I 100 anni del maestro Sergio Tarquinio. Domani si inaugura la mostra del grande artista cremonese al Museo Civico. Tiziana Cordani così lo ricorda al lavoro nello studio
Domani, giovedì 25 settembre, alle ore 17, al Museo Civico "Ala Ponzone" (via Ugolani Dati, 4), sarà inaugurata la mostra Sergio Tarquinio - 100 anni. Un omaggio al grande artista cremonese che si avvia al secolo di vita. Sergio Tarquinio nasce infatti a Cremona il 13 ottobre 1925. Precocemente mostra doti notevoli per il dise- gno e già ottiene premi durante la frequenza della scuola elementare. Dopo la scomparsa del padre, nel 1936, viene iscritto ai corsi della Scuola Arti e Mestieri “Ala Ponzone”, rinomata, in città per la preparazione settoriale fornita agli allievi, tra i quali, proprio in quegli anni, si annoverano i nomi di Cordani, Naponi e dei più anziani Coppetti e Priori. Frequenta, all’interno dell’Istituto i corsi di “perito industriale” ottenendo brillanti risultati. Nel 1942 vince i Ludi Juvaniles per il Disegno, e frequenta la scuola superiore d’Arte applicata di Milano. Nello stesso periodo inizia ad occuparsi di incisione e, durante il periodo bellico, si avvicina alla pittura. Nel 1948 parte per l’Argentina, dove lavora per la Surameris, casa produttrice di film e fumetti. Rimane a Buenos Aires quattro anni, stringendo amicizia con numerosi artisti e uomini di cultura sudamericani e con il collega Hugo Pratt, cui rimane legato anche in seguito. Tornato nella città natale all’inizio degli anni Cinquanta, continua a lavorare nel campo della grafica pubblicitaria e della editoria, legandosi per anni al gruppo editoriale Bonelli. Successivamente, lascia l’attività di disegnaore e concentra le sue energie nel lavoro, originale ed individuale quanto il suo carattere richiede, di incisore e pittore. Coltiva anicizie e interessi culturali, viaggia e produce opere che vengono esposte in Italia e all’estero, particolarmente interessante e vasta è la produzione incisa ma non secondaria è la realizzazione pittorica, organizzata attorno a temi, sovente ripresi per angolazioni e approfondimenti diversi nell’arco della sua più che quarantennale attività, di forte assunto sociale.
Proponiamo, sull'opera del grande artista cremonese, un articolo di Tiziana Cordani pubblicato su "La Cronaca" del 17 ottobre 2009 dal titolo "Nello studio dell'artista cremonese Sergio Tarquinio: io e ...Tex Willer"
Ogni volta che mi incammino per andarlo a trovare, mi prende un po’ di emozione, qui tra lo stomaco ed il cuore e, quando arrivo in quel quartiere di case nuove, in quel palazzo moderno di una strada anonima, aspetto quasi con ansia che arrivi l’ascensore al piano per salire su, all’ultimo, dove mi aspetta.
Così è stato anche pochi giorni orsono, quando sono andata a trovare Sergio Tarquinio nel suo studio.
Conosco Tarquinio da ben più di cinquant’anni, se mai fa fede la primissima conoscenza di una bimba piccolina in quegli anni Cinquanta ormai lontani: allora, questo nostro artista, ora famoso, era già una bella realtà nel panorama dell’arte, non solo cremonese.
Proprio nel 1952, Sergio Tarquinio era rientrato a Cremona da un soggiorno all’estero durato ben quattro anni e tutti, amici e curiosi, lo cercavano per farsi raccontare della sua esperienze e della vita di quel paese remoto, l’Argentina, su cui si favoleggiava come di un paradiso per gli avventurosi.
Sergio era un giovane uomo di bell’aspetto, narratore già abile, forse meno smaliziato affabulatore di quanto non sia ora ma assai interessante comunque, sicchè le sue conversazioni si protraevano volentieri, capitava così che si fermasse a casa dei miei genitori per un risotto ( i famosi risotti di mia nonna Aida!), restando in studio con mio padre Sereno e gli altri amici artisti sino alle ore piccole.
Anche quando ci si recava a casa sua, sempre nei paraggi del viale Po, nel suo studio di allora, del quale peraltro mi è rimasto un ricordo vago, o ci si incontrava per strada, era tutto un raccontare, un dibattere, uno sfidarsi: erano tutti giovani gli artisti di allora (Tarquinio è nato a Cremona proprio in un giorno d’ottobre del 1925) ed erano pieni di entusiasmo e di passione.
