Anche Cremona e Gussola hanno avuto i loro campi di internamento per ebrei. Ecco come funzionavano
Anche Cremona ha avuto campi di concentramento destinati agli ebrei. In occasione della Giornata della memoria, raccontiamo le vicende dei due campi di internamento cremonesi, una vicenda che non ha mai trovato spazio nella storia ufficiale, ma che risalta nella drammatica verità raccontata dai documenti ufficiali nelle pagine curate da Anna Pizzuti sugli “Ebrei stranieri internati durante il periodo bellico” per il sito campifascisti.it a corredo di un eccezionale database che contiene, oltre ai dati anagrafici degli internati, informazioni sull’ultimo luogo di internamento documentato, sugli eventuali spostamenti avvenuti in precedenza, ma anche le notizie, quando è stato possibile reperirle, su quello che accadde loro dopo l’8 settembre del 1943. I documenti originali riguardanti Cremona, provenienti dal Ministero dell'Interno, sono conservati presso l'Archivio Centrale dello Stato a Roma.
Sono una decina i nomi degli ebrei rintracciati in due “campi di internamento libero” a Cremona e a Gussola. I “campi di concentramento” italiani per gli stranieri non avevano nulla in comune con quelli tedeschi, se non il nome. Per realizzare gli internamenti fu costruito all'inizio un unico campo di baracche a Ferramonti-Tarsia, a nord di Cosenza in Calabria. In tutti gli altri casi vennero usati edifici requisiti o affittati: monasteri, ospizi, caserme, sale cinematografiche ampliate e ville disabitate, che potessero contenere fino a 200 persone. Non è stato possibile identificare con precisione l'ubicazione di questi due “campi” cremonesi.
Nel caso del capoluogo è possibile che il campo avesse sede nella stessa location in cui, nello stesso periodo, vennero ospitati anche i cosiddetti “internati protettivi” provenienti da Lubiana e Fiume, tra di essi con ogni probabilità anche altri ebrei (ad esempio una certa Francesca Babnic, poi ospitata da una famiglia di origine ebrea), anche se non specificato nei documenti. Di loro non si è saputo più niente dopo il 19 ottobre 1943, giorno in cui si sono allontanati facendo perdere le proprie tracce. Il loro nome, però, non si trova fra quelli di quanti, provenienti dai campi italiani, sono finiti nei lager tedeschi. Gli ebrei “cremonesi” si chiamavano: Daniele Hammerschmild, tedesco, nato a Schloppe il 14 febbraio 1884, arrivato a Cremona il 16 settembre 1940 insieme al fratello Willy (nato il 6 marzo 1889) dal campo di Campagna, in provincia di Salerno. Con loro c'era anche la sorella maggiore Jenny (nata il 15 maggio 1881), non attestata nello stesso campo, ma sicuramente presente a Cremona e ritrovata dopo la Liberazione a Fermignano in provincia di Pesaro, dove era stata deportata il 31 maggio 1943. Con lei anche il figlio, Alfredo Lewin, nato a Berlino l'11 settembre 1911, deportato a Fermignano il 5 maggio 1942. A Cremona c'era anche Susanna Hammerschmild, nata a Berlino il 12 marzo 1926, ed allontanatasi dal campo insieme agli altri il 19 settembre 1943. Con loro anche Irene Mengasz, nata a Sibinj in Iugoslavia il 15 giugno 1935, Amelia Rosenfeld nata a Nagyernie, il 10 gennaio 1893, ufficialmente documentata poi a Milano, e Hela Steinfeld, tedesca, nata a Rintien il 11 aprile 1896, giunta a Cremona da Lanciano il 12 luglio 1940 ed allontanatasi con gli altri il 19 ottobre 1943.
Un'altra famiglia ebrea era internata a Gussola, dove era presente ancora il 6 agosto 1942, data da cui non si hanno più sue notizie. Il padre si chiamava Hans Wolf Stawski, tedesco di Berlino dove era nato il 21 settembre 1906, giunto a Gussola da Urbania il 20 maggio 1942; la moglie Gertrude Cohen, di cui non si conosce il luogo di nascita, e i due figli Pietro, nato nel 1938, e Gabriella, nata nel 1940.
