La nostra storia. Gussola, 75 anni fa finiva la rivoluzione del consiglio di gestione della Cartiera
Si poteva anche considerare Gussola un paese privo di una storia rilevante, però la sua piazza era comunque un bel crocevia di persone, di notizie e di chiacchiere; vi affioravano perfino nuove idee di tipo sociale. Era una piazza grande in terra battuta: di qua la facciata quasi neoclassica e intonacata ocra chiaro dell'antica chiesa era esposta al sole di mezzogiorno, i tigli delimitavano il suo sagrato pietroso; di fronte, con massicce colonne quadre e le lapidi commemorative sui muri per Cavour e per Felice Cavallotti, si apriva l'atrio delle scuole, solo elementari, perché le medie erano ancora faccenda da intellettuali; da un lato un minuscolo parco con siepi di bosso e due grandi abeti ornava il municipio ottocentesco; le case tutt'attorno , pur avendo altezze differenti, erano l'una addossata all'altra, la loro scialbatura appariva non perfetta, un poco rustica e di colore indefinito; esse comprendevano abitazioni, botteghe e osterie, erano sempre aperti la mescita di Marino, il caffè del Lusèr e in piena attività il negozio del sarto-barbiere, Rivetti. Barteul vendeva le scope in saggina che lui stesso confezionava. Attraverso ampi slarghi vi affluivano tutte le strade più importanti del paese. Le donne con grembiule agreste e ciabatte nere l'attraversavano a piedi, portando la sporta o in paglia o in losanghe chiare e scure di ritagli in pelle; alcuni uomini in bicicletta, incrociandosi, talvolta si fermavano per parlare tra loro, restando seduti sulla sella e appoggiando un piede per terra; gli abbigliamenti di colore smorto e di foggia cascante apparivano ancora lontano dagli attuali prodotti sgargianti confezionati in serie e la presenza di alcune toppe rivelavano che gli abiti venivano sfruttati fino all'estremo; i cavalli e gli asini grigiastri che transitavano, trascinando spediti il biroccio leggero sulle alte ruote di legno, spesso vi lasciavano cadere le loro deiezioni compatte e appallottolate, ma nessuno vi faceva caso.
Non si avvertiva altro rumore che il rintoccare delle ore, qualche richiamo e, a tratti, il martellare sonoro sull'incudine del maniscalco dietro le scuole. La gente di campagna non parlava certamente sottovoce: “Hai già mietuto?” “E' bello quest'anno il granoturco?” “E il maiale?” “Ci sono andato col cavallo (il biroccio era sottinteso)” “ Qualche pescegatto l'hai preso nel budrio delle Gerre (era un piccolo stagno)?” “Lo friggerò stasera nello strutto”.
Le donne si occupavano dell'orto e della casa: “Che pomodori quest'anno nel mio orto!” “Le margherite sono grandi così!” “Finalmente mi ha mandato una cartolina: sta bene”, “Per cena ho da arrostire due fette di polenta al fuoco (del camino, il quale, quando c'era, era l'unica sorgente di calore in tutta la casa)”.
Nella bella stagione le abitazioni e le botteghe tenevano spalancate o semiaperte le porte d'ingresso e, se il sole le illuminava con troppo ardore, erano protette solamente con una tenda a grosse righe verdi verticali. Lungo la via principale funzionava una bottega inconsueta per un paese di quei tempi: un forestiero venuto dal profondo parmense faceva a macchina la pasta su ordinazione a coloro che portavano la farina: spaghetti, rigatoni, anellini, farfalle ed altro ancora. In alto, subito sotto il soffitto del suo negozio, girava un lunghissimo albero metallico con le sue vistose pulegge nere di varie misure; da ogni puleggia scendeva un cinghione di cuoio che trascinava in rotazione i meccanismi di ciascuna delle quattro o cinque macchine allineate alla parete: come d'uso nell'industria archeologica, esse avevano struttura sovrabbondante in ghisa massiccia lucida o verniciata di azzurro. L'essiccatoio della pasta, una gabbia in tavole di legno dipinte di azzurro, soffiava e ronzava cupo come uno sciame di calabroni; nelle sere d'estate si mettevano fuori, sul marciapiedi, le due panche che di giorno servivano per i clienti in attesa e si dava inizio al crocchio con i vicini e i passanti.
