Feiez e il "demone" che è in noi
Un talento anarchico
Un talento musicale a tutto tondo e, nello stesso tempo, uno spirito anarchico insofferente alle regole.
Una tumultuosa, travolgente passione per la musica, addirittura totalizzante.
Un talento che manifesta già in tenerissima età.
Al mare con la sua famiglia, sulla spiaggia “incanta i villeggianti intonando strofe e ritornelli di canzoni più in voga”.
Alle elementari, incoraggiato dalla maestra, si esibisce durante gli intervalli e nei saggi scolastici con brani dei Beatles e a 7 anni non solo esegue al pianoforte il celebre brano “Per Elisa” di Beethoven, ma improvvisa delle variazioni ad hoc.
Una scuola intelligente, quella delle Canossiane di Crema che frequenta, ma è il padre la figura determinante: è lui, pluristrumentista, che gli accende la passione.
Una passione forte, la sua, ma anche un istinto innato che gli permette di riprodurre, con la chitarra acustica avuta in regalo, ogni melodia.
Un’insofferenza
Già, un istinto innato. È questo, una sorta di “vocazione”, che asseconda da autodidatta: frequenta, è vero il Folcioni, ma qui ci rimane pochissimo perché “non vuole passare ore e ore chinato, concentrato sui testi di solfeggio”.
Un’insofferenza che mostra pure alla scuola media dove scopre il gioco del calcio, ma non ha alcun interesse per gli studi, tant’è che la famiglia, dopo il conseguimento della terza media, lo iscrive all’Istituto Marazzi, un istituto professionale da cui esce come saldatore.
È la musica il suo “demone” (daimon in greco). Un demone che lo conduce a sfruttare ogni occasione per esibirsi: i campi scuola organizzati dalla parrocchia di S. Giacomo (accompagna con la chitarra le funzioni religiose) e i concerti che vengono offerti nel nostro territorio (dal Festival dell’Unità di Santa Maria della Croce al Cinema Leone di Castelleone).
Uno spirito anarchico, ma tutt’altro che solitario: dalla personalità esuberante, diventa l’anima di gruppi musicali locali che si esercitano un po’ ovunque: dal Campo di Marte a piazza Garibaldi, dal canale Vacchelli a una saletta di Sergnano messa a disposizione da un cultore della musica.
Chiamato a svolgere il servizio militare, non solo entra nella banda dell’esercito, ma anche nell’orchestra jazz costituita dai migliori talenti.
Una folgorazione
Paolo (è questo il nome del nostro protagonista) ha tutte le regole per affermarsi ben oltre i confini del suo territorio, ma ha ancora molto da imparare. E impara, ad esempio, da Frank Zappa che si esibisce a Segrate: dal suo suono rimane “folgorato”.
E impara anche da alcuni suoi amici particolarmente dotati che con lui suonano nelle band.
È in questo periodo che incrocia il musicista cremasco Lucio “Violino” Fabbri, un incontro che per lui rappresenta una svolta: è grazie alla collaborazione con lui che può conoscere i big del panorama musicale nazionale e può entrare nel ruolo di assistente fonico nello Psyco Sudio di Milano dove ha la possibilità di conoscere e di collaborare con artisti di alto livello e può scoprire musicisti “alternativi”, tra cui Elio e le Storie Tese.
Una formazione, quest’ultima, che presto lo coopta. Così il nostro Paolo diventa in arte Feiez e si esibisce, anch’egli come il padre nella veste di pluristrumentista, non solo in tutta Italia, isole incluse, ma anche all’estero, dagli Stati Uniti (da New York a Miami a Los Angeles) al Giappone (in kimono).
Il ruolo di Caifa
Viene ingaggiato pure da un regista di teatro (Messina) e grazie a lui interpreta il ruolo di Caifa nel Musical Jesus Christ Superstar.
Così Paolo (Panigada il cognome) diviene una vera e propria star, ma non dimentica la sua Crema: qui si esibisce in più occasioni (in Piazza Duomo, nelle carceri, a favore dell’Anffas) e partecipa a delle commissioni finalizzate a scoprire nuovi talenti musicali (tra le più felici scoperte: Davide Simonetta).
Una carriera brillante più che meritata.
