13 novembre 2022

La santità non si nutre di perfezione, ma di abbandono

“Padre dei poveri… uomo di pace… amante del vero”. La liturgia della solennità patronale del 13 novembre ci consegna, a mo’ di pennellate, veloci ed esaustive, alcuni tratti dell’uomo e del cristiano Omobono Tucenghi, il mercante di stoffe divenuto trafficante di carità, che dal 1197 non solo protegge, ma sprona, incalza e inquieta la città e la diocesi di Cremona a vivere il messaggio di Cristo nella sua radicalità. Sì, perché i santi non vanno soltanto invocati, come potenti intercessori, ma vanno imitati. La Chiesa li addita al popolo come fulgidi esempi di come il Vangelo possa declinarsi in ogni epoca storica, in ogni condizione sociale, in ogni situazione familiare. Essi sono davvero un Vangelo vivente: con la loro vita e il loro stile dicono che è possibile tradurre nel quotidiano la Parola di Dio.

Certo bisogna sfatare un mito: i santi non sono dei perfetti! Purtroppo, soprattutto prima del Concilio Vaticano II, questi uomini e donne assunti agli onori degli altari, venivano presentanti, in devote agiografie, fin dalla tenera età, come esseri angelicati, avulsi da ogni pulsione umana, da qualsiasi macchia morale, dal peccato anche quello più piccolo. Sempre intenti a pregare e a dedicarsi alle cose del Cielo, indomiti nella carità, in fuga continua dal mondo, dai suoi piaceri, ma anche dalla gioia e dall’ilarità. Non ho mai trovato una statua di San Luigi Gonzaga sorridente! Le ho sempre viste con delle espressioni malinconiche, gli occhi spenti rivolti al Crocifisso e nella mano stanca un candido giglio. A guardare certa iconografia cristiana la voglia di diventare santo passa anche al più volenteroso dei credenti!

La santità non si nutre di perfezione morale - l’unico “immacolato” è Cristo e Maria sua madre, per una grazia singolare – ma di abbandono!

Il santo è uno che scommette tutto su Dio mettendo da parte le proprie certezze, i propri progetti, il proprio futuro e quel pervicace e ancestrale desiderio di affermare continuamente sé stesso per affidarsi unicamente al Signore, alla sua forza, alla sua azione, soprattutto al suo amore potente e trasformante. È una persona che non si lascia abbattere dal proprio peccato e dai propri fallimenti, ma li “usa” per aggrapparsi ancora di più alla misericordia del Padre nella logica “illogica” di San Paolo: la potenza di Dio si manifesta nella debolezza dell’uomo.

Il santo è uno che ha assaggiato la libertà dello spirito e ne è rimasto così inebriato da considerare secondario tutto il resto: non c’è nulla di mondano, ormai, che riesce a rapirlo come le cose del Cielo. È in fondo quello che ci racconta, in questa solennità di Sant’Omobono, la pericope evangelica secondo Luca: un testo che profuma di stupore, di meraviglia di fronte all’attenzione e alla cura che Dio riserva per ogni sua creatura; che trasuda una sovrana libertà, la stessa che prova chi si è consegnato totalmente a Colui che muove i fili della storia ed ha sempre l’ultima parola sulle vicende del mondo. La Provvidenza è il salario di chi non ha altro scopo nella sua esistenza che cercare il “Regno di Dio”.

Ma cercare il “Regno di Dio” cosa significa? Vuol dire portare alla luce e far crescere con ostinazione sempre e solo il bene, la pace, la giustizia, la purezza interiore, la mitezza, la misericordia… tutte quelle realtà che vengono esaltate nelle beatitudini!

Sant’Omobono ha cercato e ha trovato il “Regno” anzitutto negli ultimi della società che sono il monito perenne alla condivisione delle risorse – gli antichi Padri asserivano che “il nostro superfluo è il necessario del povero” – , poi nella ricerca della verità della fede di fronte a certi movimenti pauperistici ereticali che disprezzavano la Chiesa a favore di uno spiritualismo disincarnato e, infine, nella costruzione di una casa comune, la città, cercando di contenere le lotte tra la fazione dei nobili arroccati attorno alla Cattedrale e quella della borghesia emergente che viveva nella “Città Nova”. 

Un patrono, dunque, estremamente moderno, perché dopo 825 anni ci racconta una santità concreta, pragmatica, per nulla angelicata, ma lucida nel capire di cosa aveva bisogno l’uomo e la città e pronta nel cercare soluzioni chiare e immediate. 

Oggi, noi cristiani del terzo millennio, non stiamo ancora tentando di dare risposte a queste “emergenze”? Nuove e antiche povertà che interrogano i nostri stili di vita, la secolarizzazione figlia anche del relativismo che interpella la nostra fede timida e forse un po’ anacronistica, la disgregazione sociale che si scontra con l’imprescindibile dimensione comunitaria del Cristianesimo!

La santità è un’immersione piena nell’umano! È accettare la sfida ad essere uomini e donne pienamente inseriti nel mondo con quella gioiosa libertà di chi, però, ha già assaggiato il Cielo!

Claudio Rasoli


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