10 novembre 2024

La Festa di San Martino: tradizioni, leggende e misteri sulle sponde cremonesi e parmensi del Po

Ci sono ricorrenze e tradizioni che, nei nostri territori di campagna, di qua e di là dal Po, sono da sempre particolarmente sentite, specie nelle famiglie contadine (ma non solo). Ricorrenze accompagnate da tradizioni e aneddoti, leggende e, talvolta, misteri, fede e folclore, cultura e gastronomia. Una di queste è quella di San Martino (che si celebra l’11 novembre) al quale, da sempre, tanto in Lombardia quanto in Emilia così come nel resto d’Italia si fa corrispondere la fine dell’anno agricolo, quindi la conclusione del duro lavoro nei campi. La terra si prepara a “riposare”, a vivere una nuova stagione, custodita, cullata e curata da coloro che, nei campi, ci passano la vita e le giornate. Una vera e propria festa per i contadini che, dopo i mesi più caldi, per tradizione si preparano ad affrontare l’inverno, stappando magari in compagnia le prime bottiglie di vino novello (del resto un antico proverbio recita che “per San Martino ogni mosto diventa vino) , riempiendosi la pancia anche di castagne e carne alla brace. Per gli agricoltori l’11 novembre riveste un’importanza del tutto notevole: infatti durante l’estate di San Martino venivano rinnovati i contratti agricoli annuali e da qui nasce il detto molto diffuso di “fare San Martino”, cioè di traslocare. L’anno lavorativo degli agricoltori termina tradizionalmente agli inizi di novembre, dopo la semina. Se il proprietario dei terreni, però, non rinnova il contratto per l’anno successivo, il contadino è costretto a trovare un nuovo impiego altrove, presso un’altra cascina.  Anni fa, specie nelle cascine, chi lavorava la terra viveva in cascina, o comunque nell’azienda agricola,  in un’abitazione messa a disposizione dal padrone del fondo: quindi un cambio di lavoro comportava anche il trasloco di un’intera famigli e venivano così caricati “armi e bagagli” sui carretti spostandosi da un podere all’altro. 

E’ una festa, quella di San Martino e quindi non può mancare il lato gastronomico. I grandi protagonisti della tavola, per l’occasione, sono oca e maiale e, qui, si “diramano” anche alcune leggende. La più nota è quella secondo la quale il cavaliere Martino soccorse un vecchio infreddolito donandogli parte suo mantello ed il sole cominciò a battere forte come se fosse estate per scaldare il pover’uomo (da qui la nascita della cosiddetta “Estate di San Martino”). Quella stessa notte, Martino ebbe una visione che cambiò per sempre la sua esistenza: in sogno, infatti, gli apparve Gesù, il quale, con degli angeli, parlava proprio di lui come una persona di buon cuore, per merito di quel gesto d’altruismo. Al suo risveglio, il protagonista di questa storia, non ancora battezzato, non poté fare a meno di abbracciare definitivamente la fede, diventando un simbolo molto importante per l’intero mondo cristiano. Secondo un’altra leggenda, invece, Martino, per evitare di essere nominato vescovo, si nascose, ma le oche fecero talmente tanto rumore da farlo scoprire e, per lui, fu inevitabile diventare vescovo. Ecco perché l’oca è considerata la carne principale del menù di San Martino. Non solo per la leggenda secondo la quale, per ricordare il tradimento delle oche, il giorno di San Martino ne viene sempre arrostita una. L’oca, infatti, è legata anche ad altre tradizioni. Innanzitutto al fatto che, nel periodo della festa di San Martino, si concludevano i contratti agricoli e i contadini pagavano la decima ai Signori, spesso con prodotti della terra o del bestiame, tra cui appunto le oche. Inoltre perché la carne d’oca e quella di maiale costituiscono la migliore riserva di grasso e di proteine per il periodo invernale. Nei territori che si estendono tra Lombardia ed Emilia la devozione nei confronti del santo è, da secoli, estesa e radicata. Nella sola diocesi di Cremona è patrono delle comunità di Binanuova, Levata, San Martino in Beliseto, San Bassano, Isolello e Spinadesco ed è patrono anche di vari centri del Cremasco. Senza dimenticare, appena fuori dai confini cremonesi, a Viadana, la chiesa dedicata a lui e a San Nicola e, a San Martino Dall’Argine la bella fiera in centro al paese.. La sua durata è espressa da un celebre detto popolare secondo cui: “L’Estate di San Martino dura tre giorni e un pochino”. In realtà la durata del periodo mite, con assenza di precipitazioni e prevalenza di schiarite, non ha un limite specifico secondo la scienza. 

