9 luglio 2025

Cento anni fa la prima messa di monsignor Antonio Barosi, ucciso nella Cina di Mao con un altro cremonese, padre Zanardi

Cento anni fa veniva ordinato sacerdote monsignor Antonio Barosi, cremonese di Solarolo Rainerio, missionario del Pime, il Pontificio Istituto Missioni Estere di cui, proprio in questi giorni, è stato nominato superiore generale il piacentino padre Francesco Rapacioli (molto conosciuto anche in terra cremonese e lombarda). Monsignor Barosi, nato il 23 novembre 1901 a Solarolo Rainerio, è stato uno dei martiri della Cina comunista di Mao e conobbe il martirio insieme ad un altro cremonese, padre Mario Zanardi. Entrambi potrebbero prossimamente salire alla Gloria degli Altari, come già accaduto per il cremasco padre Alfredo Cremonesi, beatificato a Crema nel 2019, anche lui missionario del Pime. A cento anni dalla ordinazione sacerdotale, val la pena ripercorrere la storia e la vicenda umana, spirituale e missionaria di monsignor Barosi al quale, da tempo, è intitolata anche l’Unità Pastorale composta dalle comunità parrocchiali di Casteldidone, San Giovanni in Croce, San Lorenzo Aroldo, Solarolo Rainerio e Voltido.  In lui il germoglio della vocazione rifulse fin dalla più tenera età quando, da piccolo chierichetto biondo, con gli occhi sgranati e la mente rivolta verso una fede sempre più intensa serviva la messa in cattedrale a Cremona (la sua famiglia si era trasferita in città nel 1912), profondamente colpito dal carisma del grande ed indimenticato vescovo monsignor Geremia Bonomelli.  Nel 1913 entrò nel Seminario diocesano, convinto di diventare sacerdote al servizio della sua diocesi. Ma, dopo la prima liceo, sentì parlare del cremonese padre Silvio Pasquali di Picenengo, missionario in India,  rimanendo affascinato da questa nuova figura che si affacciava nella sua vita. Così, il 27 settembre 1919, decide di continuare la sua preparazione al sacerdozio nel Seminario per le Missioni Estere di Milano, dove presto lo seguirono i suoi compagni Luigi Martinelli e Angelo Corbani, poi missionari, il primo in Bengala, il secondo in India. Ecco che nel 1925, cento anni fa, venne ordinato sacerdote ed il 5 ottobre ricevette il crocifisso di missionario dall'arcivescovo di Milano, il cardinale Eugenio Tosi. Il giorno dopo salpò per la Cina con un viaggio che durò qualcosa come due mesi e diciotto giorni, sui mezzi più disparati. Partito da Genova, su un bastimento tedesco, sbarcò ad Hong Kong alla fine di ottobre, quindi raggiunse Shanghai e di lì, in quattro giorni di navigazione sul Fiume Azzurro, raggiunse Hankou. Finalmente da Hankou, dopo una giornata e mezza di treno e cinque giorni di carro cinese, giunse a Jingang, centro della sua futura missione. “Due mesi e diciotto giorni di viaggio! Quanti paesi ho attraversato senza mai vedere una croce! Qui voglio consumare la mia vita per l'avventura del Regno di Dio!”, queste le prime parole pronunciate dal giovane padre Antonio al suo arrivo in Cina. Due mesi di studio della lingua cinese e poi, ancora disorientato e inesperto, venne mandato nel distretto di Dengxian, come coadiutore di padre Massa:  incaricato di assistere gli alunni della scuola cattolica, questi l'aiutarono ad imparare più in fretta il cinese. Ma oltre ai disagi della lingua e dell'ambientamento, subito si dovette scontrare con la dura realtà del comunismo cinese.  Infatti  nell'ottobre 1927, ai seminaristi di Cremona scriveva: “Il luglio scorso le truppe rosse sono entrate vittoriose nella nostra provincia del Henan, il nostro vicariato e' stato il primo a essere invaso da più di 70 mila soldati senza ordine e senza regola. Le nostre chiese e case furono tutte occupate dai soldati, anche la nostra di Dengxian è stata occupata e per noi soltanto due stanze: un mese e cinque giorni di convivenza con quei briganti che non sapevano far altro che insultare e gridare "a morte lo straniero". Questa truppa, diretta verso Zhumadian, sulla ferrovia, si diresse poi a Kaifeng, capitale della provincia, che in pochi giorni fu assediata e occupata. Il nuovo regime si e' fatto ben presto sentire ovunque. Scuole proibite alla Chiesa cattolica. Anche la nostra, chiusi i vasti locali appena fabbricati e requisiti dai soldati, è trasformata in caserma. Così anche nelle altre