7 maggio 2021

Torna la grande corsa: Pietro Mari "il cappellaio" e Camillo Carcano, le avventure di due cremonesi al primo Giro d'Italia del 1909

Il Giro d’Italia transiterà quest’anno da Cremona. Mancava da parecchio. Ripercorriamo a tappe, le avventure dei ciclisti cremonesi al Giro d'Italia partendo da Pietro Mari, il primo girino cremonese. Formidabili furono i suoi anni. Quelli, per intenderci, a cavallo tra Ottocento e Novecento che incrociarono le vite di Pietro e Giovanni Mari, padre e figlio legati, al di là del vincolo familiare, dai casi della vita alla scelta della professione, ma che la vita stessa portò là dove portava il cuore. Come a dire, cappellai (quasi) per caso, pionieri per vocazione.

Cominciamo dal padre. A 12 anni, Pietro rivela una precoce intraprendenza accoppiata ad una notevole decisione (non dimentichiamo che corre l’anno 1894): lascia la famiglia e se ne va a Monza per imparare il mestiere di cappellaio, ma più che l’attrazione verso la nuova professione, a portarvelo è il desiderio di fuggire a gambe levate da quella del padre muratore.

Una scelta da “sacro fuoco” a rovescio: un vero e proprio terrore per le impalcature lo allontana da Casalbuttano, ma si vede che in tasca tiene stretto il biglietto di ritorno perché, sei anni più tardi, compie il tragitto al contrario. Precoce nelle scelte, a 18 anni prende un’altra decisione radicale: è appena scoccata l’alba del nuovo secolo e decide che per lui è suonata l’ora del matrimonio con Teresina Mainardi di Cignone. 

E’ l’anno in cui vede la luce il negozio di cappellaio in Piazza Libertà, allora “Piazza Grande”, che chiuse i battenti nel 1981 con il trasferimento definitivo a Colorno dell’altro figlio, Giulio. E’ anche l’anno in cui Pietro sfreccia orgoglioso per le vie del paese con la sua Peugeot nuova fiammante, quella con cui, poco dopo, si aggiudica il titolo di campione provinciale della velocità sulla pista in terra battuta di Piazza Castello e che poi porterà sul percorso della massacrante Gran Fondo, un tracciato di incredibile durezza tra Torino e Bologna, tracciato che Pietro raggiunse, naturalmente, in sella alla sua bicicletta da Casalbuttano ove, con lo stesso mezzo, fece ritorno al termine della gara. 

Quindi, ecco l’epica impresa della partecipazione al primo Giro d’Italia, quello corso nel 1909. Il vincitore di quel Giro durissimo Luigi Ganna, intervistato all'arrivo finale a Milano, pare che avesse laconicamente dichiarato: "me brüsa tanto el cü". Piace immaginare il piccolo Giovanni respirare la coinvolgente atmosfera di straordinario spessore che certamente quelle imprese facevano arrivare anche in direzione della sua culla. 

Gli anni a venire si incaricarono di provarlo facendogli ereditare, con la professione del padre, l’identico germe, non meno contagioso, delle due ruote, ma prima lo vediamo alle prese con gli studi all’Ala Ponzone Cimino di Cremona, quindi al lavoro come disegnatore progettista alla Breda Sezioni Costruzioni Meccaniche di Sesto San Giovanni e all’OM di Brescia. 

Frutto di quegli studi e di quell’esperienza, ma soprattutto del suo indiscutibile talento di inventore, la costruzione del tettuccio sganciabile per consentire il lancio col paracadute del pilota dell’aereo, il cambio con deragliatore per la bicicletta, il rotomotore a scoppio in due tempi. 

Vari suoi studi furono poi presi in considerazione da numerose riviste specializzate del settore motoristico dell’epoca e progetti vennero utilizzati come oggetto di studio presso il Politecnico di Milano. Questa occupazione lo tenne nel capoluogo lombardo sino al 1938.  Poi, dopo la guerra, rimase nel negozio paterno anche dopo il matrimonio, insieme al fratello Giulio. Le loro strade si divisero nel 1952, quando Giovanni aprì il suo negozio di cappellaio a Colorno, ma di lui ci occuperemo più avanti.

Parliamo di papà Pietro, il corridore. Era un puro dello sport. Aveva cominciato a correre nel 1900, attratto dalle gesta dei primi campioni del pedale che apparivano sulle strade con l’aureola di moderni eroi. Era riuscito a comprarsi la prima Peugeot, modello di perfezione con tanto di tubolari e quello strano impianto frenante che dal piantone del telaio agiva direttamente sul battistrada della gomma posteriore, al prezzo di 55 lire con la paga straordinaria di oltre un anno di lavoro come “magütt” (il resto andava naturalmente alla famiglia che, come tante in quegli anni, non navigava certo nell’oro). 

