"La spòorta della zia Ida". I misteri e le sorprese di una borsa e di una zia nei ricordi di un bambino degli anni ‘60. Il racconto di Maurizio Cariani
Un racconto di Maurizio Cariani della Cremona di sessant'anni fa. Quando le cose semplici rendevano felici.
Con la stessa titubanza e la stessa curiosità con cui ci si poteva affacciare ai bordi di un pozzo, così noi quattro fratelli accerchiavamo la borsetta di nostra zia Ida che, a confronto con quella di mia madre, davvero mi appariva più ampia e più misteriosa. Lei affondava la sua mano in quelle segrete profondità e cominciava a frugare, a ribaltare, a estrarre oggetti accompagnando con il capo e con le parole “dòonca, chi sa gh’è?”, tutte le confuse azioni di spostamento che con energia compiva nella propria ricerca. E noi quattro lì, a sbirciar dentro e a decifrare le espressioni del volto, perché sapevamo che alla fine qualcosa sarebbe stato tirato fuori da là, delle caramelle, dei cioccolatini, tutte cose che potevamo avere anche in casa, ma che con quella sospirata attesa e quell’enigmatico indaffararsi acquisivano un valore ed un sapore tutto diverso. Ma potevano saltar fuori anche “i soldini” della paghetta; è sempre stata generosissima sotto questo aspetto, anche quando eravamo ormai avanti negli anni. Era così, ritualmente così, ogni volta che la zia Ida veniva a trovarci. Col tempo colsi anche la differenza tra borsetta e sporta: quella con cui girava mia zia era decisamente ‘na spòorta.
Ida Pedretti (1920 – 2008), sorella maggiore di mia madre, era nata a Borgo Loreto, si era sposata al Borgo con uno del Borgo ed è vissuta al Borgo; una borghigiana DOC come buona parte di quella generazione nata tra le due guerre e cresciuta attorno alla chiesetta di via Litta fatta costruire da don Geremia Mattarozzi nel 1924, a proprie spese peraltro. Contrariamente a mia madre Ernestina, più esile e riservata, la zia Ida era una potenza della natura, aveva addosso una energia inesauribile ed una travolgente estroversione naturale fatta di risate, di gusto ma mai sguaiate, ed espressioni dialettali. Da giovane la sua prestanza fisica le permise di gareggiare nel lancio del giavellotto; mia madre raccontava di quegli anni sempre in toni entusiastici, dicendoci che “era andata a Roma a gareggiare davanti al Duce”, aggiungendo sempre, col rinforzo di caricate espressioni del volto, che da ragazza “la parìiva n’altra Loren”. Suo marito Dante era un valente maestro intagliatore dapprima alla Cavalli e Poli e poi da Miglioli; si sposarono come tutti davanti al mitologico don Franco Amigoni, il parroco, nominato dall’arcivescovo Cazzani nel 1946, che fu l’anima del Borgo fino al 1980.
Non era insolito trovarsi davanti alla porta la zia Ida con al braccio due sporte. Nell’altra c’era il necessario che si portava da casa sua per far da mangiare a casa nostra: “Sà, sà Ernestina, che fòo sö dùu gnòcc!”. Fuori la farina e il sugo già pronto, ed era subito all’opera. Gli gnocchi della zia Ida sono tra i ricordi indelebili della nostra infanzia, gli riuscivano sempre bene, morbidi al punto giusto. Ma nella mia mente e in quella dei miei fratelli rimane anche la velocità quasi frenetica e l’energia debordante con le quali ce li faceva. E smetteva soltanto quando diceva che ormai ce n’era “en bèl chignóol”, dopo di che se ne tornava a casa a far da mangiare a suo marito.
Non aveva la patente, ci pensava lo zio Dante “a menàala in gìir”, come lui spesso diceva, grazie ad un’iconica Fiat 127 di un irripetibile verdone… 127, appunto. Si spostava dal Borgo grazie al suo inconfondibile Velo Solex nero che con lei partiva immancabilmente alle primissime vigorose pedalate. Al manubrio e nelle tasche posteriori, molteplici sporte a seconda delle varie soste del suo itinerario. Certe volte andava infatti anche ad aiutare qualche signora anziana a cui faceva da mangiare o puliva la casa; non prendeva soldi ma per riconoscenza qualcuna di esse le faceva un regalo che lei ci mostrava orgogliosamente. Da bambini, se veniva a trovarci nel pomeriggio inoltrato, era quasi sempre garantito il lavaggio di tutti noi; ci metteva nel bagno due per volta e con sapone e spugna ci lustrava per bene. Noi finivamo col fare il bagno ridendo tutto il tempo per la vitalità con la quale ci strapazzava incessantemente tutto il corpo.
Ma la zia Ida era impagabile anche a tavola, davvero una bella forchetta. E non lo dava a vedere, perché anche con qualche chilo di troppo ha sempre conservato una silhouette atletica. Col marito avevano un giro di compagnie di quei bei cremonesoni professionisti delle trattorie coi quali trascorrere insieme il pranzo della domenica tra sane risate, cui mia zia non si sottraeva di certo. Al Borgo c’era a portata di mano la Cooperativa a cui i borghigiani facevano riferimento; non dico che i miei zii avessero l’abbonamento, ma poco ci mancava. Ricordo però che la zia Ida andava volentieri alla trattoria che c’era a Ca’ de Gatti; quando andava lì, si preparava con un misero brodino leggero al sabato sera, per valorizzare al meglio l’exploit domenicale. Inoltre, a differenza delle sue amiche, preoccupate di abbinare al vestito la borsetta adatta, si presentava sorprendentemente con una sporta, una bella sporta in pelle nera dentro la quale collocava degli strategici sacchetti di plastica o, con l’evoluzione tecnologica successiva, dei contenitori per alimenti. Precorritrice di quanto oggi usano fare certi ristoranti, ma non certamente del doggy bag, perché non al cane pensava, la zia Ida senza dare nell’occhio si imboscava con gran classe nella sua elegantissima spòorta al di sopra di ogni sospetto gli avanzi di portata. E nei riguardi di mia madre che, pur sogghignando, le contestava l’operato, argomentava pionieristicamente con un impeccabile: “Càt, sa gh’è, l’è töta roba pagàada!”.
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commenti
Don Camillo
7 agosto 2025 08:08
I racconti di Cariani sono un spaccato di belle storie familiari e ricordi passati.
Spero che prima o poi le raccolga tutte in un libro.
Arrivedoorcii