Da poco era crollato il regime fascista e, quando con il desiderio di migliorare la situazione viene abbattuta una struttura sociale con la speranza di creare un nuovo ordine, non succede praticamente mai che quest'ultimo si presenti subito e si manifesti funzionante ed operante immediatamente: inizia solamente la possibilità di costruirlo e, per fare ciò, bisogna resistere agli urti delle vecchie corporazioni, le quali, pur ufficialmente smantellate, spingono sempre per ostacolarlo. Alcuni avevano buon motivo per ringraziare la sorte e l'andavano a ringraziare in chiesa, dove allora apprendevano pure buoni argomenti per mantenere immutate le cose. C'erano anche tanti disperati che non avevano idea su come sbarcare il lunario e speravano di avere indicazioni da coloro che nella piazza, nel corso dei loro comizi, avevano già proclamato la necessità di giustizia sociale e il rifiuto dell'oscurantismo clericale.
I poveretti osavano ancora pensare, discutevano, decidevano e tra gli argomenti in discussione allora figuravano l'ammasso, l'imponibile e l'autogestione delle cascine. Le risorse erano poche, i poveri tanti e le strutture sociali per arginare localmente e direttamente il problema mancavano completamente; la parola “welfare” là non era ancora mai stata neanche pronunciata. L'economia sfasciata e con le attività che appena iniziavano a riorganizzarsi lasciava disoccupate molte persone: senza lavoro e senza risorse.
Con la guerra catastrofica appena terminata i beni alimentari rischiavano di scarseggiare drammaticamente oppure di costare troppo e allora il nuovo governo aveva disposto l’obbligo dell'ammasso del grano nell'apposita struttura, chiamata in maniera che voleva essere accattivante “Granai del popolo”. Ogni zona e ogni paese doveva conferire una certa quantità di frumento o di granoturco, ricevendone un compenso, basso, definito dalle autorità; il resto poteva essere venduto a prezzo di mercato oppure, dopo molitura ovviamente, poteva essere consumato in famiglia. Lo Stato rivendeva alle aziende trasformatrici il grano a basso costo, pretendendo prezzi calmierati per il pane e per altre derrate alimentari.
La disoccupazione invece veniva combattuta con «l'imponibile», come nel precedente dopoguerra, circa venticinque anni prima. Le attività economiche riguardavano soprattutto l'agricoltura e con «l'imponibile» ogni azienda agricola doveva assumere tanti braccianti in funzione della sua estensione: li avrebbe pagati meno, ma ne avrebbe fatti lavorare di più. Le piccole e medie aziende rispondevano adeguatamente a queste direttive, ma le grandi? La Cartiera era una grande azienda agricola e avrebbe potuto produrre molto più grano di quanto si apprestava a produrre, ma essa coltivava piuttosto pioppi per alimentare le sue industrie cartarie: data la situazione, era una assurdità; per di più il grano non conferito all'ammasso dalla Cartiera doveva essere conferito dalle altre piccole aziende del paese; inoltre «l'imponibile» per una azienda così grande risultava oggettivamente troppo basso e quindi inevitabilmente si dilatava l'interesse e l'attenzione sul problema dell'autogestione dell'azienda tramite una struttura già chiamata “Consiglio di gestione”.
