14 ottobre 2025

La tregua a Gaza, qualche riflessione per il giorno dopo

E’ il giorno della liberazione degli ostaggi a Gaza e con essa della tregua, non della pace. La storia degli ultimi due anni comporterebbe scrivere un libro, tanti sono i giudizi, le riflessioni e i sentimenti, anche contraddittori, che si sono accavallati in ciascuno di noi. Non basta un semplice articolo. Lascio quindi su questa storia coinvolgente qualche proposizione e riflessione sparsa in forma di promemoria, su parte delle quali molti possono non essere d’accordo ma possono usarle come punti di partenza per riflettere.

Avere la consapevolezza che Hamas non concepisce la pace ma solo una tregua temporanea con gli infedeli che osano stare nelle terre dell’Islam. Così detta anche il Corano. La tregua serve per riorganizzarsi in silenzio prima di riprendere la Jihad. Ai fanatici in divisa verde e occhiali neri, che sembrano dei marziani cattivi, nei confronti dei quali il mondo progressista si è mostrato purtroppo sempre più indulgente, il messianesimo religioso che li abita non lascia spazio a ripensamenti. Israele deve essere cancellato con una lotta che non si pone limiti di tempo, irrorata dal sangue dei martiri. Questo significa, senza essere poi troppo pessimisti, che il conflitto ricomincerà quando i loro capi lo decideranno.

Ricordare il popolo di Gaza e le sue vittime. L’ultima una bambina di nove anni di nome Rasil colpita quando la tregua era già iniziata. Nella consapevolezza che quel popolo è insieme schiavo e scudo umano ma anche sostenitore di Hamas, sarebbe ipocrita tacerlo. Senza libertà politiche, libertà di parola, libertà di stampa e di informazione, libertà religiosa non si formano una opinione pubblica e una società civile e mancando queste non si forma nemmeno una classe dirigente, una condizione senza la quale uno Stato non può esistere. Possono esserci solo bande di predoni al comando, in un territorio, di una massa indistinta di sudditi.

Ricordare i quasi mille soldati dell’esercito di Israele caduti a Gaza per ridare la libertà ai loro connazionali. L’ultimo, il sergente Michael Nachmani, colpito da un cecchino e spirato anch’egli quando la tregua era già è stata firmata.

Ricordare, non è un dettaglio, che in cambio dei 20 ostaggi israeliani sono stati liberati quasi 2000 detenuti palestinesi tra cui molti condannati all’ergastolo per decine di omicidi e altri delitti efferati contro civili. Dopo il massacro del 7 ottobre è un’altra estorsione, consumata con successo. In questo scambio, simile per rapporto numerico ad altri del passato, è contenuta però una verità paradossale: la vita di un cittadino israeliano vale quella 200 palestinesi e non c’è per i terroristi di Hamas da farne gran vanto.

Ricordare i morti “altri”, le quasi mezzo milione di vittime della guerra civile in Siria e i civili morti e che continuano a morire in Sudan, non meno che a Gaza, e il numero enorme di rifugiati che sta provocando ancora il conflitto tra le fazioni in quel paese. I morti in Sudan non sono mai stati sulle prime pagine dei giornali perché non hanno fatturato “politico”, non si possono attribuire ai propri avversari ideologici, quindi non servono.

Ricordare che anche in Ucraina sono morti e continuano a morire migliaia di civili ma non sono una bandiera colorata nelle strade. Le pagine dei giornali sulla guerra in quel paese non le legge quasi nessuno. È una tragedia in luoghi freddi e un po’ remoti che non ha rappresentazione, che non vende biglietti.

Ricordare il peccato originale di chi ha sempre odiato Israele. Qualsiasi ingiustizia sia avvenuta in quelle terre quando nel 1948 Israele è nato, chi ci viveva aveva accanto un paese che stava progredendo in modo straordinario e l’unico che in Medioriente conosceva la democrazia. Avrebbero dovuto cercare di imitarlo e non cercare di distruggerlo. Ma fare la guerra, impugnare il mitra e gridare slogan, è più facile di costruire la pace e di conquistare la propria prosperità. Così più settant’anni dopo siamo ancora qui.

Quanto a Israele, pur costretto ad una guerra feroce, alcune ferite che ha inflitto o dovuto infliggere sono immedicabili. I racconti dei bambini prematuri morti in mano ai medici negli ospedali durante i bombardamenti, a Gaza i parti precoci sono stati tanti per la mancanza di alimentazione, fanno star male. Poi, dopo il 7 ottobre e con il governo estremista di Netanyahu,  hanno dilagato i famelici coloni portatori in Cisgiordania di un messianesimo religioso uguale e contrario a quello degli islamisti. Sono i fanatici di un “Grande Israele”, una sorta di “dal  fiume al mare” alla rovescia in cui Israele dovrebbe espandersi, come nella Bibbia, sino all’Eufrate. 

Se il futuro Parlamento israeliano non rifletterà su questo forse Israele, pur dopo tante vittorie, ha i giorni contati. Ci vorranno comunque decenni prima che Israele possa purificarsi, ritorni nel cuore di chi l’ha sempre difesa perché era in tutto il Medio oriente il luogo migliore per un laico in cui vivere e quello in cui non solo l’economia ma la cultura e la scienza hanno fatto i più grandi progressi. 

L’unico antidoto al conflitto che ricomincerà è la presenza e l’impegno di una autorità internazionale condivisa dall’ONU, dagli Stati Uniti, dai Paesi arabi e soprattutto dai Paesi europei dell’Occidente, presieduta magari da una personalità internazionale neutra e autorevole. Una presenza che non deve essere percepita come colonialista ma capace, oltre agli aiuti economici, di uno sforzo educativo che traghetti quei luoghi verso una società civile e aperta. Non è un compito facile. Quanto avvenuto ha instillato, ed è comprensibile, odio nei giovani e nei giovanissimi di Gaza per i quali, divenuti uomini, la strada psicologicamente più facile sarà essere quella della vendetta. E l’odio, come si sa, è il sentimento più duraturo.

L’Italia soprattutto, un paese che ha una buona credibilità, deve essere presente con le sue intelligenze e i suoi tecnici. Evitando nel partecipare a questo progetto ogni polemica e contrapposizione politica di parte. E’ compito di tutti noi, politici e cittadini, assicurare questo impegno senza divisioni.       

Guido Salvini


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