17 marzo 2024

San Giuseppe. "El cièsol" di Reboana (Cella Dati), storia e tradizione: polvere e calcinacci sul vecchio pavimento

‘El cièsool’ di Reboana -frazione di Cella Dati- me lo ricordo come se ci fossi entrata poco fa: ecco là, la pala d’altare raffigurante la Vergine Maria, dipinta all’interno di una cornice blu in legno con decorazioni dorate, sormontata da una lunetta in cui erano affrescati due uomini in saio, uno dei quali addormentato su una roccia, mentre in cielo un Gesù avvolto da una croce luminosa li benediceva. Ricordo le due file di banchi e le due sedie in fondo, il soffitto e le pareti di un colore leggermente ceruleo; poi sulla sinistra c’era la nicchia con la statua di San Giuseppe col Bambino in braccio mentre a destra una mensola portava un Bambino di Praga con la sua caratteristica veste ricca di decorazioni dorate. L’altare altro non era che un tavolo in legno coperto da una tovaglia bianca sempre ben stirata e piegata, su cui troneggiavano due candelabri di ottone scurito. La sacrestia era una vecchia stanzetta, forse un sottoportico, da cui si accedeva attraverso da una porticina coperta da una pesante tenda rossa. Da due finestrelle entrava una luce morbida. In fondo alla chiesa, vicino alla porta, da una vecchia stufa a legna si diffondeva il leggero crepitio delle braci mentre un filo di fumo pervadeva appena l’aria.

Come in una foto d’altri tempi

Non c’era storia: appena iniziava la bella stagione, ossia a partire da marzo (la chiesa era intitolata a San Giuseppe, festeggiato il 19 marzo), una volta alla settimana -se non ricordo male, il mercoledì, ma potrei sbagliare- si andava a messa. Ore 5 del pomeriggio (non si usava dire ‘ore 17.00’, perchè in dialetto l’orario era impostato sulle 12 ore, che poi se serviva bastava specificare ‘dèl bàs’ oppure ‘dèela màtiina’). La nonna Gina cambiava l’abito scuro da lavoro con quello -scuro- da messa, si sistemava i capelli col suo pettine in osso e si copriva il capo col suo foulard scuro, metteva le ciabatte di pelle lucida e si partiva. Non c’era molto da discutere. Era ora e si andava a messa al cièsool, che la Linda aveva provveduto a preparare già caldo accendendo la vecchia stufa a legna. Poi pian piano arrivavano tutte le pie donne della piccola frazione, con i loro abiti scuri, le sottane sotto il ginocchio, il golfino o la camicetta non troppo colorati, i capelli raccolti nel ‘cucugn’ (la cipolla) sotto il ‘fazzoletto’ (foulard era troppo vanitoso come termine per indicare il quadrato di stoffa con cui venivano coperti i capelli in segno di rispetto) e le immancabili ciabatte: oltre la Linda e la nonna Gina, c’erano la Ambrogia, la Zemira, la Bruna, la Mentina, l’altra Gina e la Signora Rossana, a volte arrivavano anche la Lena e la Colomba da Alfeo, frazione a poca distanza. Unica e costante presenza maschile, oltre il parroco naturalmente, era il professor Abramo, un uomo singolare -come anticipava già il suo nome biblico-, di vastissima cultura e incrollabile fede, coi suoi occhiali dalla montatura scura e le lenti brunite, che si muoveva sempre e solo con la sua bicicletta, estate ed inverno, sole o pioggia.  Nella stagione calda con pantaloni e camicia chiari, in inverno in abiti più scuri ed un cappotto di lana legato in vita con una cintura dalla fibbia di osso ed un cappello di panno a protezione della testa.

Le donne arrivavano lentamente a piedi, abituate a camminare da tutta la vita, al massimo in bicicletta sulle distanze più lunghe, nate e cresciute ben prima che le automobili arrivassero in questi paesi lontani dalla città. 

Una fotografia di un tempo passato, di cui vive ora solo la memoria, dal momento che quel luogo di culto è stato svuotato del suo significato ed oggi non ne resta che un edificio vuoto, chiuso, inglobato tra altri ruderi cadenti, con ancora solo qualche traccia di quella fede che un tempo lo teneva vivo. Ormai chiuso da anni, il cancello davanti al portone d’ingresso è stato addirittura saldato, una fioriera di cemento posta di traverso per impedire l’accesso a malintenzionati, dopo che già molto è stato rubato e deturpato. Svutota del suo significato di fede e devozione, spenta lentamente come lentamente, negli anni, se ne sono andate quasi tutte le anime che in quel luogo erano solite pregare. 

