Halawa, Cubbaita e Mu'Aqqad: dal medioevo gli antenati del torrone parlano arabo
Nei manoscritti di tre medici arabi dell’XI e del XIII secolo (uno dei quali tradotto nel Duecento a Venezia da un cremonese) si trovano le ricette del “chaloe” e della “qubbayt”, precursori del dolce ‘adottato’ da Cremona. E in un manoscritto arabo dalla Spagna del XII secolo si trova la ricetta del primo torrone con albume.
Cremona è debitrice per molte cose alla gastronomia ed alla scienza islamiche del Medioevo. Una di queste sembra proprio essere il torrone. Proveremo dunque a spingerci oltre le placide acque del Po, fuori dalla nebbia della pianura padana, sino alle calde terre della “mezzaluna” dell’antico impero ‘arabo’, dove sono tutt’oggi diffusi vari tipi di torrone che affondano le radici della propria storia nell’XI secolo, al tempo dell’espansione islamica.
Nel Medioevo, sulla spinta dell’espansione araba, la cultura arabo-persiana si diffuse in tutto il mediterraneo, e con essa anche le scienze. La medicina islamica, sofisticata e con metodi diagnostici e terapeutici per l’epoca altamente sviluppati assieme una ricca farmacologia, riservava grande spazio alla dietetica umorale. Tra il IX e il XII secolo, dall’Andalusia a Baghdad fiorirono i manuali della buona salute e i compendi di alimenti usati come medicinali semplici. E proprio in due di questi trattati, scritti da due funzionari medici, si trovano le ricette di un tipo di dolce secco che è il diretto precursore del moderno torrone. Si tratta dei Tavole della salute di Ibn Buṭlān, e del Cammino dell’esposizione di ciò che l’uomo utilizza di Ibn Jazla, entrambi di Baghdad. Mentre sono state definitivamente smentite da illustri accademici - anche a mezzo di prove linguistico-filologiche - le origini romane del torrone, dato che la cuppedo citata da Varrone, Livio, e Marziale nulla c’entra con il torrone e, inoltre, nell’edizione completa del De re coquinaria di Apicio non compare alcun fantomatico nucatum.
I PROTOTIPI ARABO-PERSIANI DEL TORRONE ERANO “SOLO” DEI CROCCANTI…
Sfogliando le Tavole di Ibn Butlan e nel Cammino di Ibn Jazla, composte nel califfato abbaside di Baghdad nell’XI secolo, nella parte riservata ai dolci secchi compare il Chaloe (in arabo halawa), indicato per febbri, tosse o dolori reumatici, di probabile derivazione indo-persiana: dalla ricetta risulta preparato con noci, mandorle o pistacchi («cum nucibus aut amygdalis aut festicis») legate da miele e zucchero («miscentur cum melle et zaccharo») e aromatizzate con spezie. Manca l’albume, ma la variante bianca è ottenuta tramite il processo di lavorazione dello zucchero, come si legge nel Compendio delle vivande (Kitab al-Tabikh) del medico Al-Baghdadi, vissuto nel XIII secolo (due secoli dopo Butlan e Jazla): «Sciogli lo zucchero in acqua e fallo addensare bollendo, poi versalo su un piano, battilo e tiralo finchè diventa bianco, impastaci pistacchi o mandorle, taglialo in stecche o rombi e dallo a chi vuoi».
Osservando la ricetta del Chaloe nelle Tavole di Butlan, si nota che accando a Chaloe è accostato il termine Cubaia, riconducibile a “Cubaita”: la “Cubaita” (dall’arabo qubbayt, “mandorlato”) è uno dei due nomi del torroncino senza albume impiantato in Sicilia proprio dagli arabi Fatimidi (l’altro nome è Giuggiolena, dall’arabo dgjundjulàn, “sesamo”). Ma qubbayt è anche il nome (oggi qabit o qabut) di un delizioso torroncino composto da miele e semi oleaginosi da inserire in due sfoglie di raguifes simili alle ostie che racchiudono il nostro torrone (raguif è la schiacciata di pasta), menzionato in un anonimo manoscritto maghrebino del XIII secolo (il cosiddetto Libro Magherbino, tradotto dal ricercatore spagnolo Alonso Huici Miranda).