La guerra era terminata da non molti anni e la ricostruzione di un tessuto culturale ed artistico cittadino vedeva tutti impegnati e solidali, anche quando qualche rivalità o desiderio di emergere si suscitava nei loro animi, tuttavia cedeva, alla fine, il posto all’impegno comune. Si finiva così per ritrovarsi o in Palazzo dell’Arte per le mostre da allestire e seguire o nei vari studi, a casa dell’uno o dell’altro, sulle rive di Po, in piazza del Duomo o ai Giardini, nelle aule del Gruppo artistico Leonardo o nelle sale dei sodalizi artistici locali, la Famiglia artistica e gli Amici dell’arte (confluiti, in anni molto più recenti, nella attuale A.D.A.F.A) poiché allora gallerie, come oggi le conosciamo, a Cremona non ce n’erano, le prime essendo apparse solo più tardi, verso gli anni Sessanta.
E dev’essere così, se l’occhio mi corre al cavalletto e lo sguardo si fissa su una tavola la cui cromia rossastra stesa a larghe pennellate denuncia il suo essere una stesura preparatoria. Dall’altra parte della stanza, alcuni quadri, infatti, sono capovolti ed io ne posso cogliere solo i dorsi, sono incuriosita ma taccio, so che appena finiti i discorsi “umani”, quelli attraverso i quali i fili dell’amicizia si riannodano nei ricordi, sarà di lavoro che parleremo ed aspetto. Osservo, intanto, l’allinearsi dei supporti che fanno da sostegno a pile di carta: sono i lavori su carta raccolti in cartelle che l’artista ha elaborato nelle diverse fasi della sua attività, dagli acquarelli alle tempere, dai disegni alle incisioni, una massa notevole di lavoro che se ne sta quasi in attesa di essere accolta, conosciuta ed apprezzata.
Mi corre subito il pensiero che questo studio ordinato, più da studioso, si direbbe che da artista come il pubblico si compiace di immaginarlo, è proprio in sintonia con la esatta misura del suo fare, sia come incisore che come uomo di cultura: Tarquinio è un artista misurato, il suo fare è pacato, riflessivo. Il gesto sicuro ed esatto, come i segni sulla lastra, ha adattato il carattere, di cui ricordo certe impennate ed impeti giovanili, alle necessità del lavoro ovvero il suo carattere meditativo e ha trovato un lavoro che gli si adatta perfettamente. Ogni gesto ed ogni risultato del fare sono pensati, meditati, hanno ragioni profonde e sbocchi dosati. Non esiste la casualità né l’approssimazione. Osserviamo i fogli a stampa incorniciati, sfogliamo assieme le cartelle di quelli riposti con cura, commentiamo, ricordiamo, lo studio ci accoglie nella ora serena, allora tormentata, pulizia mentale della creazione artistica.
Sergio Traquinio è sempre stato un conversatore affascinante, dunque, uno dei pochi che si ascoltano provando subito il rammarico che la conversazione finisca: questo è certo un dono naturale ma anche la prova che, al fondo dei suoi discorsi, si trovano giacimenti di conoscenze, una cultura autonoma ma non soltanto settoriale, una vastità di interessi e di relazioni e soprattutto una beffarda ironia che punge e fustiga con garbo ma anche con colpi precisi. Non è questo un background consueto a molti, soprattutto quando si coniuga anche con una forbita e puntuale scrittura, ma resta, a mio avviso, una delle chiavi di interpretazione del suo lavoro di artista, poiché questo spessore culturale è la fonte da cui derivano molte delle immagini legate alle problematiche trattate nelle opere pittoriche e molti dei personaggi delle sue narrazioni filosofiche per figure, particolarmente quelli che popolano i fogli a stampa.