Secondo una stima ufficiale del marzo 1940 si trovavano in territorio italiano 3870 ebrei immigrati e rifugiatisi in Italia. Immediatamente dopo l'entrata in guerra dell'Italia, il l0 giugno 1940, il governo fascista varò delle misure per l’internamento dei cittadini delle nazioni nemiche, seguendo in tal modo l'esempio delle Germania, della Francia, delle Gran Bretagna e di altri paesi. L'internamento fu motivato come strumento per garantire la sicurezza interna e la sicurezza militare, ad esempio contro lo spionaggio, e con esso si voleva evitare che uomini abili al servizio militare lasciassero il paese e si arruolassero nell'esercito nemico. A partire dalla metà di agosto del 1939, dunque poco prima dell'inizio della guerra, le autorità italiane cominciarono i primi preparativi. Solo a partire dal maggio del 1940, quando vengono emanate le prime circolari, sono documentabili le prime disposizioni relative all’internamento degli immigrati e dei profughi. In tal modo l'internamento, che all'origine non aveva nulla a che vedere con la politica razziale varata con la legge del 1938, entrò in stretta relazione con quest'ultima. Il 15 giugno fu ordinato l'arresto degli uomini ebrei di età compresa tre il 18 e i 60 anni, di nazionalità tedesca, polacca e ceca oppure apolidi. Le donne e i bambini furono allontanati dalla loro residenza e concentrati in luoghi isolati sotto il controllo della polizia nel cosiddetto "internamento libero”. Il periodo trascorso nelle prigioni locali immediatamente dopo l'arresto durato in genere alcune settimane, prima di poter raggiungere i campi di internamento, fu sentito da tutti i detenuti come particolarmente duro. Le celle erano in genere strapiene, prive delle necessarie attrezzature sanitarie e spesso pullulavano di insetti. Accadeva poi frequentemente che gli ebrei fossero rinchiusi insieme ai criminali comuni. Ma la cosa più pesante da sopportare era l'incertezze sulle intenzioni delle autorità italiane, per il timore che il governo italiano decidesse di rispedire i rifugiati in Germania.
Il trasporto nei campi di internamento ebbe luogo in piccoli gruppi sotto il controllo della polizia, utilizzando le ferrovie. Durante il trasporto dalla prigione ai vagoni ferroviari ai polsi dei detenuti venivano strette talora delle manette, come si usa fare con i delinquenti. Alle donne e ai bambini veniva di regola risparmiato l'arresto, ma si aggiungeva loro di tenersi pronti per la partenza in un giorno determinato e di presentarsi alla prefettura della provincia prevista per il loro internamento.
A partire dal 1941 nel campo di Ferramonti-Tarsia fu data la possibilità, su richiesta degli internati, di passare al regime di “libero internamento". Molti speravano di trovarvi condizioni di vita migliori, specie se i luoghi in questione si trovavano nell'Italia settentrionale. Nelle domande si poteva indicare la provincia preferita per il soggiorno. Così molti profughi e immigrati ebrei che avrebbero potuto essere liberati dagli alleati, dopo l’8 settembre si trovarono nella zona d'occupazione tedesca e furono deportati. E' questo il caso degli ebrei “cremonesi”, che, per sfuggire alla deportazione, scapparono insieme dal campo il 19 ottobre 1943 facendo perdere le proprie tracce.
Nel decreto del 4 settembre 1940 riguardante l'internamento viene detto espressamente: “Gli internati devono essere trattati con umanità e protetti contro ogni offesa e violenza”. In effetti questo principio, salvo poche eccezioni, fu rispettato, e gli internati ebrei non ricevettero un trattamento peggiore dei non ebrei. Non si ha notizia che in Italia venissero compiute crudeltà e sevizie. L'internamento in un campo significava peraltro una considerevole limitazione della libertà personale. Le persone venivano strappate alle loro famiglie, alle loro case, al loro ambiente e ammassate a secondo delle possibilità di ricezione dei campi. Di regola gli internati non potevano lavorare, ma ricevevano per il loro sostentamento un sussidio giornaliero di 6,50 Lire, che era calcolato sui bisogni della popolazione rurale povera e che fu più volte elevato a causa della crescente inflazione. Era appena sufficiente per mangiare e difficilmente poteva bastare per la sostituzione degli abiti logori. Quando crebbero le difficoltà di approvvigionamento e non tutti i generi alimentari giungevano nei campi, gli internati patirono la fame. Anche l'isolamento in un comune lontano dal proprio domicilio abituale comportava una notevole limitazione della libertà personale. Gli internati venivano strappati all'ambiente loro familiare, separati da parenti e amici, e costretti a vivere in un luogo fino ad allora sconosciuto, dove era loro proibito ogni contatto con gli abitanti, ad eccezione dei padroni di casa. Non potevano allontanarsi dal territorio comunale senza autorizzazione speciale e dovevano presentarsi alla stazione di polizia o dei carabinieri in orari determinati, di solito una volta al giorno. Potevano lasciare la casa dove abitavano solo durante il giorno, senza però mai superare un determinato perimetro. Quando le donne e i bambini partivano per l'internamento, l'autorità di polizia del luogo di residenza consegnava loro il «foglio di via obbligatorio», con il quale dovevano presentarsi entro una data prestabilita alla questura della provincia decisa dal Ministero dell'interno, che li destinava a un comune. Di solito le donne con i loro bambini raggiungevano in treno il capoluogo della provincia, e da lì venivano portate in treno, con la corriera o con un tassi collettivo al luogo di destinazione definitivo. Da tutti i resoconti di cui disponiamo, sia quelli degli internati che quelli dei prefetti o degli ispettori generali, si ricava l'impressione che anche nell’«internamento libero» gli alloggi fossero quasi sempre poveri o squallidi, quando non addirittura invivibili. Pur costretti a rinunciare alle più modeste comodità quotidiane, molti internati dovettero adattarvisi per oltre tre anni.
