27 novembre 2025

Edipo canta la sua tragedia e incanta la Prosa al Ponchielli

Tragùdia, ovvero tragedia, il canto di Edipo alza il sipario sulla nuova stagione di prosa del teatro Ponchielli. E si capisce subito come la scelta del cartellone sia caduta su lavori di grande qualità. L’opera d’apertura, firmata nella regia, scene, luci, suoni e costumi da Alessandro Serra, nella sua complessità, è però un vero gioiello di classicità, ricerca, narrativa e invenzione scenico/teatrali. Un gioiello a partire dalla lingua scelta. Non il greco originario di Sofocle, men che meno l’italiano contemporaneo, ma il grecanico (tradotto in contemporanea per gli spettatori): idioma spurio ancora presente nella nostra antica Magna Grecia tra Puglia e Calabria.

Serra sceglie proprio questo linguaggio (tradotto in lingua grecanica da Salvino Nucera) per narrare uno dei grandi miti. Dei supremi archetipi della cultura ellenica e poi occidentale quella del re che ha ucciso suo padre, ma sposato sua madre e ha concepito con lei figli ma contestualmente fratelli. E che proprio per questa impurità ha trascinato il popolo in un grande dolore provocato che dovrà sanare con la sua stessa vita.

Narrazione, come si capisce, da far tremare i polsi. Ma Serra la fa senza indugiare. Con un'operazione lessicale di alta chirurgia riesce a sezionare Sofocle e, nel contempo, ne ricostruisce il testo  nei suoi tratti essenziali e fondamentali. Trasfigurandolo, come lui stesso ammette, in un’operazione quasi di natura metafisica. Anzi forse più catartica com’era il senso vero della tragedia. 

L’operazione gli riesce alla perfezione con un Jared McNeill nei panni di Edipo. Coinvolgente, in certi momenti perfino straziante in un ruolo, quello di Edipo, che è puro dramma dall’inizio alla fine. Ma non c'è solo la recitazione e l’interpretazione che fa bello questo spettacolo. E’ ad esempio la scelta della rappresentazione e della materializzazione del CORO, con tutte le implicazioni che esso aveva all’interno della morfologia della tragedia. Lo rende austero. Lo accompagna e a volte lo plasma su monodie che ricordano o l’antico liturgico bizantino o il più comune canto liturgico medievale. Scegliendo, in alcuni casi, di dipingere il melos con richiami etnici di quella cultura. Non mancano, nella creazione di Bruno de Franceschi, fughe leggere, ma intense in contesti polifonici semplificati di grande e ovvia suggestione. 

Spinge sulla teatralità della voce. Arriva anche mutandola in semplici suoni a intensi momenti di coinvolgimenti nei momenti più duri e critici dell’intera vicenda del re incestuoso. 

Grande recitazione da parte di tutta la compagnia che esegue, senza alcuna sbavatura le indicazioni registiche con una precisione incredibile, sebbene la complessità del dettato teatrale. Bene tutti: Alessandro Burzotta, Salvatore Drago, Francesca Gabucci, Sara Gianelli, Chiara Michelini e Felice Monteverino

Suggestive per chiaroscuri, di sapore, a volte caravaggesco, le scene di Daniele Lepori, Serena Trevisi Marceddu, Loic Francois Hamelin. Memorabile l’incensiere di una delle prime scene che sembra richiamare una liturgia cristiana. 

Davvero uno bello spettacolo quello prodotto Sardegna Teatro, Teatro Bellini, Emilia Romagna Teatro ERT/Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due in collaborazione con la Compagnia Teatropersona e i Teatri di Reggio Emilia. 

Applausi dei cremonesi. Prima leggeri e poi sempre più convinti. 

Roberto Fiorentini


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