14 marzo 2021

La battaglia per la vita di un giovane cremasco in Uganda Donne violentate, Aids e figli: una speranza e una scuola

KAMPALA- Non lo diresti mai. Neppure lo crederesti. Nemmeno se te lo dicessero. Eppure la realtà supera di gran lunga qualsiasi nostra immaginazione.

Percorrendo una stradina di terra rossa che s’inerpica a fatica su per la collina assolata, l’orecchio sarebbe immediatamente percosso da un continuo battito metallico. Martelletti che picchiano sotto il sole. Schegge di roccia schizzano qua e là sotto il colpo di un bullone. Il chiasso è attutito dall’afa. Il cratere, scavato negli anni dalla cava, ormai è immenso. Sembra di essere davanti ad un grand canyon, in versione ugandese. Sì, perché ci troviamo alla periferia di Kampala. Nello slum più popoloso della città africana. Siamo a Kireka.

Con un po’ più di attenzione noteresti che le sagome, piegate a spaccare pietre con improvvisati martelli fatti da bastoni e bulloni, sono donne. Lavorano otto-dieci ore al giorno per ridurre enormi macigni a sottile ghiaia da rivendere ai costruttori. Un canestro di 100 kg per 0,70 centesimi.

Ad un occhio che non volesse accontentarsi, non sfuggirebbe che molte di queste donne indossano una maglietta gialla con una scritta alquanto particolare: “One Heart. Meeting Point International”. E ancora: un cuore appassionato e non frettoloso certamente si stupirebbe, perché qui l’aria non è riempita innanzitutto dalla calura o dalla polvere africana, ma da un canto gioioso e comunitario. Ciascuna di queste donne è intenta nel proprio lavoro, ma nel frattempo è intenta nel canto.

Numerose domande sorgerebbero di fronte a questa scena. Perché sembrano liete? Come fanno a vivere in quelle condizioni? Ma soprattutto: chi sono?

Non una domanda banale. Ma da qui deve iniziare la nostra storia.

La maggior parte di queste donne sono Acholi, appartengono cioè a una tribù dell'Uganda settentrionale. Circa 25 anni fa vivevano nei propri villaggi, nel nord del paese, in una zona conosciuta come Acholiland. Una terra accogliente, prima che la pazzia degli uomini la tingesse di sangue. Per questo le donne l’hanno dovuta abbandonare o meglio, ne sono state estirpate.

Nel 1986 scoppia, infatti, una delle più feroci guerre tra quelle che insanguinano il continente africano. In apparenza, potrebbe trattarsi di un conflitto locale, ma non si rivelerà tale. I ribelli del sedicente Esercito di resistenza del Signore (Lra) - gli "olum" in lingua acholi - seminano ogni giorno, morte e distruzione nei distretti di Gulu, Kitgum, Pader, Lira, Apac Katakwi e Soroti. I guerriglieri, agli ordini di Joseph Kony, si spingono sempre più a sud con l'intento dichiarato di destituire il neoeletto presidente ugandese Yoweri Museveni. Lra entra nei villaggi, uccide gli adulti e anziani, e arruola i bambini e bambine dai 10 ai 14 anni trasformandoli in bambini-soldato o schiave sessuali. Secondo monsignor John Baptist Odama, arcivescovo di Gulu, tra il 1987 e il 1990 i ribelli hanno sequestrato “oltre 20mila bambini e 15mila donne e ucciso almeno 100mila persone”. Ma egli stesso ammette che le cifre potrebbero essere addirittura molto più elevate considerando le difficoltà oggettive nel monitorare il conflitto.

La guerra porta con sé anche un altro terribile tormento: il virus dell’AIDS. L’ignoranza e la lussuria ne fanno da amplificatore. Quasi tutte le donne ne sono infettate, incoscientemente. Ne riscontrano solo le drammatiche conseguenze: un indebolimento del fisico, le forze che si assottigliano sempre di più, il peso che fugge lasciando corpi sempre più irriconoscibili. La bilancia per talune sentenzia 44, per altre addirittura 38 kg... È sicuramente una maledizione. Così giustificano la trasformazione in atto. Le donne si umiliano pensando che la condizione fisica decadente sia legata a una punizione per il male che stanno compiendo, costrette dai ribelli. I morti non si contano.