residenze del vicariato abbiamo soldati. Evviva il socialismo... Da Kaifeng, poi, sono stati mandati i propagandisti del "sole dell'avvenire". Al loro arrivo hanno tappezzato tutti i muri di manifesti, molti dei quali contro di noi: contro la nostra religione, e contro gli schiavi degli stranieri (i cristiani). Dopo l'entrata del nuovo regime, non possiamo uscire senza sentirci insultati, maledetti e derisi. Il nostro ministero e' molto intralciato, noi qua siamo ancora tutti al nostro posto e ci staremo fino a che non ci manderanno via o ci uccideranno. Non vi nego che c'e' da soffrire. Ma non vi nego pure che il Signore sa sostenere e aiutare. Speriamo che il Signore ci conceda un po' di pace e tranquillità in mezzo a tanta babilonia per poter fare un po' di bene; se non altro sostenere i cristiani affinchè non vengano meno alla fede ricevuta. Dirvi quando potrà finire questo caos è difficile: sono troppi i pretenziosi, tutti egoisti. Tutti dicono di venire a salvare la patria, mentre troppo chiaro si vede che lavorano per arricchirsi e farsi una fama. Tutti questi capi, però, si trovano d'accordo su un punto: allontanare dalla Cina lo straniero”. Dopo un anno le cose sembravano tornare alla normalità, ma, nell'inverno 1928-29 scoppiò una grande carestia nel Henan:  “Da dieci mesi non piove, in primavera e in autunno non si e' raccolto nulla. Qui, a Dengxian, p. Massa e io abbiamo pensato di aprire ai più affamati i locali della scuola, ora abbandonata dai comunisti. Misurando le nostre forze non volevamo raccoglierne più di una trentina... ma, aperta la porta, chi la puo' richiudere? Ora ne abbiamo un centinaio e più. Le nostre risorse, pero', sono terminate, quindi abbiamo messo l'affare nelle mani della Provvidenza, e con questa fiducia tiriamo avanti”. Padre Barosi si diede un gran da fare e riesce a ottenere una buona quantità di grano dal paesino cattolico. A soli 27 anni iniziò così, a rivelare le sue doti di organizzatore e diplomatico. Ma fu proprio quando a nulla poteva servire la diplomazia, che padre Barosi dimostra la qualità e l’intensità della sua fede. Infatti il 9 febbraio 1929 giunse a Dengxian una grossa banda di briganti che sottopose a crudeli sevizie i ricchi della città, nella speranza di poter ottenere grosse somme di denaro. Tutto questo sotto gli occhi dei padri, minacciati dello stesso trattamento se non avessero pagato in contanti. Il mattino seguente, all’avvicinarsi dei soldati regolari, la banda cercò di raggiungere i suoi rifugi sui monti, trascinando con sè tremila ostaggi e i due missionari, legati e costretti a camminare in mezzo ai cavalli scalpitanti. Padre Massa e padre Barosi si ritenevano ormai perduti. Invece, durante la violenta battaglia che oppose i briganti alle truppe regolari, nella confusione generale, riuscirono a liberarsi dalle funi ed a nascondersi. Terminati i combattimenti, stremati e impauriti, passando tra i cadaveri abbandonati sulla strada, riuscirono a mettersi in salvo. “Dopo essere stato preso dai briganti – scriveva padre Barosi - rimasi ancora nel distretto di Dengxian fino ai primi di maggio, sono dovuto poi tornare a Kaifeng, nella residenza vescovile, perchè nel mio ultimo giro di missione mi presi il vaiolo. Guarito, già stavo preparando i miei tre stracci per ritornare al mio distretto, quando il vescovo decise di cambiarmi incarico... non volevo accettare tanto delicato ufficio, ma alla fine, confidando nel Signore, ubbidii. Ora sono qui da dieci mesi. Ho bisogno di un grande aiuto del Signore, per portare la mia croce non troppo leggera”. Venne infatti nominato economo di Nanyang, la missione più importante della provincia, doveva cioè “amministrare quanto non e' mai necessario neppure ai bisogni più urgenti”. A lui facevano capo i cristiani per le loro questioni, i catechisti per rifornirsi di libri e sussidi didattici, i padri per tutto l'occorrente delle residenze, scuole e chiese. Doveva  badare ai coloni che coltivano i pochi terreni della missione, ai muratori e agli artigiani che lavorano in questa o quella stazione. Doveva  pensare al pane quotidiano per gli orfani e alla loro educazione, alle suore addette alla cucina, al guardaroba, all'assistenza dei ricoverati, alla direzione delle scuole femminili. Inoltre era economo del