Anche durante la mia ultima visita allo studio che ora è il suo regno, luminoso ed ordinato, le parole si sono inseguite, inanellati i ricordi, quasi una gara a dirsi, a darsi, i segni che ci accomunano: le pareti sono un invito, in belle file sovrapposte, vi sono appese le sue creazioni più note, le carte incise che raccontano i versi dei suoi poeti preferiti, Thomas S. Eliot ed Ezra Pound, i cui poemi sono una sorta di specchio di questa deformata umanità ed una profetica sintesi del nostro vivere sconnesso e precipitante. Dalle finestre entra la luce a sfiorare i colori, le linee sinuose, i segni precisi, il mio occhio corre ad uno dei tavoli da lavoro, alle matite dentro i barattoli, ai pennelli, alle sgorbie, tutto quello che è stato il perno del suo mestiere è lì e sembra chiamare ancora lo spirito alla creazione di qualche nuova tavola incisa, di qualche altro disegno, di un dipinto, ancora.
E dev’essere così, se l’occhio mi corre al cavalletto e lo sguardo si fissa su una tavola la cui cromia rossastra stesa a larghe pennellate denuncia il suo essere una stesura preparatoria. Dall’altra parte della stanza, alcuni quadri, infatti, sono capovolti ed io ne posso cogliere solo i dorsi, sono incuriosita ma taccio, so che appena finiti i discorsi “umani”, quelli attraverso i quali i fili dell’amicizia si riannodano nei ricordi, sarà di lavoro che parleremo ed aspetto. Osservo, intanto, l’allinearsi dei supporti che fanno da sostegno a pile di carta: sono i lavori su carta raccolti in cartelle che l’artista ha elaborato nelle diverse fasi della sua attività, dagli acquarelli alle tempere, dai disegni alle incisioni, una massa note-ole di lavoro che se ne sta quasi in attesa di essere accolta, conosciuta ed apprezzata.
Mi corre subito il pensiero che questo studio ordinato, più da studioso, si direbbe che da artista come il pubblico si compiace di immaginarlo, è proprio in sintonia con la esatta misura del suo fare, sia come incisore che come uomo di cultura: Tarquinio è un artista misurato, il suo fare è pacato, riflessivo. Il gesto sicuro ed esatto, come i segni sulla lastra, ha adattato il carattere, di cui ricordo certe impennate ed impeti giovanili, alle necessità del lavoro ovvero il suo carattere meditativo e ha trovato un lavoro che gli si adatta perfettamente. Ogni gesto ed ogni risultato del fare sono pensati, meditati, hanno ragioni profonde e sbocchi dosati. Non esiste la casualità né l’approssimazione. Osserviamo i fogli a stampa incorniciati, sfogliamo assieme le cartelle di quelli riposti con cura, commentiamo, ricordiamo, lo studio ci accoglie nella ora serena, allora tormentata, pulizia mentale della creazione artistica.
Mi viene spontaneo rammemorare quello che fu il punto di partenza: i corsi presso la Scuola di arti e mestieri Ala Ponzone, qui a Cremona e poi quelli presso la Scuola superiore di arte applicata a Milano, i premi vinti da ragazzo per il disegno ( la vittoria nei Ludi Juveniles nel 1940 è uno di questi), il sostegno che gli veniva dalla famiglia che ben comprendeva la sua passione per l’arte e ne sapeva cogliere le costanti avvisaglie.
Non ho il coraggio di chiedere se ha ancora cose sue di quegli anni ma ho comunque memoria dei suoi lindi disegni a china che passavano di mano tra i fitti commenti suoi e di Sereno nello studio di quest’ultimo o nelle mostre, quando lui stesso insiste per mostrarmi una cartella con “le cose mie che piacevano tanto a tuo papà”. Chissà perché non è il colore la cosa che ricordo meglio di quegli anni ma proprio il segno, la sua forza ma anche la sua eleganza, la sicurezza e la precisione che lo hanno sempre caratterizzato ed anche certe modulazioni, certe sinuosità, che scandagliavano la forma, deformandola e ricreando una sor-prendente metafora umana.
Eppure questa stanza bianca e grande è piena di colori: le incisioni, le tempere, gli olii sono tutt’un tessuto di tinte incasellate dentro il disegno, come un arazzo dalle forme ondulate e dagli eleganti grovigli di linee che scavano il mosaico delle parti, lo sottolineano, lo costruiscono e, distruggendo l’immagine iniziale, la ricreano ironica, tragica, sensuale, mai ovvia né decorativamente vuota. “Non ho mai pensato di convincere con i miei quadri: ma sempre di far riflettere”, afferma, durante la nostra conversazione sullo stato dell’arte, la sua e quella degli altri autori, dipanando il nostro dire attorno alla sua concezione di poetica artistica: “La pittura è, come la poesia, l’arte di ridurre a simbolo espressivo la realtà apparente, di estrarre dalla materia che ci circonda l’essenza spirituale per rivelarla agli altri col mezzo di forme insieme logiche e anche sconvolgenti”.
