12 ottobre 2025

Gesù, Maestro, donaci la vera fede

La lettura del racconto della purificazione dei dieci lebbrosi suscita in me molte difficoltà. Non so se le domande che mi pongo siano corrette, però non riesco ad evitarle. La prima domanda che mi faccio è: “perché Gesù proclama migliore degli altri l’uomo che non fa quanto Gesù ha chiesto di fare?”. Dopo tutto nove su dieci sono andati a presentarsi a chi avrebbe dovuto sancire la loro guarigione, compiendo la richiesta di Gesù, uno è tornato indietro, sembrerebbe prima di presentarsi ai sacerdoti, dai quali forse nemmeno è andato dopo. La seconda domanda che mi faccio mi sorge dal pensare a come sia avvenuto questo fatto. Incontriamo nel racconto elementi particolari che sembrano essere stati scritti per consegnare un insegnamento piuttosto che per la presentazione di un atto di potenza compiuto da Gesù: dieci è un numero simbolico di particolare rilevanza; al tempo di Gesù i lebbrosi non stavano “dentro” i villaggi, ma fuori, quindi Gesù avrebbe dovuto incontrarli prima di entrare, lungo la strada. Si tratta quindi di una “cronaca” o di un “racconto esemplare”, che Luca ricostruisce a partire da una guarigione? 

Mi rendo conto di complicare le cose, ma se provo a rispondere a queste domande, mi sembra che il racconto di Luca acquisti una suggestiva possibilità di comprensione.

Gesù si trova davanti a dieci uomini, malati di lebbra, contagiati da un male che li esclude dalla vita, che li isola dalla famiglia e dalla società. Si tratta di dieci emarginati. Di fronte all’emarginazione che li accomuna, sparisce ogni altra differenza: fra malati non ci sono conterranei o stranieri. Questi uomini si fanno avanti insieme verso Gesù, con una invocazione quasi liturgica, bella, pienamente cristiana: “Gesù, Maestro, abbi pietà di noi”: un atto penitenziale semplice e vero, come potrebbero essere quelli che si pregano a Messa. Di fronte a questi uomini malati, alla loro preghiera devota e pia, Gesù li guarisce dal loro male: non stendendo le mani su di loro, non pronunciando parole di liberazione, ma “semplicemente” mandandoli dai sacerdoti perché questi attestino la loro guarigione, secondo le prescrizioni della Legge (cfr. Lv 14,2-3). Questi partono ammalati e mentre si fidano della parola detta da Gesù si vedono risanati, purificati. Lungo la strada uno di loro si rende conto che andare dai sacerdoti non basta, che l’osservanza della Legge non è sufficiente. Davanti a lui si è posto Uno più grande della Legge, capace di guarire, cosa che la Legge da sola non può fare, perché ad essa è riservato solo il compito di riconoscere e proibire. 

Quest’uomo, a differenza degli altri, torna indietro e nella sua “eucaristia”, nel suo rendimento di grazie a Dio in Gesù, rende realmente gloria a Dio, cioè compie l’atto di culto autentico che solo il vero e pio israelita poteva compiere. 

Qui mi pare si sciolgano le difficoltà per comprendere il racconto, che diventa un esempio per noi. 

Gesù, ci dice Luca, non nega le istituzioni, non nega la religione, ma ci ricorda che essere religiosi non basta per essere salvati. La fede è un qualcosa di più, qualcosa che è dentro la religione, ma senza coincidervi necessariamente. La fede è oltre la religione, ma senza annullarla.

Ciascuno di noi è sempre uno di quei lebbrosi, ciascuno di noi è il componente di questa simbolica comunità di dieci persone. Ciascuno di noi può accontentarsi di una fede solo religiosa, o può spalancare la propria religione alla fede, trasfigurando i gesti e gli atti della religione in vera lode, vera eucaristia (ringraziamento), in vero rendimento di gloria a Dio. 

E da credenti siamo chiamati a riconoscere che nessuno di noi può ritenersi migliore degli altri. Chi da noi è considerato indegno o inadatto, potrebbe superarci, anche di molto. Ogni categoria umana in Gesù è annullata, ribaltata: in Lui davvero l’ultimo diventa primo. In Gesù nessuno ha privilegi da vantare, primi posti da poter pretendere.

Da qui alcune domande a cui ci provoca il Vangelo. Quale rapporto c’è tra la nostra religione e la nostra fede? Nel nostro cuore c’è un fondo che ci fa ritenere che qualcuno sia meno degno di altri, che Dio consideri alcune persone meno degne di altre? Quando Dio mi raggiunge, so rendergli grazie con un cuore sincero e spontaneo, come il samaritano, o alla fine mi accontento della mia pratica religiosa, perché è già sufficiente?

Ancora una volta devo riconoscere che il Vangelo non ci dà risposte rassicuranti e pacificanti, piuttosto ci spinge a domande radicali, che mettono in gioco e in discussione le fondamenta del nostro essere cristiani, affinché la nostra fede, purificata dalla Parola, possa essere realmente esperienza di risurrezione e di vita, e così, sentirci dire da Gesù: “Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato”. 

Francesco Cortellini


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