seminario. Doveva ancche  provvedere vitto e alloggio per i soldati di passaggio e foraggio per le loro bestie. Dagli agenti governativi, che pretendevano il pagamento di tasse e dazi assurdi, doveva lasciarsi "alleggerire" il meno possibile. Non era mai imbarazzato. Non si spaventava neppure di fronte alle immense necessità della sua gente, nè davanti alla cronica mancanza di fondi, anzi, sembrava che fossero proprio le difficoltà a stimolarlo nel tentare l'impossibile. Nell'estate del 1929 progettava di costruire una nuova scuola, e questo nonostante la missione dovesse affrontare notevoli problemi finanziari e fare i conti con la persecuzione accanita contro "tutto ciò che sa di Chiesa cattolica". Sempre nello stesso momento venne aperta, nella  residenza principale di Jingang, unica non occupata dai soldati, una scuola-collegio,  capace di raccogliere i  giovani dei distretti desiderosi di studiare. Gli inizi erano modesti: casette cinesi adattate, arredamento riciclato, tavoli e sgabelli sgangherati. Ma, con il passare degli anni, la scuola raggiunse un buon livello, sia per il numero degli alunni che per la qualità dell'insegnamento impartito, tanto che il vescovo decise di rinnovarne completamente le strutture, per renderle più adatte alle nuove esigenze.
Dunque fu un successo, tanto che le tre università cattoliche di Pechino, Tianjin e Shanghai si impegnarono ad ammettere senza esami gli alunni della Scuola Volonteri, così chiamata in onore del primo vescovo di Nanyang, monsignor Simeone Volonteri. Tutto, perciò pareva procedere a gonfie vele, eppure la situazione non era poi così rosea. Il 18 gennaio 1931 padre Barosi scrisse ai seminaristi cremonesi: “Sono tre anni che facciamo una vita sempre con una tensione di nervi che se non ci fosse stato un aiuto tutto speciale del Signore, certo saremmo già fuori uso. Sapranno quanti dei nostri confratelli furono portati in prigionia dai briganti e quanti trucidati. Ma purtroppo non e' terminata la storia! Si vive alla giornata confidando nel Signore; anche noi qui a Jingang si e' sempre circondati da briganti, tutte le notti si deve vegliare per timore di essere assaliti all'improvviso; senza poi parlare delle angherie che continuamente i soldati e i capi della città ci fanno in guanti gialli. Questo lo dico non per spoetizzare la vita missionaria, ma perchè sappiate in che condizioni ci troviamo e possiate con più ardore pregare il cuore eucaristico di Gesù per un po’ di pace e tranquillità su questa povera Cina.  Però, nonostante questi trambusti e prove, il Signore ci consola e ci benedice nell'opera nostra”. Uomo dalle mille capacità, si dovette continuamente impegnare in nuove mansioni. Sembrava infaticabile e il pro-vicario apostolico monsignor Pietro Massa, conoscendo la sua grande disponibilità, nel 1936 gli affidò un ulteriore incarico: “L'anno scorso il vescovo mi chiama e mi dice: "Caro padre, so che e' gia' molto occupato, ma, cosa vuole, mi faccia un vero favore: diriga, in qualità di vicario foraneo, le tre sottoprefetture occidentali (un'estensione come mezza Lombardia)". Come si puo' dire di no? Anzi, proprio in questi giorni sto per mettermi a cavallo di un mulo e fare il giro del mio vicariato. Oltre a questo "poco" da fare, quest'anno ho anche la direzione della costruzione della cattedrale della città di Nanyang. Come vedete anche ingegnere, capomastro e manovale. Qui si diventa laureati in tutte le scienze. Voi penserete: "Come fa a seguire tante cose?". Si fa tutto quello che si può. E' certo che non si fanno le cose a perfezione. Cosa si potrebbe fare se ci fosse qualche sacerdote in più! Si comincia la giornata alle quattro del mattino e la si finisce alle dieci della sera. Senza contare le peripezie e i viaggi da fare”. Intanto l'obbedienza spinse padre Barosi ad assumersi sempre nuove e più grandi responsabilità. Infatti, nel 1939, il nuovo vescovo Pietro Massa, suo primo parroco in Cina, lo nominò pro-vicario apostolico, ben sapendo che il suo antico coadiutore di Dengxian aveva le spalle robuste.  Padre Antonio cominciò a sostituire il vescovo durante le sue assenze, sbrigando la corrispondenza con Roma e Milano, curando le relazioni con le autorità locali, vigilando sul seminario, sulle attività pastorali, sull'orfanotrofio.