Le prime notizie di stampa sulla sua carriera agonistica si riferiscono alla conquista del titolo provinciale della velocità sulla pista di Piazza Castello e poi alla Gran Fondo del 1904, di oltre 400 chilometri, che i concorrenti disputarono alla media di oltre 23 Km orari. La Gran Fondo era stata inventata dai francesi che avevano allestito, alla fine del secolo la Bordeaux-Parigi di 572 Km. cui aveva fatto seguito la Parigi-Brest-Parigi di ben 1200 Km. Immediata era stata la risposta dell’Italia con una corsa che però ad ogni anno variava percorso e chilometraggio. Mari divenne, dopo quella prima dura esperienza, uno dei più assidui frequentatori delle Gran Fondo, tanto da meritarsi l’invito alla più lunga mai organizzata in Italia, nel 1905 a Bologna: invito solo formale perché a quei tempi non esistevano ne ingaggi ne rimborsi spese e Fiorenzo Magni ancora non aveva inventato le sponsorizzazioni. 

Pietro, dunque, partì di buon ora da Casalbuttano per recarsi a Bologna ov’era fissato il raduno di partenza, naturalmente in bici, portandosi sulle spalle uno zaino pieno di cibarie, due tubolari nuovi a tracolla e poche, pochissime lire in tasca. Nei pressi di Bologna, trovò ospitalità presso una famiglia di contadini che gli offrirono da dormire in un fienile caldo e accogliente. 

Il mattino successivo si portò alla partenza. Pedalò per tutta la giornata,  la notte ed il mattino seguente sin quasi a mezzogiorno, quando giunse finalmente al traguardo dopo 600 e passa Km. L’ordine di arrivo lo vide al sesto posto, con lo zaino tremendamente vuoto, una fame da lupi, gli occhi che si chiudevano per il sonno e la stanchezza ed una medaglietta di bronzo dorato al collo. 

Il tempo solo di gettare la testa sotto il gelido scroscio di una fontanella,  cambiarsi la maglietta intrisa di sudore e saltare in bici per ritrovare il fienile dell’altra notte e ripartire poi per Casalbuttano. Con la sola soddisfazione di aver concluso la gara più lunga che si potesse immaginare.

Il ciclismo eroico di quegli anni vide Pietro sempre in prima linea. Fu il primo corridore cremonese a vestire i panni del professionista. Fu uno dei primi “girini”: fece parte, infatti, di quella sparuta pattuglia di ardimentosi, 127 in tutto, che nell’estate del 1909 si lanciarono lungo le strade della penisola per dar vita al primo Giro d’Italia, quello vinto da Luigi Ganna. Un anno importante il 1909 nella storia d’Italia: Giolitti aveva appena vinto le elezioni (due milioni i votanti). Filippo Marinetti aveva appena pubblicato il Manifesto del Futurismo e Guglielmo Marconi si apprestava a ricevere il Premio Nobel per la fisica.

Una bicicletta costava almeno 100 lire. La Gazzetta dello Sport usciva tre volte a settimana e costava 50 centesimi. Il primo Giro d’Italia: 2.448 chilometri da corrersi in otto tappe. Si iscrissero in 166, partirono, il 13 maggio  1909, alle 2,45 del mattino da Piazzale Loreto in 127. Quelli che lo finirono furono 49. Pietro non ebbe fortuna, ma il suo valore e la sua tenacia lo imposero ugualmente all’attenzione degli sportivi, tanto che quella sua singolare prestazione è tuttora ricordata negli annali del Giro: forò cinque volte sulle prime ciottolose strade di allora e, rimasto senza tubolari di scorta in quanto la macchina della sua squadra non era riuscita a tener dietro ai corridori, fu costretto al ritiro. 

Si dedicò allora al servizio dei compagni d’equipe. Partiva il mattino presto con una decina di tubolari avvolti attorno alle spalle e altrettanti sacchetti per il rifornimento. A metà strada, attendeva i compagni, distribuiva panini e bevande, sistemava le bici aiutando a riparare i guasti, dava consigli e incitamenti, poi raggiungeva la sede di tappa arrivando solo e spesso a notte inoltrata. Fu talmente preciso nel suo lavoro che la giuria, al termine del Giro, inserì il suo nome tra quelli dei pochi che avevano concluso la corsa, anche se fuori classifica. Un caso più che unico, ma un riconoscimento all’abnegazione e alla passione del corridore di Casalbuttano.