Cosa diceva la legge? Sull'argomento specifico non diceva nulla, anzi vigevano ufficialmente ancora molte vecchie leggi antipopolari, tuttavia si stavano preparando quelle nuove, sulle quali si riponeva la speranza per il futuro. Si trattava della nuova Costituzione. In alcuni ambienti, dove si era convinti che i più deboli dovevano affrancarsi e che dovevano farlo da soli, circolavano idee nuove e si discuteva anche di autogestione sui latifondi e sugli altri mezzi di produzione e si sperava che nuove disposizioni, coerenti con quelle idee, potessero essere introdotte nella futura Costituzione. Una buona dimostrazione sperimentata sulla praticabilità concreta delle soluzioni discusse era a tal fine giudicata molto utile. In paese non si arrivava a tanto, comunque gli innovatori vi godevano un'ottima reputazione; essi avevano una organizzazione ben strutturata e con adeguati collegamenti esterni. Quell'anno a fine estate, appena stabilite dalle autorità le quote di ciascuna azienda per l'ammasso, la Cartiera, tramite il suo amministratore, perché il proprietario, l'onorevole Donzelli, era un senatore che risiedeva a Milano, spedisce all'ente preposto la richiesta per ottenere una riduzione di oltre il cinquanta per cento della sua quota di cereali a danno degli altri agricoltori locali.
Ovviamente nessuno nella zona aveva gradito quell'iniziativa e il malcontento diffuso appariva un valido sostegno agli innovatori sia per ottenere dalle autorità il rifiuto della famigerata richiesta del senatore e sia per ottenere dall'azienda nuove concessioni come l'aumento del numero di occupati e il miglioramento delle loro condizioni di lavoro. E poi c'era sempre quel desiderio di dimostrare concretamente come si potevano diversamente gestire i mezzi di produzione.
L'organizzazione politica più vicina alle classi meno elevate era sempre attenta agli umori sociali della sua regione e così in paese aumentò subito il numero delle iniziative. Ad esse partecipavano assiduamente anche il sindaco e un giovanissimo deputato locale, Giacomo Bergamonti, intelligenza viva con eloquenza sciolta e pugnace. Dopo frequenti riunioni serali alla luce scarsa di lampadine polverose venne stilato un elenco di richieste da presentare, in ventuno punti, alla Cartiera; nell'ultimo si trovava malcelato l'argomento di maggiore interesse, il veleno, come qualcuno disse. I punti riguardavano “La luce a Cà dell'Argine, le concimaie nuove”; in terz'ordine col documento si chiedeva “la sistemazione delle case dei salariati e latrine un poco più igieniche”; «riparazione dei carri», soprattutto quello che aveva le quattro ruote scompagnate e addirittura con diametri diversi; «motorino elettrico per pompare l'acqua nelle stalle” così da evitare il solito lavoro di due ore, necessario per attingere l'acqua con la pompa a stantuffo azionata a mano; “sistemazione dell'aia per l'essiccazione del granoturco”, essa era una superficie lastricata con mattoni in cotto rosso e a fine estate, col granoturco maturo, i commenti erano irti di erbacce; ”togliere i polli da quell'aia e portarli alla cascina Palazzo; acquisto di macchine agricole; la sirena automatica, come nelle fabbriche, per segnare l'inizio e la fine del lavoro”, perché “quel servitore cretino” che suonava la campanella sul frontone della cappella, ormai deserta, era sempre in anticipo al mattino e in ritardo la sera; “quattro lampade lungo la stradicciola di alcuni chilometri che portava alla cascina” e appunto alla fine veniva richiesto anche il “Consiglio di gestione”, cioè il proprietario doveva cedere la gestione dell'azienda ai salariati invece che al suo amministratore di fiducia: dopotutto anche i salariati erano di fiducia.
Il senatore di Milano, che in parlamento non era neanche alla lontana espressione del medesimo partito che appoggiava i braccianti, poteva agevolmente accettare tutti i primi punti che gli avevano elencato, ma l'ultimo non gli andava proprio a genio, perché sarebbe stato sia una rinuncia parziale al suo diritto di proprietà e sia un segno di cedimento deplorato ovviamente dalle altre aziende agricole di grande estensione, come la sua, e si rifiutò di trattare.