Celebre anche la leggenda delle oche. San Martino fu vescovo di Tours, una cittadina francese. In realtà, leggenda narra che il santo non volesse diventare vescovo. Per nascondersi dalla cittadinanza che lo acclamava, si nascose in un pollaio o una stalla piena di oche, che però lo tradirono, starnazzando più del solito e attirando il popolo verso il suo nascondiglio. Da allora si diffuse la tradizione di mangiare l’oca in occasione della festa di San Martino. All’estero questa abitudine è particolarmente diffusa in Svezia, Danimarca, Boemia, Svizzera e Germania. In Italia, invece, il consumo dell’oca il giorno di San Martino si ritrova in Friuli, Veneto, Lombardia e Romagna. In questo periodo dell’anno in Pianura Padana si prepara addirittura la tradizionale cassoeula– uno stufato di verza e carne di maiale – con la carne d’oca (detta anche bottaggio). In realtà in tutta Italia ci sono poi tradizioni di San Martino locali che vanno oltre vino e caldarroste, dal dolce al salato.

In città, a Cremona, il Museo civico “Ala Ponzone”, nella sala del Cinquecento, conserva un magnifico quadro di Vincenzo Campi,  una delle opere che meglio rappresenta l’attenzione rivolta dal più giovane discendente della dinastia campesca per la pittura della realtà. Un’ opera d’arte che descrive infatti i dettagli della quotidianità della vita contadina  raffigurando il trasloco che i braccianti erano costretti ad effettuare da una cascina all’altra a causa della scadenza del loro contratto. Questa usanza, legata alla festività di san Martino,  pur essendo radicata fino alla metà dello scorso secolo nelle campagne della pianura padana, costituisce un soggetto iconografico che non trova precedenti in altre opere cinquecentesche sia italiane che straniere.

Tante le iniziative che si sono svolte in questi giorni, da San Martino in Beliseto a Sergnano, per proseguire con Capergnanica e Palazzo Pignano nel Cremonese e, appena fuori dai confini cremonesi, anche gli eventi che si sono svolti a San Martino Dall’Argine, Monticelli d’Ongina, San Secondo Parmense, Fontanelle di Roccabianca per citarne alcuni.  

La ricorrenza di San Martino, di fatto, “apre le porte” ad una serie di festività molto sentite e tradizionali tra la gente delle nostre campagne.  

