15 agosto 2023

Le barche della Baldesio, l'arzèenon, el Mento, via del Sale. Le corse, la voglia di libertà dei ragazzi di Porta Po

Noi, alla canottieri Baldesio, eravamo pomposamente chiamati “soci atleti” e nel tardo pomeriggio di ogni giorno, come si diceva in gergo “scendevamo in acqua”, portando la barca sulle spalle per quel giro quotidiano che chiamavamo allenamento.  All’ormeggio, in bella fila interrotta al centro dal rettangolo dello  zatterone di legno, stavano  le barche da diporto dipinte di bianco, contornate nella parte alta della sponda da una riga di azzurro. Quasi fossero persone tutte le barche avevano un nome: quelle con voga “alla veneta” si chiamavano come i fiumi e le altre, quelle con la voga a sedile fisso, ricordavano le  città.  Le barche, quelle portate a spalla dai canottieri, a segnale convenuto e con agile mossa, sarebbero poi state posate sull'acqua del fiume. 

A quell’ora del pomeriggio la banchina del Po era frequentata da tanti che, finita la giornata di lavoro, venivano a prendere aria. Fra le  molte ragazze presenti non mancava mai la sartina di porta Po.  Era opinione comune  che queste fossero lì prevalentemente per dare un’occhiata ai corpi abbronzati  dei canottieri, che eretti ed a braccia tese verso l’alto reggevano le imbarcazioni da competizione.  Queste  a segnale convenuto e con agile mossa, sarebbero poi state posate sull’acqua  del fiume. 

Marta veniva per me. Io all'uscita dal cancello, con la mia parte di barca sulle spalle, la cercavo in un posto poco discosto dalla gente. Questa  si spostava ai lati liberando, per noi delle barche, un passaggio verso la scalinata al fondo della quale c'era il Po. Non sempre veniva. A volte, al ritorno da quel giro d'allenamento, la ritrovavo  ad aspettarmi sulla banchina ormai deserta. Sola, rivolta al fiume, seduta sulla sella della  bicicletta si reggeva tenendo un piede appoggiato a terra. L'avevo conosciuta ragazzetta nel cortile. dopo i giorni della “monda”, in quello scorcio di estate,  veniva dalla sarta del secondo piano per imparare a dare qualche punto. Abitava in una cascina dove aveva sede un rinomato centro sperimentale per l'agricoltura.  Facemmo insieme qualche giro in barca fino alla sponda piacentina del Po,  ma l'esporsi al sole non le piaceva: “è lo stesso sole della risaia” diceva  mentre con  mano leggera si toccava gli  zigomi pesantemente incisi  dalla offesa. Lei preferiva  andare per campi, bagnarsi nei suoi fossi dove scorreva  un  acqua  da sempre familiare e fresca, protetta  dall'ombra del fogliame dei platani giganti. Si spogliava spontanea, discreta, appartata in modo che non potessi vederla, tenendo pudicamente  per se solo quel rinnovato gesto di togliersi il vestito. S'immergeva e ridendo mi chiamava cercando di forzare   pudicizia e timori inoculatami da sempre  che  tentavo di non far trapelare: "vieni..spogliati... non aver paura... ci  sono solo io".

 Quel tempo fu breve, non venne più nel cortile, andò servetta nella casa di alcuni signori di campagna.  Passò un  tempo, un altro interminabile  passò ancora, da lontano la cercai.  Scambiammo qualche lettera nei tanti mesi che fui assente da Cremona. Scriveva che alcune delle cose di quel passato non le voleva ricordare. Lasciava trapelare una tristezza che non le avevo mai conosciuta. Doveva esserle capitato qualche cosa che non seppi mai.  Venne alla stazione il giorno che tornai. La vidi quando il treno,rallentando, dopo lo scambio imboccò adagio il binario in fregio al marciapiede, distante da dove  il convoglio  poi si fermò. Quasi nascosta da uno scarto del muro, non le incrociai gli occhi che vidi rivolti ai finestrini che scorrevano. Seria, come sempre modesta nell'apparire, uguale. Si tenne discosta dal conosciuto gruppetto che mi aspettava. Non andai  da lei,  con la mano le feci un cenno d'invito al quale, forse, lei rispose. Poi, non so come, tutto si perse. 

