La parabola dell'Armaguerra, il sogno dell'industria bellica chiusa dopo sei anni per colpa di un fucile che non sparava
Fra non molto non resterà quasi più nulla della sfortunata storia dell’Armaguerra e, prima che se ne cancelli del tutto la memoria, ricordiamo la storia di questa azienda, ambizioso progetto cremonese di creare una fabbrica bellica nazionale. L'azienda fu fondata nel 1939 per realizzare un'arma che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere micidiale: il fucile semi automatico calibro 6,35 mm. Tutto era iniziato quando un imprenditore genovese Ettore Francesco Nasturzio si era messo in società con Gino Revelli per costituire la società anonima denominata “S.A. Revelli Manifattura Armi Guerra” con ragione sociale “fattura e trasformazione armi” poi modificata in quella di “Società Anonima Armaguerra”, con il progetto di di completare gli studi e la fabbricazione di un prototipo di fucile semiautomatico, in sostituzione del vecchio fucile 1891 ritenuto un’arma ormai sorpassata. La società ebbe una commessa per la costruzione di 50 mila fucili semiautomatici, poi portata a 103 mila fucili semiautomatici.
Nel giugno 1940 l'azienda ricevette ne ricette un’altra per la costruzione di 300 mila fucili mod. 38 calibro 6,5 mm prevedendo un ritmo di consegna di 10 mila fucili al mese al costo di lire 350 ciascuno, più tardi modificati in mod. 4. Ma in seguito il Ministero ordinò di modificare il calibro del fucile semiautomatico. L’arma fu ristudiata e rifatta e quando fu pronta per passare alla produzione in serie il Ministero cambiò idea e decise di non dare più corso alla commessa. Per l'Armaguerra si trattò di un danno enorme, che una commissione ministeriale quantificò in circa 12 milioni di lire di risarcimento. Lo stesso accadde con la commessa dei 300 mila fucili mod.38. Ad un certo momento il Ministero, nel tentativo di procurare maggiori capacità lesive al proiettile sparato dal fucile, cambiò il mod. 38 calibro 6,5 mm, in modello 41 calibro 7,35x51 con la conseguente necessità di apportare radicali modifiche alla organizzazione della lavorazione in serie.
Il nuovo modello venne messo in produzione e iniziata la consegna dei fucili. Ma il cambio del calibro non diede i risultati sperati. Il proiettile attraversava i corpi creando ferite facilmente curabili. Ferite più devastanti si ottenevano con un diverso proiettile e così si ritornò al vecchio calibro 6,35. Si rese necessario rinforzare la calciatura dei fucili già prodotti con due bulloni passanti, perché questa munizione sviluppava una pressione maggiore rispetto a quella che si era tentato di impiegare. Ne furono consegnati 50 mila, mentre altri seimila caddero nelle mani dei tedeschi dopo l'8 settembre con ingenti quantità di parti d’arma pronte o semi pronte che si dovevano semplicemente montare. Oltre al montaggio i tedeschi ne chiesero l’adeguamento al calibro standard tedesco il 7,92 Mauser. Per questi fucili e per le operazioni di modifica la società chiese il pagamento al competente ministero della RSI ricevendone un rifiuto, in quanto il ministero argomentò che dopo l’8 settembre la fabbrica era passata sotto il controllo dei tedeschi e quindi spettava a loro il pagamento.
I tedeschi, al momento della occupazione, trovarono nello stabilimento dei modelli di un arma tipo “Parabellum” già scartata dal governo italiano. Vollero tentarne la fabbricazione e diedero la relativa commessa per 10 mila pezzi ma l’arma non entrò mai in produzione. Delle 150 mila pistole tipo “Beretta cal.7,65”, ordinate dai tedeschi, ne furono prodotte solo alcune decine. La produzione bellica sostanzialmente era rappresentata dai moschetti Carcano e dalle pistole Beretta 34, entrambi con la dicitura “Armaguerra Cremona” rispettivamente sulla culatta e sul carrello. L’Armaguerra, però, progettò in autonomia anche tre pistole mitragliatrici innovative: la OG 43, la sua evoluzione OG 44, e la FNAB mod. 1943, che però fu prodotta dalla Fabbrica Nazionale d’Armi Brescia, da cui il nome; fu nota anche come “mitra Zerbino” dal nome dell’allora ministro dell’Interno della Repubblica Sociale. La OG 43, se si escludono la canna e l’otturatore erano prodotte per stampaggio di lamiera, consentendo una grande celerità nella produzione. Di fatto, però, dalla fabbrica uscirono ben pochi esemplari, essendo più importante produrre fucili per le forze combattenti.
Dopo l’8 settembre la produzione d’armi comunque continuò ancora per due anni, sotto il controllo dei tedeschi, che minacciarono di deportare tutti in Germania e di confiscare i macchinari; in effetti il trasferimento delle attrezzature avvenne parzialmente, dopo l’armistizio del ’43, portandole al riparo nelle gallerie stradali della zona di Riva del Garda. Nell’autunno del 1944 venne imposto alla società il decentramento a Vipiteno dello stabilimento e l’annullamento di tutte le commesse riguardanti tutte le armi. L'Armaguerra cessò formalmente l'attività nel luglio 1945 e si tentò la riconversione alla produzione civile: nel 1945 infatti la “Armaguerra Cremona” diventò “Officine Meccaniche Cremonesi”, e produsse per qualche tempo motori a scoppio di piccola cilindrata, 50 cc, da montare sul pignone della ruota posteriore delle biciclette per trasformarle in una piccola motoretta, simili al “Velosolex”, fondando addirittura la squadra di corse CAB. Nel 1949 l’area fu occupata dalla ditta A.S.P.I.-Tamini, che produceva mezzi antincendio e per la nettezza urbana, chiudendo nel 1956; nel 1961 infine una piccola parte dell’ormai ex Armaguerra fu occupata da un’industria meccanica, la “Boldrini”, che vi rimase fino agli anni Settanta per poi trasferirsi nel milanese. Nell'ex fabbrica si installò anche la Wonder e la Umberto Piacenza. L’Ocrim vi ebbe un deposito di attrezzature.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Michele de Crecchio
1 maggio 2021 19:43
L'operaio Alcide Civati cadde sotto il fuoco tedesco mentre tentava si opporsi al trasferimento dei macchinari. La lapide che ricorda tale sacrificio è attualmente in attesa di una opportuna ricollocazione.
Michele de Crecchio
2 maggio 2021 19:38
Mi sono meglio ricordato il nome dell'operaio morto sotto il piombo nazista: era Ermete Civardi, e non Alcide Civati come avevo precedentemente scritto. Prima o poi la memoria mi restituirà anche il nome dell'altro operaio che gli era accanto e che mi raccontò l'episodio sollecitandomi il salvataggio della lapide commemorativa posta nei pressi del suo sacrificio.