Allora, dietro quasi tutte le abitazioni anche centrali, in paese, nel cortile vagavano i polli, che lo costellavano di minuscole cacature bianche, brune e verdi, in alcuni cortili sotto il piccolo fienile si allevava anche il maiale oppure si dava riparo a un cavallo. La presenza di questi animali consentiva a una grande quantità di mosche di moltiplicarsi e di prosperare, esse sconfinavano nelle povere cucine e in molti altri ambienti circostanti; ce n'era sempre un paio che, d'estate, nelle stanze tenute in penombra per conservare il fresco, veleggiavano, in tondo e senza ronzare, sotto la lampada che pendeva dal soffitto. Le rondini erano richiamate potentemente da tanta abbondanza di insetti e molte grondaie accoglievano i loro nidi modellati ingegnosamente con minuscole pallottoline di fango grigio. Puntuali, il primo di Ottobre le rondini si davano tutte convegno posandosi una di fianco all'altra, strette ,strette, sui tre fili elettrici che attraversavano paralleli l'intera piazza, si agitavano per un poco con i loro richiami e con brevissimi voli per scambiarsi di posto, infine partivano e a sera in tutto il paese non se ne vedeva più una; quello era anche il primo giorno di scuola e i bambini ascoltavano le storie di migrazione degli uccelli verso paesi lontani.
La miseria si palesava soprattutto nei mesi a ridosso dei rigori invernali e in quella stagione i problemi economici familiari diventavano per ognuno più pungenti. D'estate un po' di risorse c'era per tutti, perfino per il macilento cavallo bigio pezzato del carrettiere Sighella, trasportatore di crusca e di qualche stia di pollame; bastava falciare l'erba lungo i margini delle strade fiancheggiate dai fossi ancora incontaminati, farne fieno e raccoglierlo. In quella situazione a metà Ottobre i braccianti che avevano presentato la richiesta in ventun punti alla Cartiera, senza riceverne nessuna risposta positiva, decisero di entrare in azione e in una riunione si erano anche distribuiti i compiti previsti dall'autogestione: Gerelli era il presidente, Maggi il fattore, poi c'erano l'amministratore, l'addetto alla pesa e i capiuomini. A tutti spettava la medesima «paga»; chi dirigeva faceva delle ore di lavoro in più la sera. Avrebbero avuto il sostegno di tutto il paese ed erano pronti per agire: la terra incolta doveva essere ripulita dai cespugli selvatici, sambuchi, rovi e dulcamare e un bosco di pioppi, ormai maturi, perché piantati trent'anni prima, doveva essere abbattuto. Il terreno liberato e che dopo San Martino sarebbe stato seminato avrebbe potuto produrre abbondantemente le quantità di grano richieste per l'ammasso, almeno novecento quintali invece che quattrocento come proposto dal senatore. Per quel sovrappiù di produzione risultavano necessari più braccianti e così anche il problema dell'imponibile avrebbe avuto una soluzione abbastanza soddisfacente.
Verso fine Ottobre, come ogni giorno di lavoro, i braccianti, quasi in ottanta, si sono presentati davanti la porta del fattore alla Cartiera e una trentina di loro portava già sulle spalle i ferri per “cavare le piante”. Quando il fattore fa la sua apparizione e inizia a comandare i lavori, si porta avanti il presidente designato dell'autogestione, Gerelli: “Stamattina comandiamo gli uomini noialtri, se volete partecipare anche voi, bene, altrimenti facciamo tutto da soli”. Il fattore, capita la situazione, si ritira e se ne va; gli uomini con i ferri si dirigono al Quadro delle Chiaviche a “cavare i pioppi”. Degli altri uomini una parte andava a far foraggio per il bestiame, “trecentocinquanta bestie”, una parte portava il letame fuori dalle stalle e una parte faceva pali con le robinie cresciute spontanee lungo le scarpate dei fossi; e così, tra i primi in Italia, iniziarono l'occupazione di una azienda, la Cartiera, insediando un Consiglio di Gestione. Bisognava estirpare erbe infestanti fino alle terre demaniali che costeggiavano il Po; le piante abbattute venivano pulite “a metà”, cioè i tronchi assieme con metà delle ramaglie spettavano all'azienda, l'altra metà dei rami andava a chi lavorava, per farne legna da ardere.