Ma non bastò ancora. A padre Barosi venivano riservate ancora maggiori responsabilità in più vasto campo di lavoro. Dopo 45 anni di missione, monsignor Giuseppe Tacconi, vicario apostolico del Henan Orientale, chiese alla Santa Sede che il vicariato, da lui fondato nel 1916, fosse affidato a qualcuno più giovane di lui. Roma, accogliendo la domanda, nella primavera del 1940 nominò padre Antonio Barosi amministratore apostolico di Kaifeng, capitale del Henan e centro della missione, aspettando tempi migliori per eleggere il nuovo vescovo.  Ancora una volta lui obbedì. Monsignor Barosi, a causa della difficoltà' di comunicazioni non potè raggiungere subito la nuova sede. Per recarsi a Kaifeng, doveva attraversare il nuovo vasto letto del Fiume Giallo e passare dal territorio in mano ai cinesi a quello occupato dai giapponesi. Infatti il vicariato era diviso in due dalle acque e dal fronte di guerra: passare dall’una all’altra parte non solo era difficile e pericoloso, ma pressoche' impossibile. Solo dopo due mesi, per opera di padre Vitali, missionario di Kaifeng, conosciutissimo dalle autorità cinesi militari e civili delle due sponde, monsignor Barosi  potè mettersi in viaggio per raggiungere la sua nuova destinazione. Il suo primo impegno fu quello di visitare tutti i distretti posti sotto la sua giurisdizione, per avere una visione completa delle comunità cristiane presenti, consolarle, incoraggiarle e riorganizzarle, dove necessario. Nel novembre 1941 a monsignor Barosi non rimase da visitare che il distretto di Dingcunji, situato a sud della città di Luyi, quasi totalmente sommerso dalle acque del Fiume Giallo che quell'anno, a causa delle violente piogge estive, aveva addirittura cambiato il percorso e formato un lago dalle acque basse e limacciose di parecchi chilometri quadrati. I giapponesi si eranoi spinti tre volte fino a Dingcunji, ma si erano sempre ritirati; al contrario i soldati cinesi sono riusciti ad avere il controllo permanente del territorio. Dingcunji, a ragione, poteva essere definito "terra di nessuno" perchè, in assenza di una vera autorità centrale, era perennemente in balia dei vari occupanti che successivamente vi spadroneggiano a loro piacimento. Essendo un territorio di confine, incuneato tra due province, i briganti filo-comunisti, facevano razzia nella provincia di Henan, si rifugiavano in quella di Anhui, dove si potevano ritenere al sicuro, e viceversa. Anche monsignor Barosi temeva i pericoli che questo distretto poteva nascondere, tanto che la visita, alla fine, diventava quasi un'ossessione carica di cupi presentimenti. Eppure, e per gli stessi motivi, non poteva rimanere tranquillo nella sicura residenza centrale, situata in una zona controllata dai giapponesi, sapendo i suoi missionari esposti a disagi e pericoli d'ogni genere. Così  il 10 novembre partì, in treno, da Kaifeng e il 17 raggiunse la città di Luyi, sotto controllo giapponese e residenza del cremonese padre Zanardi. Il mattino del 18 novembre, in compagnia di questi, lasciò la città. Prima di arrivare a destinazione, incontrarono padre Zanella che stava loro venendo incontro e alle quattro del pomeriggio furono a Dingcunji. L'accoglienza della gente fu  festosa; la presenza del vescovo, monsignor Barosi appunto, in un momento così critico, non poteva non rappresentare un motivo di speranza. Ma la gioia e la fraternità rinsaldate sembravano destinate a durare troppo poco in Cina, un paese che, almeno in quegli anni, sembrava così avaro di speranza. Ma soltanto il giorno dopo, il 19 novembre 1941, a seconda guerra mondiale ormai in