trieste. Gli alti comandi nutrivano l’illusione che la guerra “offensiva” portasse alla vittoria, senza rendersi conto che con fortilizi, trincee, fitti reticolati e armi automatiche i difensori aveva quasi sempre la meglio sugli assalti allo scoperto. Le offensive del Carso e dell’Isonzo, soprattutto, mostrarono tutta la disumanità della guerra tecnologica e l’insensibilità delle gerarchie militari nei confronti delle esigenze delle truppe. Le quali, composte in gran parte da contadini, si trovarono proiettate in un universo parallelo, che sconvolgeva, oltre ai corpi, le loro menti.

E' già stato sottolineato dalla storiografia, in particolare a partire dagli studi di Antonio Gibelli (L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri 1991), come l’importanza della guerra tecnologica di massa è da cogliere soprattutto nel come un insieme di eventi ed esperienze radicali ed indicibili trasformarono il mondo mentale dei combattenti, alle prese con una realtà che fuoriusciva da ogni possibile schema interpretativo, sconvolgendo la loro concezione del mondo: il senso della vita e della morte, la rappresentazione della società e della natura, l’immagine di sé e degli altri, l’identità personale e collettiva.

Scriveva in quel 1916 un concittadino del Brugnoli, Ubaldo Ferrari: l’infuriare de' colpi ha somiglianza di un brontolìo di terremoto, cupo, sordo, lungo, trepidante. E l'insistenza ottunde, istupidisce; i fischi e gli urli rabbiosi - i soldati li dicono di gatto - si incrociano,  si  assommano in un accordo disarmonico dello Strauss più genuino. Sibili taglienti d'artiglierie con bassi profondi di obici pesanti: se ci passano sul capo, nella subitanea anestesia della vitalità, resta a vibrare una sola energia, quella dedicatrice: In manus tuas Domine... La notte, lo spettacolo diviene fantastico. Immaginatevi un cielo di fuoco. Le  granate che scoppiano al suolo, gli shrapners che scoppiano in aria con una chiarezza vermiglia avida di sangue; le luci che salgono, che brillano che scendono, come stelle cadenti, rosee, candide, verdi, dei razzi; le luci inquiete, irrequiete, investigatrici, scrutatrici, inesorabili, implacabili, bianchissime, dei riflettori... Tutte cercano l'uomo nella notte, e per la notte.

Fin dalle prime offensive, i caduti furono diverse decine di migliaia, e moltissimi i feriti e gli invalidi. Tra questi Ernesto Brugnoli, soldato del 112 di fanteria: colpito nella notte fra il 4 e il 5 agosto mentre si trovava in trincea, da una palla di fucile penetratagli nella spalla destra, s’iniziò per lui quella serie di sofferenze che ebbero fine sul vespero del 4 luglio 1916. Soccorso subito nell’ospedale da campo di Palmanova, in provincia di Udine, venne trasferito per le cure a Firenze, a Piacenza, a Parma, poi nuovamente a Piacenza. Vista che la sua situazione sanitaria andava peggiorando ottenne il 18 giungo di ritornare a casa, almeno per morire tra le braccia dei suoi cari genitori costretti a sopravvivergli. Dove, tragedia nella tragedia, dieci giorni prima la moglie, Virginia Mascherpa, originaria di Pizzighettone, aveva dovuto piangere sul cadaverino dell’unica pargoletta, ritratto vivente di Lui.

Sorse subito la domanda: ma se è stato curato così bene e sembrava reagire così bene alle ferite, che erano rimarginate, come mai le sue condizioni andarono via via aggravandosi, fino a condurlo alla morte? Per risolvere il mistero si decise di eseguire l’autopsia, raccomandata dal Sindaco del Comune, Primo Ferrari, e accordata dalla famiglia. Ad eseguirla fu il dott. Ercolano Cappi, che ci ha lasciato una accuratissima relazione, pubblicata sul giornale “La Provincia”, il 28 luglio 1916.

Il cadavere, era in stato di avanzata putrefazione e irriconoscibile.  L'indagine venne  tosto portata sul moncone della spalla destra, dove si  distingueva  ancora,  malgrado lo sfacelo, un punto segnante l'ingresso del proiettile: ma il  risultato  fu  negativo. Con animo un po' sfiduciato misi allo scoperto le cavità del petto e del ventre e volli esaminar il cuore, la morte essendo avvenuta coi sintomi di una  malattia organica di cuore, giunta all'ultimo stadio, il gonfiore periferico. Oh meraviglia! Appena aperto il ventricolo sinistro, mi  trovai fra le dita un corpo durissimo, levigato, cilindrico: il  proiettile. Un  grido sfuggì da tre petti… Era lungo tre centimetri, coll'apice tondeggiante rivolto in alto, e occupava l'apice o  punta del cuore, dove maggiore è lo spessore delle pareti del viscere. Quivi si era scavato una nicchia, dalle pareti color plumbeo.