Vero, penso, fissando lo sguardo sulle sue ultime opere che mi appaiono come un grido, un’invocazione dal silenzio ed anche una umanis- sima e dolente attesa “dell’ultimo viaggio” di un uomo che non ha mai considerato il valore decorativo di un’opera ma soltanto quello umano, uno per cui il quadro è la forma visibile della sua stessa oggettiva presenza, la sua azione è il quadro, in perfetta coerenza dialettica.
Sollevo gli occhi dalle opere che mi circondano più d’appresso e, dallo spazio tra le finestre, si affacciano affiancati i quadri degli amici che non ci sono più, un acquarello di mio padre, tra gli altri, ripercorro ancora le vie del ricordo, Naponi, Cordani, De Marchi, Biondini, Fayer, i viaggi in Svizzera e vengo così a conoscenza dell’ultimo suo successo: la pubblicazione a Bellinzona, in Svizzera appunto, di un volume che contiene oltre cinquanta fogli dedicati al mondo del West, ap- partenenti alla collezione di Renato Rattizzi, un riconoscimento importante in un paese straniero, quindi. Mi complimento e il discorso scivola sulla sua attività di disegnatore, sul lavoro di fumettista per i Bonelli, al suo rientro in Italia, al suo essere uno dei più noti autori di fumetti, soprattutto delle tavole del famoso TEX WILLER, il fumetto più amato dai ragazzi della mia generazione ( io lo scopersi il primo anno di università e non ne perdevo uno!). E’ quasi ovvio allora che si ripensi al soggiorno in Argentina, alla esperienza che allora potè costruirsi in questo settore, alle tante conoscenze che annodò durante i quattro anni del suo soggiorno, non ultima quella con Hugo Pratt, il “padre” di Corto Maltese.
Mi alzo e metto mano ai quadri, a quelli raccolti per terra in mucchi ordinati, gli uni appoggiati agli altri, vorrei rivederli tutti, i paesaggi del Po, le discariche e i grovigli dei rifiuti, le case in cui trovano rifugio le solitudini sfuggenti...di nuovo Tarquinio sottolinea la sua partenza dalla realtà, non attraverso una pura e semplice operazione mimetica ma per “...connotare una funzione “altra” del tempo e dello spazio. Se dipingo il negativo della mia epoca, afferma, è per tentare di volgerlo al positivo.”
Le sue parole mi richiamano al lavoro di mio padre, in loro l’etica è stata sempre un valore aggiunto dell’arte. Sospiro, lo richiamo ai tempi grami di oggi, va a prendere un pacco di agende, una decina, me le mostra e mi dice con un sorriso: “Guarda, qui ho scritto i miei pensieri e le mie considerazioni sull’arte, sulla pittura, sulle letture che ho amato, gli incontri e la vita.”
Apre e legge qua e là, ascolto, non commento, il respiro chiuso in gola in un filo di angoscia, poco dopo mi alzo, vorrei portarle con me leggere e pensare, come mi chiede lui ma non ho il coraggio di dirgli che mi fa star male pensare che tutta quella ricchezza dello spirito non sia condivisa, che possa andar perduta, che tut- tavia la sento così intima e sua da non riuscire, ora, a pensarla divisa da lui.
Sullo studio scendono le ombre della sera, il tramonto entra dalle finestre che guardano i tetti, lascio l’uomo alla sua attesa, lascio l’amico ai ricordi, l’artista alla sua solitaria creazione: “Comunicare con la pittura quale io la intendo, so essere una impresa fantastica e quasi impossibile ma non posso, in assoluto, fare a meno di tentarlo. La sostanza traducibile della forma è sempre quella dei contenuti, quella “reale”: ed è scoprirlo il compito dell’artista e tradurlo poi, ecco il più difficile, in immagini. E qui il discorso diventa infinito...” mi dice nell’ultimo abbraccio, annuisco.
E’ infinita davvero la passione dell’artista, immenso il peso del suo compito: buon lavoro, Maestro Sergio Tarquinio, buon lavoro per tanti anni ancora.
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