Ora, dal XIII secolo i trattati dei due medici arabi circolarono sia nell’Italia Meridionale (grazie alle numerose traduzioni latine e volgari eseguite nelle corti normanna prima e federiciana poi), sia nella Pianura Padana, dove, oltre alla biblioteca di opere scientifiche arabe tradotte a Toledo da Gerardo da Cremona nel XII secolo e portate in città, Giambonino da Cremona rese in latino ottanta ricette del Cammino di Jazla, tra cui il Chaloe, nel noto Liber de ferculis et condimentis, redatto a Venezia nella seconda metà del XIII secolo. E le Tavole di Butlan giunsero a Cremona nella splendida versione miniata a Milano da Giovannino de’ Grassi nel XIV secolo, contenente la traduzione eseguita alla corte federiciana di Palermo. Per chiudere il cerchio, andrà ricordata la presenza continuata a Cremona del “filoislamico” Federico II di Svevia: dal 1220 al 1250 l’imperatore, appoggiato dal vescovo Sicardo, aveva eletto la città capitale pro tempore del Nord Italia e proprio quartier generale. Almeno già dal Duecento quindi doveva circolare in città un tipo di torrone (portato da Federico II e dalle traduzioni dall’arabo) la cui ricetta non prevedeva l’utilizzo dell’albume e, quindi, più simile a un croccante.
…MA IL PRIMO TORRONE CON ALBUME E’ NATO NELL’ANDALUSIA ARABA
Alla presente teoria si potrebbe obiettare proprio che halawa, cubbaita, giuggiolena assomiglino più a dei croccanti, mentre la palma del torrone con albume spetterebbe senza dubbio a Cremona. Purtroppo (per eventuali detrattori) esiste un anonimo manoscritto magrebino di epoca medievale, stranamente poco o per nulla considerato dagli studiosi italiani, del quale esistono due sole traduzioni in lingue moderne: quella di Ambrosio Huici Miranda (Traducción española de un manuscrito anónimo del siglo XIII sobre la cocina hispano-maghrebi) e quella di Charles Perry (The Anonymous Andalusian Cookbook), Il manoscritto, prodotto nella Spagna del XIII secolo, riporta circa cinquecento ricette arabe di epoca almohade (fine XII secolo) diffuse in area iberica prima della Reconquista cristiana, inclusa quella di un dolce secco definito in arabo Mu’aqqad, del quale riportiamo la ricetta integrale nella traduzione del Perry: «Mu’aqqad con il miele: metti una porzione di miele di favo a fuoco moderato finché non si scioglie, quindi filtralo e rimettilo al fuoco (rimuovendo la schiuma). Quindi sbatti [a neve] gli albumi di venticinque uova se il miele è filtrato e trenta se non lo è, quindi gettali nel miele. Mescola il composto con una frusta da pasticceria fino a farlo sbiancare ed addensare [sul fuoco]. Infine aggiungi una rati [libbra] di mandorle pelate e, una volta rappreso, servilo, a Dio piacendo». Il valore di questo manoscritto è inestimabile ai fini della storia del torrone: è il primo testimone medievale che si conosca a menzionare la variante del torrone contenente anche la chiara d’uovo.
Tale manoscritto va tra l'altro a smentire un ‘falso storico’ circolante da anni a livello addirittura internazionale: secondo molte voci circolanti in rete, nel trattato farmacologico di un medico arabo andaluso, Abenguefith Abdul Mutarrif, sarebbe stata presente la ricetta di un dolce chiamato in arabo turùn, in tutto e per tutto simile al torrone cremonese. Il manoscritto è stato poi tradotto in latino da Gerardo da Cremona e portato da suo nipote Pietro, assieme ad altre 71 traduzioni di opere scientifiche arabe, nella Chiesa di Santa Lucia: ad esso si farebbe risalire l’arrivo del torrone a Cremona. Tuttavia nell’estratto tradotto da Gerardo non compare affatto il nome turùn, che non compare neppure nella copia dell’originale arabo di Abenguefit più integra che ci sia giunta. E’ quindi assai probabile che il chiacchierato turùn fosse invece il mu’aqqad, il dolce del manoscritto almohade. Il nome turùn, più che all’arabo, è avvicinabile ai volgari romanzi, in connessione con il verbo latino torrere («disseccare, cuocere, tostare») e con il suo derivato spagnolo turràr. Il termine turùn, se mai esistette, potrebbe essere stato il primitivo nome con cui quella che, tra le varianti arabe, è la più simile al torrone cremonese iniziò ad essere indicata nei volgari delle popolazioni iberiche tra XII e XIII secolo. Per capire come tale variante sia giunta a Cremona (dato che non si trova in nessuna delle traduzioni dall’arabo prodotte alla corte di Federico II, né in quella di Giambonino da Cremona) occorrerà considerare gli intensissimi commerci (tra XII e XIV secolo la potenza economica di Cremona era all’apice e qui giungevano merci da tutto il Mediterraneo), unitamente ai frequenti rapporti intrattenuti con la Spagna durante il Basso Medioevo.