corso, avvenne il martirio. Era una domenica di tardo autunno, i primi venti che soffiavano dal nord raggelavano l'aria. Ma a Dingcunji c’era inizialmente aria di festa, nonostante il grigiore autunnale: c'era monsignor Barosi in visita pastorale ed ogni cristiano faceva il possibile perché  il paese, nonostante i tempi difficili, fosse degno di quel giorno solenne. Del resto padre Zanella, il parroco, aveva tanto insistito per far sì che lo stesso vescovo avesse potuto impartire le cresime. Anche i cresimandi dei villaggi vicini si erano riuniti a Dingcunji, ospitati presso parenti o amici, e già dalla sera del sabato si notava un gran movimento tra chi arrivava e chi cercava di sistemarsi. I più lontani, o quelli che abitavano nei villaggi più disagiati e che avrebbero dovuto attraversare le località inondate dal Fiume Giallo, nel pomeriggio della domenica sarebbero poi stati raggiunti dal vescovo accompagnato dai padri Zanella, Lazzaroni e Zanardi.
Conclusa, in mattinata, la celebrazione delle cresime, il vescovo si trattenne con i catechisti, i cresimandi e i loro parenti. Poi tutti si ritirarono per il pranzo. Alle tredici, un ufficiale con una decina di soldati entrò nella residenza dei missionari e, dopo averne scacciato i cristiani, chiuse la porta d'ingresso e la fece piantonare da un gruppo di soldati ben armati. All’intero villaggio di Dingcunji venne imposto una specie di coprifuoco. Padre Pollio (divenuto poi vescovo di Kaifeng nel 1947) descrive l'accaduto prima nelle pagine del suo diario, in seguito stende una relazione più organica che spedisce al superiore generale del Pime, monsignor Lorenzo Maria Balconi. In questo scritto spiega che l’ufficiale e i soldati, entrati in residenza, prima chiesero di padre Zanella, il quale si presentò subito; i soldati lo condussero in una stanza di fronte a quella nella quale i padri avevano appena finito di pranzare, con la scusa di fargli alcune domande. Quasi contemporaneamente chiesero anche di padre Lazzaroni che condussero in sacrestia, con la proibizione di muoversi e con le sentinelle alla porta. L'ufficiale e altri soldati andarono direttamente nella stanza dove il vescovo stava chiacchierando con l’altro missionario. Monsignor  Barosi aveva con sè una carta d'identità rilasciatagli dai giapponesi, un lasciapassare necessario per potersi muovere nelle zone controllate dalle forze nipponiche. Fu  questo il pretesto di cui si servirono i soldati per sostenere l'accusa, rivolta ai quattro, d'essere “spie del nemico e agenti del capitalismo”. Il presule usò parole gentili con l’ufficiale, ma i soldati, a un suo cenno, legarono mani e piedi a monsignor Barosi e a padre Zanardi. Si sentì gridare padre Zanella e subito alcuni soldati trascinarono in chiesa i due appena legati e li buttarono a terra, chiudendo loro bocca e orecchie con della carta. A quel punto i soldati bendarono gli occhi al domestico di monsignor Barosi, Han, che aveva seguito i padri da Kaifeng, perciò di tutto quello che successe dopo non potè essere testimone. Il cuoco però fu in grado di raccontare altri particolari. Era in cucina e, avendo paura, si nascose in un angolo ben protetto da paglia e legna: da lì assistette al martirio di padre Zanella. I soldati portarono padre Bruno fuori dalla stanza e da grandi recipienti gli versarono in bocca acqua bollente e petrolio. Più volte il padre gridò tra la morte e la vita, in una lingua sconosciuta al servo, e più volte affermò di non avere denaro e armi. Invocò con forti urla l'aiuto di monsignor Barosi e padre Zanardi, ma non ricevette alcuna risposta. Finalmente