Il Chiarismo lombardo, la collezione Iannaccone e la casa Boschi Di Stefano
Sono tornato con grande gioia a visitare la collezione Giuseppe Iannaccone, dopo due anni sabbatici imposti dalle restrizioni anti-covid: notissimo avvocato milanese di origini partenopee, ha costruito durante decenni di collezionismo la più importante raccolta privata di arte italiana tra le due guerre mondiali che in alcuni fortunati momenti dell’anno può essere ammirata nel suo studio legale con una splendida vista su piazza San Babila a Milano. All’avvocato sono particolarmente legato perché grazie anche alla sua generosità potei allestire 5 anni fa la prima mostra in Cittadella con due suoi prestiti di opere, La Signora Cavallo di Birolli e il Circo di Badodi.
Ieri però sono stato conquistato da un bellissimo quadro che non avevo mai visto, L’Adda a Brivio di Umberto Lilloni del 1938: è un paesaggio fluviale azzurro con tre edifici bianchi e delle verdi montagne ma con un uso del colore talmente fine e delicato che mi ha veramente ammaliato. Non a caso l’avvocato lo ha collocato vicino agli altri due grandi del cosiddetto “Chiarismo Lombardo”, Francesco De Rocchi e Angelo Del Bon. Il Chiarismo è una corrente pittorica di cui non si sente praticamente parlare mai, e questo a mio avviso è uno dei tanti difetti di noi lombardi, che alla nostra arte (e più in generale alla nostra cultura) non diamo mai la giusta importanza: siamo sempre troppo indaffarati a costruire il presente per occuparci del passato. Molto i Chiaristi hanno dell’Impressionismo, tanto che guardando un Del Bon non si può non pensare subito a Pissarro, con De Rocchi a Seurat e con Lilloni a Sisley e ai Monet più delicati: è una pittura en plein air, dedicata alla natura e ai paesaggi, rasserenante e un po' borghese, per nulla impegnata socialmente, piena di colori dolci e garbati, ma senza eccessi e con pennellate piccole tirate e sottili, tanto che nelle tonalità ricorda perfino Bouguereau e l’Accademismo francese mentre è lontana anni luce dagli eccessi di Van Gogh.
Il Chiarismo potrebbe tranquillamente essere definito il nostro Impressionismo, perché di lombardo ha la malinconia asciutta dei paesaggi, una certa rassegnazione mai drammatica ma anche la mancanza di eccessi e una paziente dedizione. E’ una pittura di tutto rispetto, di cui tantissimi eredi abbiamo avuto anche nella nostra storia più recente nelle nostre terre sia cremasche che cremonesi come Felisari, Laini, Boriani, Allegri e tantissimi altri minori di cui le case dei nonni erano piene…
Questa corrente nata negli anni ’30 deve il suo nome al grande critico d’arte Leonardo Borgese, in parte perché la tecnica dei pittori parte dal dipingere i colori sul bianco ancora umido, in parte perché tutto in essa è leggero, diafano, delicato, sfumato…come lo sono i nostri paesaggi invernali quando le coltri di nebbie bianche lasciano campo a un debole sole di mezzogiorno per poi ringoiare in un paio d’ore il gracile azzurro del cielo d’inverno. Una pittura nata per contrappunto e all’opposto degli eccessi coloristici provocatori e politicamente urgenti dei cugini futuristi, anche loro lombardi: è una pittura certamente “minore”, non fondamentale nella storia dell’arte, ma assai piacevole e soprattutto tutta nostra, e meriterebbe almeno nei nostri spazi culturali una maggiore considerazione e maggiore studio e dedizione e che invece io ho riscoperto con piacere grazie alla raffinatezza e alla dedizione di un privato cittadino come Iannaccone.
E vengo ad una considerazione, che riguarda la straordinaria importanza di queste collezioni private, che in America hanno fatto la storia e il cuore dei grandi musei nazionali, come la Getty a Los Angeles, la Walters a Baltimora, la Mellon e la Kress a Washington, la Blumenthal al Metropolitan di New York e molte molte altre, e che invece in Italia continuano ad avere un rapporto tristemente difficile con le istituzioni culturali.
Ora vero è che l’America non aveva un patrimonio artistico suo e che ha potuto costruirlo solo grazie alle acquisizioni internazionali dei propri industriali mecenati; vero è che al contrario noi abbiamo secoli di produzione e accumulo di innumerabili opere d’arte stipate nei magazzini che nemmeno riusciamo a valorizzare adeguatamente; vero è quindi che lo Stato non ha assolutamente i mezzi per valorizzare anche queste collezioni private, ma non può non averne almeno la volontà, che invece si consolida solo quando questi privati decidono di regalare senza condizioni le loro collezioni, e perfino in quei casi spesso inizia un lungo calvario che dura decenni pur nei contesti più virtuosi ed evoluti.
Penso su tutti a uno degli esempi virtuosi che meglio conosco, che è la Casa Museo Boschi Di Stefano a Milano: essa espone – negli stessi locali abitati in vita dai coniugi collezionisti Antonio Boschi (1896-1988) e Marieda Di Stefano (1901-1968) - una selezione di circa trecento delle oltre duemila opere della collezione che Boschi donò al Comune di Milano nel 1974. La collezione, così come risulta dagli atti comunali dell’epoca, fu letteralmente regalata al Comune dal Boschi rimasto vedevo nel 1968 della amatissima moglie: un valore allora stimato nelle cifra enorme di due miliardi di lire, e suddiviso in quasi 2.000 opere tra cui “40 Sironi, 20 Birolli, 42 Fontana, oltre a De Pisis, De Chirico” etc … In cambio Boschi chiese che il Comune investisse circa 180 milioni di lire per trasformare la propria abitazione in museo. Boschi morì nel 1988 completando il lascito, ma iniziò una lunga battaglia legale tra gli eredi e il Comune che venne risolta solo a metà degli anni ’90 grazie alla mediazione di Philippe Daverio con la costituzione della Fondazione e della gestione paritaria della collezione tra gli eredi e il Comune e che ha portato finalmente nel 2003 alla apertura dell’attuale Casa Museo, visitabile ogni giorno e che merita assolutamente di essere vista.
Ci sono voluti ben 30 anni, nonostante una donazione gratuita enorme e prestigiosissima da parte del privato e le migliori intenzioni da parte dell’ente pubblico: un risultato virtuosissimo ma il cui lunghissimo iter potrebbe scoraggiare le migliori intenzioni di donazione.
Mi chiedo dunque se non si possano trovare delle vie mediane, non necessariamente legate a lasciti che inevitabilmente intersecano vicende ereditarie familiari e complessissimi iter burocratici, che permettano ai collezionisti che ne hanno il desiderio di condividere questi loro gioielli con tutti i cittadini senza necessariamente privarsene.
Insomma se non si possa cominciare a immaginare in qualche modo di dedicare spazi pubblici alla fruizione periodica e rotativa di questi tesori privati.
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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