“Un reale inferno” come lo chiamerebbe Italo Calvino, “l'inferno che abitiamo tutti i giorni”. Molti si sono assuefatti a questa brutalità. La vita dell’uomo ha sempre meno valore. Ma non tutti si rassegnano. Numerose donne tentano la fuga. Unica speranza sarebbe raggiungere Kampala, la capitale, ma si tratta di un cammino di più di 350 km, in mezzo alla foresta e con addosso il fardello della malattia. Una pazzia! Molte muoiono per la stanchezza, molte, scoperte, sono giustiziate dai ribelli, altre che con la forza della disperazione raggiungono le porte della capitale. Alcune di loro, svenute, sono raccolte dai cosiddetti “angeli”, che con carriole le trasportano fino alla periferia della città. Come racconta Ketty.

Ma nessuno le accetta. Chi sono queste donne? Sicuramente sono ribelli. Sono pericolose. Sono malate. Meglio segregarle. Così si costituisce lo slum di Kireka. Capanne di fango, legno e lamiera che difendono e nello stesso tempo nascondono la maledizione, il dolore, l’abbandono.

Nello slum non c’è più nessuna differenza, ma nemmeno identità se non la malattia e la povertà. Il virus si diffonde sempre più velocemente.

Per questo le ONG europee e americane si allertano. Iniziano ad arrivare in Uganda per porre freno a questa pandemia. Incontrano le donne. Si sentono forti delle loro medicine da offrire gratuitamente. Le distribuiscono. Ma a Kireka le donne non le assumono anzi le rivendono. “Ma come, più della salute è importante il business?”. Un certo malcontento e scandalo aleggiano tra gli operatori. Non capiscono come si possa mettere al primo posto il guadagno rispetto alla vita.

Verso l’inizio degli anni ’90, un’infermiera di nome Rose Busingye comincia a operare negli slum di Kireka e Naguru. Anche a lei si presenta la medesima sfida. Le pazienti vengono in ospedale per farsi curare, ricevono medicine e aiuto psicologico, ma poi spariscono... A Rose non basta, vuole capire che ne è di queste pazienti... decide di andare negli slum di Kampala a cercarle. Quando le trova, molte si stanno lasciando morire. Le medicine donate sono state rivendute... anche lei potrebbe farsi vincere dallo scandalo. Ma è allora che decide di stare con queste donne. Vuole capire, condividere con loro la vita e scopre che rivendere le medicine ha una più profonda e drammatica ragione. Le donne non vogliono curarsi. Perché mai dovrebbero prolungare la loro agonia? Hanno commesso ciò che di peggiore può compiere una donna, una madre. Sono malate. Il virus le sta letteralmente consumando. Nessuno le vuole. Per questo il problema principale non sono le medicine, ma recuperare il senso della vita. E’ un problema innanzitutto educativo.

Rose inizia a stare con loro, a condividere il fatto che ciascuno porta dentro sé un valore infinito, irriducibile, che nessuno può rimuovere o scalfire. Nessun virus, malattia o male commesso può cancellare il valore che ciascuno ha, perché è creato così. Ognuno è responsabile del valore che è. Da questa semplice coscienza, di essere volute bene, gratuitamente, le donne ricominciano a vivere. Cominciano a curarsi, ad assumere le medicine, a prendersi cura dei propri figli, delle loro povere case. Non infettano più altre persone, perché scoprire il proprio valore significa anche scoprire il valore di tutto ciò che ti circonda. Cominciano a cantare e a ballare, perché, come dice sempre Rose, si può cantare e ballare solo quando si ha il cuore colmo di gioia. Donne sterili, considerate infeconde da tutti, ricominciano a vivere e a generare, a interessarsi di tutto e tutti.

