29 dicembre 2021

La secca invernale fa emergere sulle due sponde i resti di case, chiese e castelli inghiottiti dal fiume Po

Gli spiaggioni dell’una e dell’altra riva del Grande fiume, segno emblematico del periodo di magra invernale che il maggiore dei corsi d’acqua italiani sta attraversando, sono uno spettacolo per i paesaggi suggestivi che, con la nebbia o col tramonto, all’alba o in pieno giorno, sono in grado di offrire. Ma sono anche un libro di storia delle nostre terre, aperto per tutti coloro che il passato lo vogliono conoscere innanzitutto sui libri (come è giusto che sia) e poi direttamente sul posto. Gli spiaggioni sono un vero e proprio giacimento di storia, un museo a cielo aperto che, talvolta, regalano nuovi pezzi ai musei, quelli veri, che si trovano sulle due rive del fiume, nelle città come nei paesi. Con la speranza, ad oggi del tutto inascoltata da parte delle autorità civili (i primi che, diciamola tutta, avrebbero dovuto invece metterci attenzione) che, sulla scorta di felici esperienze già attuate (come quella, per esempio, dell’associazione Castelli del Ducato di Parma, Piacenza e Pontremoli), si possa costituire nei fatti (e non in convegni di dubbia utilità pratica, ma di palese propaganda elettorale per i soliti noti) una vera e propria associazione dei musei del medio Po, che coinvolga tanto la sponda emiliana quanto quella lombarda. Questa garantirebbe una maggior visibilità degli stessi, una migliore organizzazione sulla loro gestione e sulle aperture, una scoutistica sui biglietti d’ingresso attraverso la realizzazione di pacchetti e tanto altro. 

Ma cosa celano le grandi spiagge lasciate dal fiume in magra? I resti di grandi foreste che, in tempi remoti, sorgevano dove oggi, appunto, scorre il fiume; i reperti fossili di specie animali (oggi estinte) ben custoditi e valorizzati nel Museo Paleoantropologico del Po di San Daniele Po (ma anche in altri musei del territorio) e le tracce, chiare, di antichi edifici ed abitati ormai scomparsi. 

Quando si percorre, a piedi, uno spiaggione del Po, è normale incontrare resti di coppi, di mattoni, di vasellame e quant’altro. In apparenza, per chi li “incontra” con superficialità, solo poche e povere macerie. In realtà, anche il più piccolo di quei pezzi è una traccia del nostro passato: e già solo per questo è prezioso e va osservato con rispetto. Il sottoscritto, appassionato di storia, preferirebbe dire con venerazione. 

In questi giorni di Natale, sulla sponda parmense, a Polesine (di fronte, di fatto, a Stagno Lombardo), il Po ha restituito i resti di vecchie mura. Con ogni probabilità uno dei numerosi resti della antica Polesine di San Vito. La memoria, obbligatoriamente, corre quindi, documenti alla mano, ai paesi scomparsi, che un tempo sorgevano dove oggi scorre, lentamente e incessantemente, il Grande fiume. Luoghi divorati dalle erosioni provocate dal Po o, comunque, per vari motivi scomparsi materialmente, ma rimasti vivi nelle fonti storiche.     

Un tempo, come ricorda anche Dario Soresina nella sua Enciclopedia Diocesana Fidentina, di Polesine ne esistevano di fatto due: Polesine dè Manfredi, situata nei pressi di Stagno Parmense e Polesine di San Vito, situata invece nelle immediate vicinanze dell’attuale Polesine Parmense. La prima (Polesine dè Manfredi) con chiesa dedicata a San Martino sottoposta alla giurisdizione della pieve di San Genesio (San Secondo Parmense) e l’altra con chiesa dedicata ai santi Vito e Modesto, sottoposta alla pieve di Cucullo (Pieveottoville) in diocesi, allora, di Cremona.

Polesine dè Manfredi scomparve a causa delle erosioni create dal Po: il Della Torre, in un suo manoscritto del 1564 che elenca le chiese, i monasteri ed i benefici esistenti a quella data nella diocesi di Parma cita la sua chiesa quale “Ecclesia Polesini curata”, da molti anni occupata dai cremonesi aggiungendo la seguente postilla “Quae noncupabatur Polesini Manfredorum et erat in Parmensi, sed Ecclesia et tita villa fluit a flumine Padi consumpta et exportata: ideo de ea nulla est habenda ratio”. L’ultimo atto che faccia esplicito riferimento al paese è del 12 luglio 1219 (L. Astegiano: Codex diplomaticus Cremonae, vo.II, pag.137) e riguarda il pagamento di dazi al vescovo di Cremona, che esercitava nella zona anche potere temporale.