A Cremona trovarono rifugio anche alcuni internati protettivi provenienti dalla province annesse di Fiume (Rijeka) e Lubiana, sotto la minaccia dei terribili Ustascia e dei ribelli comunisti di Tito. Di fronte alla persecuzione che, si è calcolato, avrebbe comportato la morte di 65.000 ebrei nei campi jugoslavi e tedeschi, l'unica salvezza possibile era, per chi poteva, tentare di fuggire verso i territori posti sotto il controllo degli italiani, e la legislazione antiebraica fascista, confrontata con la violenza degli ustascia, appariva il male minore. Lo stesso internamento che aveva privato della libertà migliaia di ebrei stranieri già presenti in Italia nel giugno del 1940, appariva dunque, ai fuggiaschi, come garanzia di salvezza.
I primi arrivi avvengono nel giugno del 1942. Si tratta di 17 persone provenienti dalla provincia di Lubiana. Sappiamo che le donne e i bambini vengono alloggiati presso la "Casa di Nostra Signora", e successivamente presso l'Istituto della Pace, mentre gli uomini presso la trattoria Montone. L'assistenza, almeno nel primo periodo, è a carico della locale Federazione dei Fasci di Combattimento, proprio in virtù del fatto che i profughi sfuggissero alla persecuzione degli ustascia. Successivamente, le spese passano a carico dell'ECA (Ente Comunale di Assistenza). I nomi sono contenuti nella richiesta di rimborso per le spese sostenute per il loro mantenimento inviata dalla Regia Prefettura di Cremona al Ministero dell'Interno, Direzione Generale per i Servizi di guerra. Si tratta di: Matteo Hrbar, di anni 55, di sua moglie Maria Ansek, di 50, e dei figli Franz, Lodovico, Matteo, Ludmilla, Sofia, Elena, Ivan, Miroslav e Giuseppe; della famiglia di Maria Ocvirk, di anni 49, con i figli Rudolf, Ivanka e Liubra; di Giuliana Atmic (Stimu) di anni 48 e di Francesca Babnic, anch'essa di 48 anni.
Il Prefetto Giovanni Battista Laura aggiunge: “Si prega esaminare l'opportunità di aderire alla richiesta dell'ECA tenendo presente che per circostanze facilmente intuibili una sistemazione degli sfollati contenuta nei limiti di spesa prescritti, avrebbe dato luogo a vivo malcontento da parte degli sfollati stessi ai quali non poteva passare inosservata la differenza di trattamento in confronto a quella già disposta dalle Federazione Fascista”.
Lo stesso documento informa anche del loro rimpatrio, avvenuto nel dicembre del 1942. In realtà ad essere rimpatriata a Bloska Polica, con foglio di via per indigenti, sembra essere solo la famiglia di Hribar Matteo e dei suoi nove figli. Degli altri sei internati protettivi sappiamo solo che Francesca Babnic si trasferisce, sempre nel dicembre del 1942, da Cremona a Preggio, in provincia di Perugia, presso la famiglia Contini, probabilmente come domestica.