Le pioggerelle autunnali, sottili e insistenti avevano coperto la campagna di fango e di pozzanghere che il sole scialbo dietro la foschia non riusciva più ad asciugare, tuttavia il Consiglio e i suoi braccianti lavoravano nell'umido grigio dei boschi con foga ed entusiasmo; ci si aspettava da un momento all'altro l'arrivo della “Celere”, un corpo di polizia impiegato per il pronto intervento, ma per qualche giorno tutto fu tranquillo; poco dopo tuttavia cominciarono ad acuirsi le difficoltà per il pagamento dei salari. All'inizio i proventi si ricavavano dalle vendite dei prodotti ai clienti consueti: il latte al caseificio, il vino alle osterie e il grano al mulino, ma poi costoro ricevettero diffide legali e non acquistarono più nulla. Eppure il latte doveva essere comunque munto, quindi si vendeva sottocosto a tutti coloro che lo andavano ad acquistare e per qualche povera famiglia ciò appariva una ottima opportunità. Allo stesso modo si vendeva la legna, appunto le ramaglie tagliate “a metà” che spettavano all’azienda.
Ma era legale? Solo pochissimi facoltosi viaggiavano, o si pavoneggiavano, sopra un'automobile, pure le biciclette non erano molto numerose, la maggior parte si muoveva solo a piedi e le distanze spaventavano molto più di ora, tuttavia fu trovato il modo di raggiungere e di consultare l'ex onorevole Guido Miglioli, quello delle Leghe Bianche dell'alto cremonese. Il parere ricevuto, almeno per il momento, fu tranquillizzante. “E' ormai pacifico nella consuetudine legislativa italiana che con l'uso dei frutti pendenti, cioè legna, vitelli, latte, bozzoli, uova, ecc., quindi con tutto quello che non è fisso nella proprietà, gli occupanti di una cascina (cioè coloro che organizzavano occupazioni nelle cascine per reclamare i loro diritti) possano provvedere per la retribuzione dei salariati. Sovvengono in materia molte analogie. L'onorevole Giolitti, l'onorevole Micheli ecc. ecc.” . La situazione era foriera di novità importanti e quindi il giornale locale, “La Provincia”, tuonava contro il sopruso fatto al diritto di proprietà con “i contadini che si sostituiscono di prepotenza ai dirigenti” e contro il pericolo che “ci scappasse il morto” . Si parlava allora di possibili sabotaggi e quindi tutte le notti qualcuno, comandato dal Consiglio di gestione, era di guardia in giro per i boschi.
Dopo la festa di tutti i Santi sembrava che la nebbia si impadronisse del paese: essa si muoveva lentamente tutto il giorno attraverso gli spazi più aperti e costellava di goccioline d'acqua ogni cosa che sfiorava; era bianca e impenetrabile alla vista e nei cortili diffondeva sentori di paglia, di fieno e di letame. I lavori nei campi si fermavano, pochi uscivano di casa e di sera non si riusciva a vedere da una parte all'altra delle strade che pure non erano larghissime. Per continuare a garantire un minimo di salario ai suoi braccianti il Consiglio si sentì costretto a tentare di vendere i tronchi dei pioppi abbattuti alle segherie che operavano nei dintorni, trasportandoli verso i potenziali acquirenti. Era impossibile che qualcuno non ne approfittasse e infatti capitò quasi subito l'occasione di «incassare» un assegno «a vuoto» di ben centomila Lire.
