Quel che ci si aspetta dal prete
Tra qualche giorno – almeno secondo i rumors ecclesiastici – saranno pubblicate le nomine di alcuni sacerdoti. Si dice che saranno numerose. Intanto c’è da sistemare i quattro giovani diaconi che la sera del 10 giugno, in Cattedrale, riceveranno l’ordinazione sacerdotale dalle mani del vescovo Antonio. Don Alex, don Jacopo, don Andrea, don Claudio saranno certamente inviati come vicari d’oratorio in quelle comunità o unità pastorali che, per numero di abitanti, possono ancora rivendicare un prete giovane e altrettanti quattro vicari saranno destinati ad altri incarichi. Ci sono alcuni, poi, che per raggiunti limiti di età – i preti vanno in “pensione” a 75 anni – lasceranno la guida delle loro parrocchie pur continuando a collaborare in altre realtà.
E se a giugno la Curia annuncia le nomine, a settembre avvengono concretamente i cambiamenti con i relativi onerosi e faticosi traslochi. Sono, queste, giornate febbrili sia per i sacerdoti che vedono rivoluzionare la loro vita sia per le comunità che devono accogliere dei nuovi pastori che, con la loro originalità e storia personale, segneranno un nuovo passo.
Questo tempo di transizione non è dunque indolore, ma contrassegnato da rimpianti, delusioni, aspettative, entusiasmi, voglia di novità, lamenti nostalgici.
Cambiare sede per un prete, ma anche per una comunità, però, deve essere vista come una cosa salutare. Dopo dieci/quindici anni come parroco e cinque/sei come vicario è bene ricominciare da un’altra parte: il rischio di sclerotizzarsi, di rinchiudersi in schemi sempre uguali, di adagiarsi al “solito tran tran” è sempre forte e conduce, alla fin fine, ad una abitudinarietà che smorza ogni creatività e innovazione. Il Vangelo è perennemente nuovo e ha bisogno sempre di nuove modalità di comunicazione e trasmissione. In questo mondo così veloce nei mutamenti antropologici e sociali è sempre necessario essere “sul pezzo” e reinventarsi periodicamente! C’è poi un altro rischio: quello di sentirsi un po’ i padroni, i “deus ex machina” che tutto controllano e dirigono. Nel cambiare ci si ricorda che si è sempre “di passaggio”!
Per una comunità la sostituzione del prete dice che l’unico vero grande pastore è solo Cristo. I sacerdoti, con la loro umanità singolare e la loro azione pastorale che deve sempre essere in sintonia con la Chiesa diocesana, hanno “solo” questo compito: condurre nella libertà le persone a Gesù! Si nota subito se un prete ha lavorato per sé stesso o per il Signore quando nel cambio ogni operatore pastorale resta al proprio posto e continua con la stessa abnegazione e fedeltà il proprio ministero, senza recriminazioni o mugugni.
A volte, però, c’è una lettura troppo superficiale, direi pure mondana dei trasferimenti dei presbiteri. Chi possiede una fede matura e una spiritualità radicata scorge sempre nel prete il volto dell’unico Pastore che è Cristo e lo accetta, anche se ha un carattere spigoloso o una timidezza innata che lo rende taciturno e introverso. Dietro ogni vocazione sacerdotale c’è sempre una storia meravigliosa di abbandono a Dio e alla Chiesa, un non scontato desiderio di mettersi al servizio delle persone, un amore smisurato per il Vangelo - l’unica grande e appetibile vie di umanizzazione che ci è rimasta - la voglia di mettersi ancora una volta in gioco per il Regno. Quando arriva un nuovo prete la comunità è consapevole di tutto questo? Si rende conto del grande sforzo che il sacerdote fa nel lasciare un ambiente che gli era familiare e amico per trasferirsi in una realtà nuova tutta da conoscere e da accettare?
La lettura mondana dei trasferimenti cui accennavo prima, ma anche della figura del sacerdote porta inevitabilmente ad alcune derive pericolose.
La prima: il prete nuovo deve essere immagine e somiglianza di quello precedente o comunque deve adeguarsi al “modus operandi” in vigore da tempo! Non si può spostare nemmeno un vaso – figurarsi l’orario di una Messa – perché il don che se ne è andato l’aveva messo esattamente in quella posizione! Quante volte ci si sente dire “Si è sempre fatto così!” chiudendo così ogni porta alla discussione e alla innovazione. Si tratta di atteggiamenti pregiudiziali che smorzando ogni entusiasmo e voglia di fare e che conducono ad un fatalismo sterile.
La seconda: il prete deve sapere fare tutto! Deve avere abilità di amministratore, di animatore, di organizzatore di gite e feste, di esperto burocrate. Deve inoltre essere un predicatore affascinante, un presidente di celebrazioni essenziale e veloce, un cantore sopraffino… Deve saper intrattenere i bambini, dialogare con gli adolescenti, confrontarsi con gli adulti, ascoltare gli anziani. Insomma deve essere meglio di Superman! Non sono ammessi errori! E se prega saltuariamente o conosce poco la Bibbia non è poi così importante… essenziale che sappia intrattenere!
La terza: considerare il prete come un funzionario che eroga delle prestazioni. È avvilente doversi confrontare con persone che dal sacerdote pretendono soltanto, che rivendicano solo dei diritti e mai dei doveri e che intendono la parrocchia come una comune agenzia di servizi. Fra qualche giorno inizierà il Grest, una delle attività più gettonate, ma anche dove la pretenziosità di certi genitori raggiunge l’apice spesso con richieste assurde. Se l’oratorio aprisse alle 6.30 e chiudesse alle 23 essi non avrebbero remore a lasciare i loro figli parcheggiati così tanto tempo. Si sceglie l’oratorio che assicura più settimane di attività, un orario sempre più lungo con il “pre” e “post” grest, il servizio mensa… Salvo poi snobbare la Messa della domenica e scomparire fino alla prossima estate! E il prete si spreme fino quando serve ed è bravo solo se è disponibile a farsi spremere!
Ce ne sarebbero tante altre di derive, ma non vorrei sembrare caustico e disfattista. Mons. Delpini, arcivescovo di Milano, qualche giorno fa ha scritto una lettera ai preti contenti della sua diocesi! Bellissima suggestione che ha fatto bene a me e a tanti miei confratelli. Di preti contenti ce ne sono ancora tanti nonostante la secolarizzazione imperante e la disgregazione sociale. Hanno però bisogno di essere accompagnati e sorretti, prima di tutto con la preghiera e poi con l’affetto e la stima: come il prete sostiene la comunità così la comunità sostiene il prete! Senza di loro tante comunità sarebbero perse. Nonostante i loro limiti rimangono tra i pochi pronti ad ascoltare, a consolare, a radunare il popolo di Dio in una fraternità che è propedeutica all’annuncio del Vangelo.
E allora prima di pretendere accogliamoli con riconoscenza, prima di giudicarli cerchiamo di capire il loro vissuto e le loro aspettative, prima di condannarli preghiamo per loro perché sappiano sempre più essere radicati in Cristo e per questo contenti di essere servi degli uomini.
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