Il 19 luglio 1942 arrivano da Rijeka, nella cosiddetta provincia del Carnaro, altre sei famiglie, in tutto 24 persone “per protezione contro l'attività dei ribelli” che vengono alloggiate all'Asilo Notturno Broggi-Simoni, in via Cadore, e per il vitto presso la trattoria Capellini, con una spesa per il loro mantenimento che ha superato di gran lunga quella massima stabilita dalla circolare ministeriale del 18 giugno 1942. “A seguito della nota 28 ottobre 1942 n. 23605/303.3. - scrive il Prefetto al Ministero dell'Interno – l'ECA venne avvertito che la spesa doveva esser contenuta nei limiti di L. 8 giornaliere più L. 50 mensili per alloggio al capo famiglia e di L. 4. r L. 3 giornaliere per ciascun congiunto rispettivamente maggiore o minore di età. Ma l'Ente non poté, da un giorno all'altro, modificare l'assistenza già in atto perchè il nuovo trattamento non avrebbe potuto garantire un minimo di vitto ed alloggio assolutamente indispensabile. Peraltro non si appalesava opportuno scindere i nuclei famigliari per sistemarli presso ospizi di ricovero della provincia (i quali non avrebbero potuto accogliere provvisoriamente uomini, donne e bambini) anche nella previsione di collocamento al lavoro in Comune...Dal 16 febbraio l'assistenza è stata limitata a quella disposta da codesto Ministero, dato che ad integrare il fabbisogno indispensabile di ciascun nucleo famigliare concorrono i salari che percepiscono i componenti avviati al lavoro”.
Non sappiamo praticamente nulla sulle condizioni di vita degli internati protettivi alloggiati presso l'Asilo Notturno di Cremona. La loro presenza sembra protrarsi almeno fino a giugno del 1943. Infatti in quella data Maria Brunelich (o Brnelich) chiede di essere trasferita da Gottolengo in provincia di Brescia, a Cremona presso il fratello
Sappiamo così che Brunelich (o Brnelich) Antonio, nato a Cucugliano (Kukuljan) il 10/8/1902 è alloggiato presso l'asilo notturno della città assieme alla moglie Uliana Zoritic e alle due figlie Zora di 11 anni e Maria di 8 anni. Antonio ha trovato occupazione presso l'azienda Ceramiche Frazzi.
I documenti raccolti da Anna Pizzuti dimostrano che, mentre molti dei profughi, una volta entrati in territorio italiano, cercavano di rimanervi come clandestini, altri si recavano presso le autorità di polizia e presentavano istanze con le quali chiedevano il permesso di dimora in località del Regno e, in attesa delle determinazioni del Ministero, il permesso di soggiorno.
Nelle istanze venivano descritte le terribili violenze subite e si parlava di parenti portati via dagli ustascia e dei quali non si avevano più notizie. Le autorità, anche quelle militari che presidiavano i territori croati, quindi, erano perfettamente informate di quali fossero i rischi che avrebbero corso le persone che respingevano o allontanavano. L'aspirazione dei fuggitivi, comprensibilmente, era quella di essere internati in un qualsiasi campo o località dell'Italia, ed era la soluzione che la Delasem (Delegazione per l'assistenza degli emigranti ebrei) cominciò ben presto a proporre in ciascuna delle zone "critiche".
In generale furono accolti coloro che dimostravano di potersi mantenere a proprie spese, ma anche quelli che avevano collaborato con le autorità militari italiani o che, a qualsiasi altro titolo, risultavano "favorevolmente noti" alle autorità. Ad ogni modo l'afflusso dei profughi si interruppe nella seconda metà del 1942. A partire da questo periodo l'inasprirsi dello scontro con i partigiani portò ad un controllo delle frontiere ancora più rigido di quanto non lo fosse stato in precedenza. In più, dall'estate di quell'anno, entrò in vigore l'accordo stipulato tra i tedeschi ed i croati che prevedeva la deportazione verso la Polonia di tutti gli ebrei non ancora periti negli eccidi o nei campi di sterminio jugoslavi. Nonostante ciò, da Roma continuarono ad arrivare ancora ordini di respingimento, anche quando era ormai ampiamente noto che il destino dei profughi sarebbe stato segnato. Il 25 novembre del 1942 il questore di Fiume trasmette a tutti gli uffici sottoposti una circolare ministeriale, nella quale si legge:"Con riferimento a precorsa corrispondenza si comunica che questo Ministero, riesaminata la situazione degli ebrei profughi dalla Croazia che emigrano clandestinamente nel territorio delle nuove province per sottrarsi a presunte vessazioni e che si rifiutano di far ritorno in patria dove correrebbero pericolo di vita ha deciso che gli stessi debbono per norma essere respinti nei paesi di provenienza."
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