Nonostante le diffide legali, in seguito si presero accordi con una ditta di trasporti per sei autocarri e con la cooperativa dei meccanici, costituita dai partigiani del paese, per l'unico autocarro di cui disponeva, “Il Battagliero”. In paese gli ex partigiani godevano di stima e simpatia, essi avevano partecipato ad azioni militari e politiche, qualcuno aveva anche combattuto in montagna. Formazioni tedesche, nella loro ritirata, due anni prima avevano attraversato il Po proprio in quella zona e tutti ricordavano ancora la paura degli anziani, l'eccitazione dei giovani, il desiderio di rivalsa e anche di vendetta. I partigiani locali erano riusciti a catturare ai nemici alcuni mezzi militari e, si diceva, anche alcune armi, poi inutilmente ricercate dalle autorità di polizia per requisirle. Il Battagliero faceva parte di quel bottino, ma ben presto venne sequestrato dalle forze di occupazione americane, le quali in seguito richiesero ai partigiani duecentomila Lire per la sua restituzione, in pratica un riscatto.
Il sole annuvolato non si vedeva da diversi giorni, ma appena iniziò ad albeggiare, nonostante la nebbia, il freddo e il fango, gli uomini si trovavano già tutti nella penombra del bosco spoglio e caricavano, solo a forza di braccia, i tronchi sugli autocarri. Finita l'operazione, il Battagliero in testa con le bandiere rosse, i mezzi si misero in fila sull'unica stradicciola che dalla Cartiera, attraversando un bosco, uno specchio di acqua stagnante e l'argine maestro del Po, arrivava in paese; l'intenzione era anche quella di sfilare attraverso la piazza per suscitare sempre maggior sostegno, ma, arrivati fuori dal bosco, in prossimità dell'argine, si videro la strada sbarrata dalle forze di polizia che avevano piazzato perfino una mitragliatrice. Il prefetto era dovuto intervenire per “garantire l'ordinato svolgimento delle attività civili” e i pioppi della Cartiera non dovevano essere venduti. Appena che la notizia del fatto arrivò in paese, accorsero uomini a piedi e in bicicletta tutti avvolti nel loro tabarro bruno e con il berretto a falde flosce in testa. Circolava ancora la storia delle armi nascoste dai partigiani, il tabarro poteva nascondere qualunque minaccia e quindi la polizia non si sentiva tranquilla; le due schiere si affrontarono per qualche tempo in maniera ostile, chiassosa, ma innocua e comunque il morto non ci scappò. A mezzogiorno gli autocarri tornarono indietro per rilasciare il carico. In seguito solo tramite barche, attraverso il Po, il Consiglio riuscì ad organizzare un piccolo traffico di tronchi, destinati ad acquirenti di Roccabianca, sull'altra sponda del fiume.
Le difficoltà economiche per gli occupanti continuavano a crescere e nel frattempo nella Costituzione appena promulgata il vecchio concetto di proprietà privata rimaneva immutato e ben tetragono.
Pioveva e allora alla Cartiera era necessario ricorrere ad attività di ripiego che si organizzavano al riparo sotto le barchesse, i grandi portici, delle cascine; quel giorno il vicefattore di Donzelli invitò Maggi a recarsi con lui alla piazza del paese, due chilometri a piedi dalla Cartiera. Camminavano infagottati nella loro logora giacchetta da lavoro per ripararsi dalla pioggia sotto il cielo smunto e bigio: «Ascolta, iniziò il vicefattore, io non so come fate ad andare avanti in questo modo!» «Non c'è stato ancora nessuno che sia morto di fame - ribatté Maggi che poi non riuscì a trattenere una piccola esagerazione frutto di un suo lungo vagheggiamento - devi anche sapere che abbiamo per l'appunto appena spedito un «esposto» alla CGIL di Di Vittorio per ottenere dieci Lire per ogni iscritto. Dieci Lire sono poche, ma per sei milioni di iscritti fanno sessanta milioni e con quelli andiamo avanti quanto vogliamo.» Il vicefattore ammutolì, ma presto pensò che aveva ancora in mano una buona carta da giocare: «Potrei darti l'incarico di capouomini». Proseguì :«A te e a Quarenghi, Pieru Grand!» «Ma cosa dici - rispondeva Maggi mentre, camminando, cercava di scavalcare le pozzanghere più profonde - l'occupazione non è fatta solo da noi due, poi noi non facciamo gli ambiziosi."