“Infatti – come ricorda l’ “Eremita del Po”, Paolo Panni, da sempre cultore e appassionato di storia e tradizioni dei nostri territori - mentre il sonno della fertile terra, di qua e di là dal fiume, si fa largo e, dopo l’Estate di San Martino, il freddo dà vita, di anno in anno, ad un bianco incantesimo, per le terre di pianura si aprono tempi in cui rivivono tradizioni e folclore, misteri e leggende, che immergono le loro radici nella sapienza popolare. Tra le leggende – ricorda l’Eremita del Po - una delle più antiche, è quella dei cosiddetti “Santi mercanti della neve”; definizione, questa, che deriva dal fatto che le ricorrenze cadrebbero nei giorni più nevosi dell’anno, ma anche in quelli che aprono le porte ad un primissimo e leggero spiraglio di primavera. Tra i “Mercanti della neve” (anche se la neve non la si vede da un po’, ma un tempo era frequente e talvolta abbondante), Santa Caterina (col detto “Per Santa Caterina le vacche in stalla”), che cade il 22 novembre,  è uno dei primi segnando, di fatto,   l’inizio dell’Avvento. Addentrandosi verso l’inverno i  mercanti della neve sono Sant’Andrea (30 novembre), Sant’Ambrogio (7 dicembre), l’Immacolata (8 dicembre). Passato poi il tempo delle festività natalizie, ecco   Sant’Ilario (13 gennaio); San Mauro (15 gennaio) col detto “San Màur, un frad dal diaul”; Sant’Antonio Abate (17 gennaio), col motto “Sant Antoni, un frad dal demòni” e San Sebastiano (20 gennaio) con i detti “San Sebastian, un frad da can” e “San Sebastian, un’ura in man”. di San Sebastiano. Quest’ultimo, secondo la tradizione popolare ha “la viola in mano”, come a voler indicare l’intravedersi dei primissimi segni della primavera (con uno dei fiori che maggiormente la simboleggiano). Stando sempre alle tradizioni dei nostri vecchi, si dice che per San Sebastiano le galline ricomincino a deporre le uova mentre per Sant’Agnese (21 gennaio), annoverata come Sant’Antonio e San Mauro tra i “Mercanti della neve”, il freddo è per le siepi e per San Vincenzo (22 gennaio) l’inverno mette i denti. Per Sant’Emerenziana (23 gennaio) se non piove il grano è a rischio e per San Francesco di Sales e san Feliciano (24 gennaio) se non piove fa poco grano. Tanto per restare in tema meteorologico – spiega ancora l’Eremita del Po - il 25 gennaio, per la Conversione di San Paolo, se è sereno ci saranno buoni raccolti; se piove o nevica ci sarà la carestia; in caso di nebbia sarà l’annuncio, purtroppo, di una moria di animali e se ci sarà la tempesta, addirittura, sarà annunciatrice di una guerra tra i popoli. In Febbraio ecco arrivare, il 2, la festa della Candelora (la Presentazione di Gesù al Tempio), evento che si ritenga segni, per lo più, la fine dell’inverno Dal punto di vita pagano la Candelora ha a che vedere con la purificazione e con i riti propiziatori per la fertilità della terra e rientra a pieno titolo tra gli otto Sabba (Shamain, Yule, Imbolc, Oestara, Beltane, Litha, Lammas e Mabon) che sono le principali festività del nostro calendario in cui vengono celebrati i solstizi, gli equinozi e altre ricorrenze legate alla Natura (a cui si sovrappongono le festività “religiose”).La Candelora è festeggiata il 2 febbraio, proprio perché, in base al calendario astronomico, questo è il giorno che fa finire l’inverno e che inaugura la primavera. E’ quindi un momento di passaggio, tra l’inverno/buio/”morte” e la primavera/luce/risveglio. Un celebre proverbio dice “Candelora dell’inverno semo fora”, ossia il 2 febbraio l’inverno può considerarsi finito. Il proverbio però continua “Ma se piove e tira vento, dell’inverno semo dentro”, vale a dire che se il 2 febbraio il tempo è brutto, l’inverno durerà almeno un altro mese. In questo senso la Candelora è anche legata ad alcune feste di origine agreste, in molti Paesi europei, infatti, si cucinano piatti specifici, che vengono offerti alla natura o alle fate, come in Francia. Il primo antichissimo proverbio latino sulla Candelora dice: “Si Purificatio nivibus – Pasqua floribus Si Purificatio floribus . Pasqua nivibus”. Significa cioè che se il 2 febbraio è freddo e nevoso, la Pasqua sarà bella. Se invece il 2 febbraio fa bel tempo, a Pasqua nevicherà. Quella della Candelora, meglio conosciuta, sull’una e sull’altra riva del Po come la “Sarjòla” è da sempre un appuntamento molto sentito nelle nostre campagne, come lo è quello del 17 gennaio con Sant’Antonio Abate, patrono degli animali. E’ sempre stata convinzione diffusa, tornando alla Candelora, il fatto che la candela ricevuta dal sacerdote, una volta portata a casa, possa esercitare benefici influssi contro le forze del male. Anche per questo la si è sempre utilizzata al capezzale dei moribondi, accendendola inoltre per la nascita di un bimbo. Ripetendo ed emulando il rito che si svolge in chiesa per la festa di San Biagio, protettore della gola, il più anziano/a della famiglia, fin dai tempi antichi, incrociava due candele benedette, a digiuno, poggiandole all’altezza della gola di chi manifestava dolori, facendogliele baciare in segno di devozione. D’estate, in occasione di temporali, per evitare grandinate, inoltre si è sempre bruciato l’ulivo benedetto la Domenica delle Palme utilizzando la candela della “Sarjòla”. Ma anche le bestemmie sono sempre state “immunizzate” da eventuali epidemie con la stessa candela. Passata la ricorrenza della Candelora, il giorno seguente (3 febbraio) ecco un altro appuntamento legato ad un Santo tipicamente “invernale”, anche lui annoverato tra i “Mercanti della neve”: San Biagio, venerato tanto in Oriente quanto in Occidente, ben popolare anche tra le due rive del Grande fiume. Popolarissimo e diffuso, per questa ricorrenza, è il rito della “benedizione della gola”, fatta dai sacerdoti poggiandovi due candele incrociate oppure ungendola e facendo una croce con l’olio benedetto, sempre invocando la sua intercessione. Altra tradizione legata a questa ricorrenza è quella di mangiare il “panettone di San Biagio”. Per l’occasione, e per rispettare la ricorrenza, il panettone dovrebbe essere quello avanzato dopo le recenti festività natalizie. Due giorni più tardi, il 5 febbraio, la festa di Sant’Agata va, in qualche modo, a suggellare il “carnet” dei santi invernali e dei “mercanti della neve”. Ed ecco quindi l’auspicio dell’Eremita del Po che conclude dicendo “Mentre il sonno della fertile terra padana si espande, tutte queste tradizioni possano vivere e rifiorire. I Santi dell’inverno, tra devozione e folclore, misteri e leggende, fede e identità popolare, possano accompagnare e illuminare giorni che, solo in apparenza, possono sembrare gelidi e bui. Siano “accolti” e festeggiati, questi santi, sull’una e sull’altra riva del Grande fiume, affinchè i loro esempi possano rifulgere nei nostri giorni, nel nostro agire, nelle nostre terre e nella nostra quotidianità di gente del Po”.

Comitato Amici del Grande Fiume


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