Dalla storia recente a quella più antica

Dal punto di vista storico, la documentazione relativa a questo oratorio è piuttosto scarna. Sulla data di costruzione, non abbiamo notizie certe, se non che fu di patronato Bissolati ed i committenti, Martino e Stefano Bissolati, risultavano già morti  intorno al 1710. Pertanto la costruzione dovrebbe essere avvenuta nella seconda metà del XVII secolo. La struttura fa parte del complesso architettonico del cascinale a cui si appoggia, quindi di proprietà privata, pertanto non si trovano informazioni negli archivi parrocchiali delle chiese limitrofe rendendo difficile darne informazioni precise e dettagliate.

Non è improbabile che sia stato edificato su un preesistente luogo di culto, forse pagano, dato che si trova esattamente all’incrocio tra un cardo ed un decumano dell’antica centuriazione romana. Allo stesso modo poche centinaia di metri più in là, all’intersezione dello stesso decumano con un altro cardo, nella campagna tra la località Boschetto e Gurata, si trova una santella dedicata a Cristo Crocifisso ed anch’essa verosimilmente sarebbe sorta su una preesistente ara pagana o comunque sui resti di un luogo di culto originariamente non cristiano. Reboana infatti, come tutto il territorio che oggi fa riferimento a Cella Dati, ha radici remote nella storia e prova ne è appunto la presenza di questa via centrale che la taglia a metà proprio in corrispondenza dell’antico decumano creato dalle centuriazioni romane dei primi decenni dopo Cristo.

Anche Reboana, come la maggior parte delle attuali frazioni, fu Comune autonomo con oltre un centinaio di abitanti e fino alla seconda metà del 1700 rimase pertinenza del feudo di Vidiceto; nel 1757, insieme a Castel Celano, venne aggregato ad Alfeo (editto 10 giugno 1757). In seguito, con l’istituzione del regno Lombardo-Veneto (notificazione 12 febbraio 1816), Alfeo -con Castelcelano e Reboana- venne dapprima incluso nel distretto VI di Pieve d’Olmi ed in seguito aggregato al comune di Cella (Compartimento 1816). Quindi il regio decreto a firma di Vittorio Emanuele II del 24 maggio 1868: “I comuni di Cella Dati, Dosso de’ Frati e San Lorenzo Mondinaria sono soppressi, ed aggregati a quello di Pugnolo”, in tutto 1.878 abitanti (che sono grosso modo il quadruplo degli attuali).Così fino al 28 dicembre dello stesso anno, quando il capoluogo fu definitivamente spostato a Cella Dati.

Di nuovo la chiesetta di S. Giuseppe

Ma torniamo alla nostra chiesetta, che mentre tutte queste vicende storiche e politiche si susseguivano, era presenza costante per accogliere le preghiere e le suppliche dei fedeli, indipendentemente dalla forma giuridica dei Comuni e delle loro istituzioni. Al suo interno era già presente l’affresco nella lunetta sopra l’altare, restaurato negli anni ‘70  fa da Giovanni Misani; sul muro era già stata fissata la preziosa cornice lignea, probabilmente del 1500, nella quale era stata adattata successivamente la tela -più recente della cornice- con l’immagine di Maria, sormontata dall’iscrizione latina “In humana navigationis cursu / sub Deipara virginis auspicio / tutus promittitur porto” che tradotto ci dice: “Nel corso dell’umana navigazione, sotto l’auspicio della Vergine, un porto sicuro viene promesso”. Oggi nella cornice non si trova più nemmeno la tela col dipinto della Vergine Maria, portato in altro luogo prima che potesse essere trafugato o rovinato. Poco altro resta all’interno di quel povero edificio, che oggi appare ancora più vecchio di quanto non lo sia in realtà, senza più tracce dell’antica fede che lo rendeva ‘èl cièsool’. Solo l’affresco e la cornice restano di presidio, ultimo miraggio di quel porto sicuro di cui oggi invece avrebbero così bisogno queste mura, sopravvissute per quasi quattro secoli a guerre, invasioni straniere e periodi di povertà ma che rischiano invece proprio oggi, in tempi di pace e prosperità, di perdersi per sempre, sopraffatte dai peggiori nemici, l’abbandono e l'oblio che, come quella pesante coltre di polvere e calcinacci scesa sulle vecchie pietre del pavimento, nasconde ogni colore e ricordo.

Le foto degli interni sono state scattate da Chiara Scotti, in occasione della pubblicazione dell libro ‘Cella Dati - Storia e Territorio’ (Giovanno Scotti e Fausto Ghisolfi)

 

Michela Garatti


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