quei soldati, dopo avergli fatto bere più volte acqua bollente e petrolio, lasciarono il suo corpo privo di sensi o senza vita nel cortiletto. Non è dato sapere se padre Zanella sia morto lì o in fondo al pozzo nel quale fu gettato. Il cuoco, intanto, vide che i soldati trascinarono con forza il vescovo e padre Mario verso l'altro cortile. Svaligiata la residenza degli oggetti più preziosi e utili, i soldati, verso le diciotto, se ne andarono da Dingcunji. Saliti sulle barche scomparvero nell’oscurità, mentre una gelida pioggerella scendeva col silenzio della sera. Solo allora i cristiani si diressero alla residenza dei missionari. Forzata la porta, entrarono e in portineria trovando il servo Han legato. Lo slegarono e tutti insieme si misero a cercare i padri, senza esito e senza trovare tracce di sangue nè corpi.  Non sospettavano ancora la tragedia, tanto più che non si era sentito nessun colpo d'arma da fuoco. Contro ogni speranza, pensavano, sulle prima, che i missionari erano stati presi in ostaggio. Le ricerche non portavano a nulla ma poi alcuni si accorsero che il muricciolo intorno al pozzo era crollato e che i mattoni ne ostruivano completamente l'imboccatura (i pozzi cinesi sono molto stretti, per cui una simile operazione diventava molto facile). Si guardarono muti, nessuno osava manifestare apertamente il sospetto che teneva nel cuore ma sotto i mattoni ci doveva essere qualcosa e si cominciò così l'opera di sgombero che portò a ritrovare i corpi delle vittime. Per mezzo di lunghe pertiche di bambù, munite di un uncino, si cercò di estrarre i cadaveri. Il primo fu quello di padre Zanella, poi quello di padre Zanardi, quindi quello di monsignor Barosi. Il giorno seguente fu ritrovato anche quello di padre Girolamo Lazzaroni che  aveva 27 anni e solo due di missione. Padre Bruno Zanella invece 32 anni e cinque di missione, padre Mario Zanardi aveva da poco compiuto i 37 anni, di cui quattordici in missione e monsignor Antonio Barosi di 40 anni, ne aveva trascorsi sedici in Cina. Fu, quella, una vera e propria barbarie, in chiaro odio alla fede cattolica, di cui loro malgrado furono protagonisti due missionari cremonesi, con l’auspicio che possano presto essere canonizzati.  In attesa degli eventi è certamente utile e importante fare memoria di questi nostri missionari tenendone viva quella preziosa e speciale testimonianza giunta fino a noi.

A proposito infine di religiosi missionari nella difficile terra di Cina ecco che un’altra figura, nata e cresciuta nelle nostre terre di pianura, merita certamente di essere ricordata. Si tratta di   padre Tarcisio Benvegnù, frate minore francescano, originario di Monticelli d’Ongina. Nacque nel 1911  e morì nel 1969. Trascorse ben 25 anni da missionario in Cina, proprio nel periodo in cui era al potere Mao Tse-Tung. Padre Tarcisio fu il primo, con l’aiuto di un apposito team, a tradurre la Sacra Bibbia in cinese. Tuttora parecchi suoi familiari vivono tra le province di Cremona e di Piacenza e, pochi anni fa, è stato ricordato a Fogarole (frazione di Monticelli d’Ongina), dove visse per diversi anni e dove celebrò, il 22 luglio 1934, la sua prima messa. Nella chiesa di Fogarole in quella occasione è stata posta una lapide in cui si legge: “A ricordo della prima santa messa celebrata a Fogarole il 22 luglio 1934, dove abitò per diversi anni padre Tarcisio Benvegnù, sacerdote zelante di cultura enciclopedica, missionario per 25 anni in Cina, traduttore della Sacra Bibbia in lingua cinese”.

Eremita del Po

Paolo Panni


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