Tanto che nel 2005, la notizia dell’uragano Katrina e della conseguente distruzione di New Orleans, non le lascia indifferenti. Le ormai centinaia di donne che, nel frattempo si sono costituite in un’organizzazione non governativa locale riconosciuta col nome Meeting Point International, di cui Rose è il direttore esecutivo, di fronte a questa sciagura si commuovono.

Chiedono a Rose di poter accogliere i cittadini americani nelle loro case, cosa evidentemente irrealizzabile.

Decidono allora di lavorare per un mese, frantumando pietre e, col ricavato del loro lavoro, devolvere 900 dollari alle famiglie americane colpite dalla catastrofe. Un gesto di amore gratuito, che non passa inosservato. Un diplomatico dell’ambasciata americana è inviato per conoscere i donatori, e di fronte allo ‘spettacolo’ dello slum, accusa una forte ingiustizia. “Questo è ingiusto, voi non avete nulla, come potete donare ciò che vi è necessario per vivere? Non dovreste essere voi ad aiutare gli americani ma piuttosto il contrario!”. Una donna risponde che il cuore dell’uomo non ha colore né razza. È internazionale, si commuove ed è per questo che hanno lavorato per gli americani. Non si può dare quel che non si ha. Hanno ricevuto amore e vogliono condividerlo, vogliono che le vittime dell’uragano sappiano che in un momento di simile difficoltà non sono sole.

In un’altra circostanza, l’amore quotidiano e la riscoperta di sé, porta le donne a commuoversi per la tragedia avvenuta nel 2009 in Italia. Si tratta del terremoto che ha distrutto la città dell’Aquila. Le donne chiedono a Rose la possibilità di prendere in affitto un bus per raggiungere la città distrutta e aiutare a scavare e aiutare la popolazione colpita. Loro che sono esperte nel lavoro delle pietre, si sentono utili per ritrovare i corpi e rimuovere le macerie. Soprattutto si commuovono per la disgrazia perché sentono il popolo italiano, parte di sé, lo sentono parte della loro tribù, per la vicinanza di molti italiani, amici di Rose, che nel tempo le hanno aiutate attraverso l’ONG italiana AVSI. Dopo due mesi di lavoro, devolvono alle vittime 1000 euro.

Un cuore amato è inarrestabile. Nessuna condizione di povertà, crisi o dolore può fermarlo. Di fronte a queste donne, verrebbe da ripetere una frase del famoso scrittore Giovannino Guareschi, quando diceva: “Non muoio nemmeno si mi ammazzano!”

E ancora. Le donne desiderano poter costruire un luogo in cui i loro figli possano scoprire il valore infinito che hanno, dove possano essere educati alla bellezza e positività della vita. Chiedono di poter costruire una scuola che accolga e che accompagni i loro figli nel cammino della vita. Per questo, con l’aiuto di Rose e degli amici di AVSI, iniziano un’attività di riciclaggio di carta per poterne fare delle collane colorate.

Ora sulla collina di Kireka non si sentono solo i canti della “spaccatrici” di pietre, ma anche quelle di coloro che infilano perle di carta riciclata colorata. In circa due anni riescono a vedere più di quarantotto mila collane in Europa e il ricavato è investito nella costruzione della scuola primaria e secondaria Luigi Giussani. Un luogo di accoglienza e educazione assolutamente inedito, in cui i ragazzi non vengono picchiati, come la cultura scolastica ugandese vorrebbe, ma sono guidati a scoprire se stessi. “Un progetto d’amore grande, perché il desiderio di assicurare un futuro ai loro figli e alle generazioni che verranno, è più forte della malattia”, come afferma Rose. 

Concludendo Le cittá invisibili, Italo Calvino scriveva: “Due modi ci sono per non soffrire più di questo inferno. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”

Queste donne e i loro figli sono un punto a cui dare spazio in questo inferno. 

È possibile aiutare la nostra scuola attivando dei sostegni a distanza a favore dei nostri alunni, per alimentare ancora la loro speranza, in questo periodo difficile per tutti. Sul sito https://www.avsi.org/it/sostegnoadistanza/ otterrete ogni informazione utile a tal riguardo. 

Matteo Severgnini


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