La cosa non ebbe nessun seguito. Però le discussioni sulla Cartiera si infittirono, gli incontri con le autorità diventavano sempre più frequenti e proprio nei giorni «della merla», a fine Gennaio, mentre dal cielo bianco nevicava con falde di neve come fazzoletti, in prefettura, in città, fu trovato un accordo patrocinato dal partito dei lavoratori e dai rappresentanti degli agrari: il Consiglio di gestione venne mestamente sciolto, ma il giornale di partito non desistette dall'inneggiare alla grande vittoria dei braccianti, i quali, come in seguito risultò, avevano condotto le attività alla Cartiera in modo tale che essa riuscì effettivamente a versare all'ammasso i novecento quintali di grano richiesti.
Blu cobalto inconsueto, poco prima della sera invernale, apparivano i vetri della finestra sguarnita, che per tutta la giornata aveva diffuso nella piccola abitazione di Sighella la luce fioca della bruma nebbiosa. Il silenzio totale calava lentamente e poi dall'esterno non si sarebbe più avvertito nemmeno il richiamo degli animali domestici rifugiati nel pollaio e nella piccola stalla completamente buia. All'interno della stanza si percepiva il crepitio stanco del fuoco alimentato con parsimonia nel modesto camino che a mala pena riusciva a intiepidire l'ambiente disadorno. Alla luce giallognola di una lampadina che pendeva dal soffitto la cena consisteva allora o in minestra di cavolo o in polenta assieme con due fette di salame, quando c'era. D’inverno non si trovavano più in commercio neanche le uova. Si beveva poco vino sia per sobrietà sia perché esso, di infima qualità, sapeva di asprigno, essendo prodotto in maniera rudimentale con uva Fortana. Il mattino dopo Sighella entrò come il solito nella stalla angusta del vecchio cavallo per governarlo e vide con sgomento che era morto; si trovò così privo anche del poco lavoro che gli rimaneva in quella stagione.
A qualche chilometro di distanza i frati francescani curavano un antico santuario dalla fama taumaturgica ormai dimenticata, era dedicato alla Madonna della fontana. I frati vivevano di elemosine che raccoglievano di cascina in cascina, passando con un loro carretto trainato da un placido e stanco cavallo baio. Intanto che l'animale da soma poteva avere ancora un poco di valore, i frati decisero di metterlo in vendita. Data la situazione e il prezzo del cavallo, a Sighella sembrò un buon affare e lo acquistò assieme con i suoi finimenti tutti rattoppati; però il suo lavora continuava a scarseggiare. Si sapeva come i frati utilizzavano il cavallo, qualche volta il carrettiere li incontrava sulle stradicciole deserte di campagna, “Sia lodato Gesù Cristo” salutavano e lui rispondeva con un richiamo, “Ohi”, e un cenno di intesa. Dopo un periodo di inattività e di vita particolarmente grama, ci aveva già pensato e un mattino di fine inverno Sighella venne nella determinazione di andare lui di cascina in cascina per conto proprio:
“Mi mandano i frati a raccogliere le elemosine” dichiarava. Le massaie infreddolite e indaffarate riconoscevano il cavallo con i suoi finimenti e alcune, sbrigative, non mancarono di consegnargli qualcosa come due palettate di granoturco o di farina o qualche uova così che a sera il carretto tornò a casa con un piccolo carico di vettovaglie. Durante le questue pasquali i frati lo vennero a sapere, nacque qualche discussione, ma tutto finì nel nulla; le donne però, quando si incontrarono la domenica per la messa del mattino, raccontarono tutto.
Due immagini di Antonio Leoni sui lavori nelle cascine cremonesi, poi la villa della cascina La cartiera
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