Il grido di meraviglia del dott. Cappi e dei suoi assistenti nasceva dal fatto che è quasi impossibile sopravvivere ad un colpo al cuore. Il dottore, con diligenza e spirito scientifico cita una casistica internazionale: 

West di Birnigam, parla  di un uomo che sopravvisse quattro anni ad un'ampia ferita al cuore. Ollivier e Sanson raccolsero 29 casi di ferite penetranti del cuore nelle quali la morte sopraggiunse  dopo ventiquattro ore dalla ferita stessa. Le ferite delle orecchiette sono ben più gravi di quelle dei ventricoli: le ferite in direzione traversale sono assai più gravi di quelle in direzione parallela all'asse del cuore. Ferrus  racconta di  un  uomo vissuto venti giorni con un piccolo ferro che attraversava il cuore da parte a parte.

Poi riferisce di altri casi straordinari: il caso d'ogni altro più interessante, e, per quanto mi consta, forse unico, è quello illustrato dal Dottor Armaingaud dinnanzi all'Accademia di Medicina di Parigi. Un giovine sergente era stato colpito da una scheggia di granata a mano ch'era penetrata nel ventricolo destro del cuore, dove è rimasta quattro mesi e mezzo, benché larga e lunga un centimetro e mezzo e del peso di un grammo e mezzo.

Il dott. Ercolano Cappi a questo punto del suo racconto inserisce un inno alla scienza e insieme all’Artefice dell’universo e del meraviglioso corpo umano:

"Tale è la struttura del cuore umano, meravigliosa pompa aspirante e premente  dinanzi alla quale l'arte idraulica si arresta quasi sgomenta. Pensate o lettori: il cuore  del Brugnoli ha battuto in media 70 volte al minuto: dal momento della ferita a quello della morte trascorsero 334 giorni. Esso ha dunque potuto contrarsi e dilatarsi, cioè compiere quel che dicesi in  linguaggio scientifico “una rivoluzione cardiaca”, con movimento di torsione sull'asse suo trascinando una palla di piombo pesante dieci grammi e due decigrammi, sapete quante volte? Trentaquattro milioni, seicentoventinovemila e cento venti volte. Cifre fantastiche che avvicinano l'anatomia alla astronomia, il finito all'infinito. Sì, l'anatomia svela le impronte di una sapienza e di una bontà infinita: amendue destano l'ammirazione, e con l'ammirazione l'entusiasmo, l' amore, l'ossequio, l'adorazione, per l'Autore del ciclo e della terra".

Che senso ha per noi, in questo travagliatissimo inizio di millennio, ricordare storie come questa? La storia di un “signor nessuno”, che però trovò un Sindaco e un Medico sensibili e rispettosi, fino a voler indagare nello sfacelo del corpo, la causa della morte, per restituire a Ernesto Brugnoli la giusta memoria di “caduto per la Patria”. Anche questa mia breve rievocazione a più di un secolo di distanza lavora nella direzione della giusta memoria.

Ogni singolo individuo è destinato a diventare un granellino di polvere disperso dal turbine del Tempo e della Storia. Noi umani, tuttavia, possediamo un’arma in grado di vincere la dispersione nel nulla. “Dio creò l’uomo perché gli piacciono le storie” (Elie Wiesel). E Alessandro Baricco aggiunge: “Se una cosa non si racconta, semplicemente non esiste. Raccontando sconfiggiamo il tempo”. E il tempo va sconfitto non solo per i “grandi” personaggi, ma anche e soprattutto per coloro che non hanno trovato cantori, storici, giornalisti, retori: gli uomini e le donne comuni “senza storia”, che però sono diventati le vittime della violenza storica. Troppo spesso la loro memoria viene cancellata, trascurata, lasciata cadere nel nulla, dimenticando che ogni scomparsa è la fine di un mondo. Di fronte alla morte, disse Jacques Derrida, dovrebbe prevalere il silenzio – quanto sentiamo vera questa affermazione di fronte alla scomparsa di Raffaella Carrà – perché è facile pronunciare frasi sbagliate in nome di un altro che non c’è più e snaturarne il mistero. “Ma anche il silenzio è insopportabile”, così è necessario dire qualcosa “che non permetta al silenzio di averla vinta su tutto”.

Nella foto Ernesto Brugnoli, un fante in trincea e il medico Ercolano Cappi

Carmine Lazzarini


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