DALLA TAVOLA DEL BANCHETTO NUZIALE QUATTROCENTESCO A QUELLA DEI BANCHETTI DI FEDERICO II
Comunque, alla luce di tutto ciò, una cosa è senza’altro certa: il torrone cremonese non è stato inventato a Cremona, né durante il Medioevo, né tantomeno in quel lontano 25 ottobre 1441, in occasione delle nozze tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Sulla leggenda nostrana non vi è l’ombra di un testimone, anche se sappiamo che nell’anno 1529 fu effettivamente servito al banchetto di una corte padana un dolce a forma di torre (lo riporta Cristoforo di Messisbugo, cuoco, scrittore della Casa de Este e organizzatore di sontuosi banchetti). Fra XIII e XIV secolo la variante araba con l’albume deve aver preso piede in città con diffusione sempre maggiore, sostenuta verosimilmente dall’antica consuetudine delle spezierie cittadine di radunare a fine giornata gli albumi, avanzati dalla mescita del tuorlo d’uovo all’ostrica, i quali venivano poi uniti al miele di erbe mediche ed alle mandorle tostate (inizialmente il torrone venne prodotto proprio nelle spezierie, oltre che nelle case). Tuttavia, volendo a tutti i costi legare la celebrazione del torrone a qualche banchetto dell’élite nobiliare, sarebbe più sensato retrocedere ai soggiorni cremonesi duecenteschi di Federico II di Svevia, che trascorse parecchio tempo a Cremona, alloggiato in un palazzo imperiale nei pressi del monastero di S. Lorenzo (altri sostengono di S. Luca) ed attorniato dalla sua corte di intellettuali islamici: tra costoro v’erano anche numerosi gastronomi e cuochi che operarono diffusamente anche all’ombra del Torrazzo. Spesso infatti la presenza imperiale si accompagnava a feste e cerimonie di grande lustro, inclusi banchetti nuziali. Federico celebrò a Cremona una magna curia con grandi feste dopo il matrimonio di sua figlia, Selvaggia di Svevia, con Ezzelino da Romano; e ancora a Cremona l’imperatore procedette all’addobbamento del figlio Enzo nel 1238, e di alcuni nobili lombardi nel 1245, mentre nel gennaio 1249 si celebrarono le seconde nozze di Enzo. Ora, conoscendo l’infatuazione dell’imperatore per la cultura araba (inclusa la gastronomia) e considerando il suo entourage di cuochi islamici, non è difficile inferire la presenza, in questi banchetti, di specialità esotiche provenienti dai califfati persianizzati d’Oriente, inducendo a ritenere assai più credibile che il torrone possa aver ricevuto la sua celebrazione ufficiale a Cremona proprio sulla tavola di uno di questi banchetti nuziali dell’epoca federiciana, piuttosto che su quella delle nozze quattrocentesche. A ciò si aggiunga anche l’ipotesi, piuttosto convincente, che la tradizione di mangiare torrone a Natale possa essere stata corroborata (se non proprio iniziata) dalla ricorrenza del compleanno di Federico, che cadeva proprio il 26 dicembre.
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commenti
Enrico
13 novembre 2024 14:00
Ringrazio Michele Scolari per la puntuale ed interessante disamina sulle origini del torrone, con alcuni importanti nuovi riferimenti (….almeno per me !).
Sul torrone non esiste ancora infatti uno studio approfondito, se si fa eccezione per il libro edito da Cremonabooks , con una breve disamina storica della prof.ssa Carla Bertinelli Spotti .
Grazie e complimenti!