Nell’opera dell’Astegiano tanti sono i riferimenti anche a Polesine di San Vito, a partire dal 1186, ma in nessuna delle pergamene comunali pubblicate è citata la sua chiesa, tradizionalmente ritenuta di antica fondazione. Bisogna arrivare alla bolla di Eugenio IV del 9 luglio 1436 che vederla figurare, per la prima volta, accanto alle chiese della diocesi cremonese, che erano sottoposte alla collegiata di Busseto, eretta su istanza di Orlando Pallavicino, feudatario del luogo, e da lui ampiamente beneficiata. La storia informa che la prima chiesa parrocchiale di Polesine di San Vito venne demolita nel 1400 perchè gravemente danneggiata dalle acque del Po. La successiva, costruita intorno al 1400 in sostituzione della precedente, fu a sua volta distrutta dalle acque del Po nel 1720. E’ tra l’altro certo che il Marchesato di Polesine e Santa Franca ebbe un castello, come informa anche Guglielmo Capacchi nel suo libro “Castelli Parmigiani”. Castello che era posto a difesa di quell’importante porto fluviale che si apriva immediatamente a nord ovest del “Palazzo delle Due Torri” (l’odierna Antica Corte Pallavicina). Fonti storiche alla mano, un duplice ordine di fortificazioni esisteva in Polesine poiché il trattato di pace e di alleanza tra il Duca di Milano Filippo Maria e il Marchese Orlando Pallavicino del 5 gennaio 1431 parla espressamente di “castrum et rocha Polesini” lasciando intendere che l’abitato intorno al porto era cinto di mura e difeso da una piazzaforte.

E’ quindi molto probabile che le mura emerse in questi giorni possano appartenere a una delle due chiese, a al vecchio castello, sommersi dalle acque del Po. A questo proposito va ricordato che, negli anni Ottanta del Novecento, un palombaro venne inviato a far esplodere, in acqua, i resti degli antichi edifici che ostruivano il passaggio delle bettoline. Parte di questi resti si trovano tuttora dietro al vecchio municipio di Polesine Parmense; altri compongono invece la massicciata che delimita il corso del Po in territorio di Stagno Lombardo e sono ben visibili specie nei periodi di magra.  Non è comunque escluso che i resti possano appartenere all’antico centro di Vacomare che, a sua volta, sorgeva nei pressi dell’odierna Polesine Parmense. Per quanto riguarda invece Polesine dè Manfredi, come già anticipato, questo sorgeva nelle vicinanze dell’attuale Stagno Parmense, del grande e leggendario bosco detto “del Vajro” (in larga parte spazzato via dalle piene del Po) e di altri due luoghi di cui non resta che la memoria storica: Tolarolo e Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo). Tolarolo sorgeva tra Roccabianca e Stagno e tuttora, a poche centinaia di metri dal centro di Roccabianca, esiste un’arteria comunale denominata “Tolarolo” e si trovano pochi, poveri resti di un antico cimitero. A Tolarolo già nel 1058 sorgeva un castello che Arrigo IV, Re di Germania e d’Italia, concedette ai Borghi (o Da Borgo) di Cremona. Nuove notizie su questo luogo compaiono nel 1316 quando vi trovò rifugio un nerbo di truppe fedeli a Giberto da Correggio (e forse Giberto stesso), appena cacciato dalla Signorìa di Parma. Proprio da Tolarolo, Giberto attendeva aiuti cremonesi proprio per muovere alla riscossa, ma dopo pochi giorni perse anche quella signoria e, furioso, si diede a saccheggiare la campagna parmense, scatenando così la reazione dei cittadini che, alternandosi per “Porte” avvicendarono forze sempre fresche all’assedio di Tolarolo (18 ottobre – 22 novembre 1316. I correggeschi alla fine vennero a patti e, se il Podestà di Parma si era accontentato di presidiare il forte con truppe fedeli alla città, il capitano del Popolo, Guiscardo, della Società dei Crociati, cavalcò a Tolarolo spianandolo fino alle fondamenta e colmando i fossati. Un ultimo documento, che parla del castello di Tolarolo ormai distrutto, è datato 1375. Oggi non resta alcun rudere di quell’edificio come non resta nulla della sua chiesa che era dedicata a San Michele e della vicina fortezza di Rezinoldo (o Rezzenoldo o Arzenoldo), località che per la prima volta compare nell’elenco di ville di cui Federico Barbarosssa infeuda, nel 1189, Oberto Pallavicino ed è opinione di Francesco Luigi Campari, nel suo libro “Un castello del Parmigiano attraverso i secoli” che il nome del luogo derivasse da “argine” (la forma dialettale è “àrzen). A Rezinoldo, di fatto “inglobato” nell’odierna Roccabianca esisteva anche un chiesa dedicata a San Bartolomeo. L’attuale chiesa di Roccabianca, dedicata ai “Santi Bartolomeo e Michele” rappresenta, di fatto, una sintesi, e quindi un ricordo, dei due sacri edifici scomparsi. Altro castello scomparso è quello di Torricella di Sissa Trecasali, anticamente detta San Donnino del Castello di Torricella, per distinguerla da Torricella ultra Padum, vale a dire Torricella del Pizzo, posta sulla sponda casalasca del fiume. E’ probabile che il castello, citato ufficialmente per la prima volta nel 1284, esistesse quando le due “Torricella” erano di fatto una unica località. Il maniero venne distrutto, al termine di una cruenta battaglia fluviale nel 1427.