Una carriera, purtroppo, troncata troppo presto da un aneurisma: durante un concerto “crolla rovinosamente sulle sue percussioni finendo a terra”. È trasportato al Pronto Soccorso dell’Ospedale Fatebenefratelli, ma non vi è nulla da fare. Spira. È il 1998. Paolo Panigada (nato nel 1962) è ancora giovanissimo.
Un bel personaggio oltre che un bel talento.
Una figura che viene ricostruita con cura e con empatia da Maurizio Dell’Olio, a sua volta musicista, e da Angela Stroppa in Feiez Le Storie Tese di Paolo Panigada, Gagio Edizioni.
Un libro (una ricerca durata due anni da cui ho tratto il presente profilo e le citazioni) pregevole non solo per la ricchezza di aneddoti e di nomi di personaggi locali, nazionali e internazionali, non solo per l’attenzione alla dimensione umana del protagonista, ma anche perché è uno spaccato della vita musicale milanese (musica leggera) di quegli anni. Un libro che gli autori stanno presentando in una miriade di librerie (da Cremona a Milano e a Vercelli).
Tutti omologati
E ora una considerazione.
Conoscere il nostro io, il nostro daimon, è il nostro primo imperativo categorico: conoscerlo per poi realizzarlo fino in fondo. È questo, secondo i greci antichi, che ci rende felici. Non a caso questi, per indicare la “felicità”, ricorrevano al termine eudaimonia (“eu” significa “bene”): solo realizzando il nostro daimon (inclinazioni, attitudini, talenti, sensibilità, creatività, capacità di amare…) noi mortali possiamo raggiungere la felicità.
Paolo Panigada questo daimon l’ha scoperto subito e ha trovato un ambiente favorevole, inclusa la scuola.
Ma non tutti hanno la stessa fortuna.
Siamo tutti “unici” nell’universo (non è un’enfasi), ma questa unicità spesso la lasciamo sepolta. Così diventiamo massa. Tutti omologati.
È la stessa scuola che ci livella: raramente ci aiuta a esplorare e soprattutto a esprimere la ricchezza che abbiamo dentro. È una scuola più ossessionata dai programmi ministeriali che attenta al “fuoco” che arde dentro di noi.
È il mondo del lavoro che ci livella, anche se avrebbe tutto da guadagnare se ogni lavoratore fosse messo nelle condizioni di essere se stesso.
È il sistema capitalistico che ci trasforma in consumatori “seriali”.
E così abbiamo vite che non viviamo, talenti, creatività… che non fruttiamo, gioia di vivere e di amare che spegniamo.
La prigione che ci costruiamo
Tutto congiura contro la nostra “unicità”. Ma talora siamo noi stessi i colpevoli di tanto spreco: è la nostra pigrizia che ci tarpa le ali, forse anche la nostra tendenza a ripetere all’infinito i gesti quotidiani. Siamo noi, in altre parole, che siamo bravi a costruire la nostra prigione illudendoci di essere liberi.
Così ci rifiutiamo di prendere in mano il nostro destino.
Così una straordinaria ricchezza viene scandalosamente sprecata nella indifferenza pressoché totale delle istituzioni pubbliche.
Il coach
Gli atleti di rango possono usufruire di coach (fisici e mentali) per poter giocare al meglio le loro carte: forse che vivere (è un mantra che sto ripetendo ossessivamente in questi ultimi anni), “diventare” noi stessi, regalare tutti i nostri doni alla comunità, valgono meno che vincere delle gare alle Olimpiadi?
In altri paesi europei la figura del coach che aiuta ciascuno a liberare i suoi talenti è largamente diffusa a tutti i livelli, anche nel mondo del lavoro.
Una domanda: non cambierebbe in meglio il mondo se le istituzioni pubbliche e private ponessero la massima attenzione a predisporre tutto ciò serve perché possiamo diventare noi i coach di noi stessi? Non si realizzerebbe in tal modo il massimo di arricchimento dell’individuo e, nello stesso tempo, il massimo arricchimento della società?
Ma… che fare in concreto?
Perché non iniziare dalla scuola studiando le esperienze più avanzate (penso, ad esempio, alla Finlandia) nel “personalizzare” la formazione?
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