Con lui aveva preso il via un altro cremonese, di Soncino per la precisione, Camillo Carcano (1889-1945): accasato alla Rudge-Withworth-Pirelli fu squalificato perché durante la 5ª tappa Roma-Firenze, preferì salire con la bicicletta sul treno a Civita Castellana per discendere, 240 km dopo, a Pontassieve e riunirsi al gruppo dei corridori. Estromesso dalla corsa, naturalmente! In seguito, si riscattò da quella figuraccia: lasciate le due ruote, diverrà Comandante della 1ª Compagnia del Corpo d’Armata Arditi di Guerra di Milano, decorato al valore.

Pietro, qualche anno più tardi, quando ormai faceva parte del club dei cicloamatori del paese, si rese protagonista di un altro episodio straordinario. Il gruppo dei ciclisti del paese aveva organizzato una gita sociale in treno a Montecarlo e Pietro Mari, uno dei più assidui frequentatori, avrebbe dovuto far parte della comitiva, ma proprio quel giorno, la signora Maria fu ricoverata in ospedale e, a sera, gli regalò l’ultimo figlio, un bel maschietto. 

Il tempo di abbracciare moglie e figlio, di assicurarsi che tutto fosse andato per il meglio, di saltare in bici e il mattino seguente gli amici di Casalbuttano lo videro arrivare in albergo, fresco e pimpante come se avesse viaggiato in treno. Gli fu immediatamente organizzata una gran festa e persino il Comitato Olimpico del Principato di Monaco, gli fece dono di una medaglia commemorativa di quell’impresa.

Ai tempi suoi, quando gareggiava, le biciclette pesavano una quindicina di chili e ancora non avevano il cambio. Il corridore sceglieva il rapporto in base al percorso prima della partenza e lo manteneva per tutta la gara. Inizialmente non avevano neppure la ruota libera (il meccanismo che permette alla ruota di girare anche quando i pedali sono fermi) che fu introdotta nei primi anni del secolo, ma l’uso stentava ad affermarsi. Anche i freni erano diversi da quelli attuali (ora si stanno imponendo quelli a disco): l’anteriore  era a tampone, agiva sul copertone invece che sul cerchio. 

Così la Diamant 1909 di Christian Cappelletto (vincitore dell’edizione 1910)), la Peugeot  1906 di Maurizio Caggiati (secondo nel 1910 e vincitore della prima tappa dell’anno successivo ), la Royal Fabrique di Fausto Del Monte (terzo nel 1910) e altre. 

Tentativi di introdurre il cambio c’erano stati, ma con scarsi risultati, soprattutto di affidabilità. Una novità, che si affermò solo nel secondo decennio del secolo fu l’adozione di un mozzo posteriore comprendente due pignoni, uno a destra, l’altro a sinistra. Per cambiare rapporto il ciclista doveva fermarsi, scendere dalla bici, smontare la ruota posteriore e rimontarla dall’altro lato (quello dove era collocato l’altro pignone).

E’ a questo punto che inizia la storia di Giovanni Mari, figlio di Pietro.  A Giovanni si deve una vera rivoluzione nel mondo del ciclismo, un merito, però, che molti hanno dimenticato.

Commerciante di abbigliamento da viaggio, si diceva allora, ma per tutti i clienti che frequentarono il suo negozio a Casalbuttano fino al 1952, poi a Colorno fino al 1974, anno della tragica scomparsa, semplicemente “cappellaio”. Una professione quasi insita nel DNA di famiglia per Giovanni Mari, ereditata dal padre e condivisa con il fratello Giulio, titolare a sua volta per vari decenni di un negozio di cappelli incastrato tra le logge del Voghera di Piazza della Libertà a Casalbuttano. Nel caso di Giovanni, però si è trattato di una vita ingegnosamente sospesa anche tra bielle, pistoni e biciclette in mezzo alle quali ebbe modo di sfoggiare il suo innato spirito di inventore. E appunto come “cappellaio inventore” lo ricordò la Gazzetta di Parma titolando da Colorno l’articolo del corrispondente locale che ne annunciava la scomparsa il 23 marzo 1974.  Curioso e strano davvero questo accostamento. Che c’entra, infatti, la professione di cappellaio col talento di un curioso inventore, tra l’altro non riducibile semplicemente nei limiti di una pur onorevole professione? 

C’entra, invece, se non altro per ragioni di vicinanza, diciamo così, fisica, tra cappello e testa, come non trovare una certa familiarità. Non mancano neppure esempi letterari a confermare la naturale affinità in questo binomio, a cominciare dallo straordinario personaggio di Lewis Carrol pronto ad accompagnare Alice nelle mirabolanti scoperte compiute nel quasi impossibile Paese delle Meraviglie. 