Sempre in terra parmense non resta alcuna traccia di Isola dei Bozardi, località situata tra Gambina e Polesine di San Vito che, nel 1219, figurava come Insula de Committibus e successivamente denominata Ysoleta Domini Bozardi De Burgo nella quale si trovava anche una chiesa, dedicata a San Domenico. Nei presi di Pieveottoville, anticamente, sorgevano invece le località di Caprariola (a sud del paese, nella zona che conduce a Samboseto), Tecledo e Brivisula. In particolare, come si può leggere anche nel Codice Diplomatico della Lombardia Medievale (sec. VIII-XII) Carlo II imperatore, su richiesta di Benedetto, vescovo di Cremona, assunse sotto la sua protezione tutti i beni e i diritti pertinenti alla Chiesa cremonese, confermando i diplomi di immunità e protezione, già emanati da Carlo Magno, Ludovico I, Lotario I e Ludovico II, e ribadisce le concessioni alla Chiesa cremonese, contenute nei citati diplomi di Carlo Magno, Lotario I e Ludovico II relative alle località di Tecledo, Brivisula e Cucullo, al porto sul Po e ai diritti di passaggio, molitura e attracco fino alla confluenza dell'Adda nel Po; conferma infine il diritto della Chiesa cremonese ad esigere le tasse di palifictura e ripaticum senza alcuna contestazione. Anticamente, in epoca longobarda, tra le odierne Pieveottoville e Ragazzola, sorgeva inoltre la località di Carpaneta, di cui non resta tracia alcuna. 

Passando quindi al territorio cremonese, e in particolare all’area casalasca. i luoghi spazzati via, nel tempo, dall’azione del Po sono Barcello, Cella, Casale dè Ravanesi, Scurdo e Gurgo. Di tutti restano solo documenti in cui vengono menzionati, in gran parte di carattere ecclesiastico. Come nel caso di Cella che era sottoposto alla giurisdizione del vicariato di Casalmaggiore. Dall’arciprete di Casalmaggiore riceveva l’olio santo e nominava i. reggente della chiesa di Cella stessa.  Una carta topografica di Antonio Campi datata 1583 vede Cella situata sulla sponda destra del Po e, pertanto, il suo distacco dalla riva casa lascia va collocato anteriormente a quella data.  L'esistenza di Cella coincide dunque con il tempo in cui Casalmaggiore godeva di un più vasto diritto sui territori staccatisi dalla sua sponda. All’inizio del 1600 Cella esisteva ancora e aveva 140 abitanti, oltre ad una piccola chiesa dedicata a San Pietro, composta da una sola navata, con un tetto basso e piuttosto pericolante. La chiesa, tra l’altro, non consacrata, non aveva la sagrestia ed era priva di Sacramento a causa della povertà degli abitanti. Tra i suoi titolari, il benedettino padre Angelo Dè Tei.  Le attività principali erano quelle legate all’agricoltura e ai mulini sul Po. 

Infine, nel terzo volume della “Storia di Casalmaggiore” dell’Abate Giovanni Romani, sono citate anche le località di Casale dè Bellotti che dipendeva dalla curia di Fossacaprara e Casale dè Zani, che dipendeva dal territorio di Cogozzo. 

Le potremmo definire le “Atlantidi” del Po. In ogni caso, al di là delle definizioni più o meno fantasiose, tracce preziose di un passato che va tramandato e conosciuto.

Eremita del Po

Paolo Panni


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