E non deve essere nemmeno un caso che la fantasia specifica di un copricapo sia quella di fornire protezione alla più nobile parte del corpo in particolare quando Madre Natura stessa dimostri tutta la sua compiacenza dotandola, come nel caso del cambio di Giovanni Mari definito "caratteristico e infallibile", nonché "esaltante e meraviglioso" in un crescendo di incredibile entusiasmo a cui è impossibile non concedere il favore della compiacenza. 

Come dubitare, infatti, che le caratteristiche del Transalpino fossero tali da assicurare una maggiore differenza di rapporto e una più costante tensione della catena? Dettagli tecnici ai quali crediamo sulla parola; per il resto a noi basta l'ingegnosa iperbole della descrizione. Insomma, una novità che rasentava la perfezione annunciata con un entusiasmo e un’enfasi che le istruzioni che ne spiegavano montaggio e funzionamento non riuscivano a trattenere. 

Poi, fu la volta della sua naturale evoluzione, come oggi si direbbe. Arrivò, allora, il celebre “Montagnolo” in assonanza con il posteriore e più celebre “Campagnolo” che all’invenzione di Giovanni Mari fu forse debitore di qualcosa in più di una semplice analogia di ideazione. “Con questo accorgimento – assicurava con soddisfazione e non minore entusiasmo Giovanni Mari, forse di fronte a qualche suo sollecito interlocutore – il ciclismo farà un bel passo avanti”.

Era l’inizio dell’autunno del ’73, ma non ebbe tempo per verificare l’effettiva applicazione ed apportarvi gli eventuali correttivi come avrebbe voluto. Poco prima delle 15 del 5 marzo dell’anno seguente, infatti, rimase coinvolto in un gravissimo incidente sulla Statale Asolana nei pressi di Colorno. Stava tornando a casa a bordo di un pullman di linea che, nei pressi di Torrile, si scontrò frontalmente con un autoarticolato.  Ci fu un morto ed una trentina di feriti tra cui Giovanni che, ricoverato in ospedale, morì due settimane dopo. 

Sullo stesso giornale che annunciava la sua scomparsa, stessa pagina, poco più in basso, il titolo: da Milano si correrà per 164 Km (era la Milano-Busseto) senza specificare se qualcuno dei partecipanti avesse montato sulla sua bici il “Transalpino”.

Il Transalpino fu la vera rivoluzione nel mondo del ciclismo. E’ vero che già il Campagnolo consentiva il cambio di velocità, ma la possibilità era legata al caricamento di due leve appoggiate alla forcella posteriore: la prima sganciava il meccanismo, la seconda favoriva (quasi sempre, perché c’era anche il pericolo di lasciare qualche dito tra i raggi della ruota posteriore) l’aggancio della catena alla ruota dentata attraverso un vigoroso colpo che il ciclista doveva vibrare con tutto il peso del corpo in direzione della sella. 

L’unica levetta del cambio ideato da Mari evitava, invece, entrambi questi inconvenienti offrendo la possibilità di un sistema di cambio decisamente più funzionale, inaspettato soccorso a ciclisti che potevano arrancare con minori affanni sulle pendenze tagliagambe delle strade sterrate di allora. Un sistema che ha retto praticamente sino ai giorni nostri e che solo ora sta per essere soppiantato, almeno per quanto riguarda le bici da competizione, da quello elettronico.

Il dispositivo deragliatore  era fissato al di sotto della forcella anteriore e si serviva di una catena corta, ma tesa in modo da poter salire senza forzare a contatto coi denti della corona superiore.  Per ottenere l’inserimento era sufficiente esercitare una leggera pressione sui pedali e lo stesso deragliatore veniva manovrato dando anche la possibilità di correggere rapidamente un eventuale errore d’innesto spostando leggermente la leva in senso opposto.

Ma l’ingegno di Giovanni Mari si rivolse anche ad altri campi. Autore di vari brevetti, intorno agli Anni Venti, disegnò anche per il Breda 15, un aereo da turismo, un tettuccio ricurvo da sganciare per consentire il lancio del paracadute con il pilota. Fu anche l’inventore di un rotomotore a due tempi composto da un primo cilindro con camera di scoppio e da un secondo con camera di pompaggio che fu definito una rivoluzione motoristica per quei tempi che dava indubitabili vantaggi, come l’erogazione di una maggior potenza, la totale aspirazione e svuotamento dei gas residui e la minore usura dei pistoni, oltre ad una innegabile semplicità di costruzione.

Tanto di cappello, Giovanni!

Cesare Castellani


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