Dalla riva del Po non più giovani soci della società e vecchi atleti, commentavano la struttura atletica dei ragazzi delle barche prefigurando quelli che giudicandoli dal fisico, a loro dire, avrebbero avuto sicure vittorie.  Lo ricordo bene quel gruppetto: Nicolay, Giuseppe Gerevini (Pépò Gerevèen), Prato, Santi il fornaio di corso Vittorio Emanale, tutta gente che si era cimentata nei “littoriali dello sport” e che adesso commentava, criticandoli, i metodi d’allenamento di Walter Tacchinardi, anche lui con ogni probabilità uno dei “littoriali”. Si confrontavano e si dibattevano con profonde argomentazioni due diverse scuole di pensiero: quella onnicomprensiva  polidisciplinare   riteneva che  per un’armonica e completa preparazione del corpo allo sforzo del remo fosse necessario non solo l’ esercizio alla voga ma che indispensabile fossero gli esercizi ginnici, la corsa, il sollevamento dei pesi, il rafforzamento delle gambe e delle braccia con appropriati strumenti e tutto quanto potesse rafforzare muscolatura, agilità e capacità respiratoria. Al contrario quelli dell’altra scuola sostenevano che molti di quegli esercizi sottoponevano il corpo a movimenti contrari a quelli richiesti dalla voga e quindi inutili se non dannosi all’esercizio agonistico del canottaggio. Il loro strumento privilegiato ed unico d’allenamento era il “pontone”, una specie di rudimentale simulatore di vogata che aveva la pala del remo forata e il carrello scorrevole, con il quale l’aspirante canottiere come novello galeotto, era condannato a ripetere all’infinito i quattro o cinque movimenti indispensabili alla remata che, il più velocemente possibile e con forza, doveva essere  passata in acqua. Aborrita era la corsa: “noi dobbiamo andare a gareggiare all’idroscalo e non sulle piste dello stadio Vigorelli” si diceva a sostegno dell’inutilità di quel correre.      

 A me la corsa piaceva e quando il fornaio Santi radunava i ragazzi per andare sull’argine a correre io andavo con loro. La corsa mi liberava la fantasia che vagava per conto suo al di  là della velocità del passo, correvo o passeggiavo velocemente perché mi piaceva farlo,  non per agonismo e senza la fregola della misurazione dei tempi. Fu cosi anche per molti anni successivi finché comparvero gli acciacchi.

In quelle nostre corse giovanili  non mancava mai Cornelio Bertazzoli dal fisico massiccio ed inesauribile fiato. Non riuscii mai a passargli davanti nonostante i continui incitamenti di Santi: “dai, dai  pasèel fòora! pasèel fòora! ” mi urlava da dietro, ma ben  presto si convinse che non ero fatto per competere ma solo per correre. Cornelio ci sapeva fare, sorridente sornione si aiutava anche con piccoli ingenui  trucchi del mestiere. Si spostava leggermente e sempre dalla parte nella quale io tentavo di superarlo impedendomi il sorpasso. A volte appoggiava le mani ai fianchi ed allargava i gomiti ingombrando tutta la larghezza del sentiero costringendomi, nel tentativo di superarlo, a girargli al largo con l’aggravio di dover fare qualche passo in più nell’erba alta non calpestata. Allora io senza remore o rimpianti desistevo riguadagnandomi un libero e non conteso posto fra gli ultimi nella sempre più allungata fila. Cornelio, figlio d’arte,  divenne un apprezzato pittore. Ci frequentammo anche quando il tempo delle corse sull’argine e delle gite in barca fu finito. Non frequentemente ci ritrovavamo nelle stesse sale da ballo ed erano l’Odeon e, esclusivamente d’estate perché qui la pista era all’aperto, la più elegante sede della Società del “Tiro al volo”  di via Persico. Non di rado  incontravo  Alvaro, sempre un po’ tenebroso,  distinto in  quel suo completo chiaro e camicia scura. Negli anni per politica bisticciammo anche aspramente. Accantonate ma non annullate le questioni del contendere,   rimanemmo sempre amici.

L’arginello delle nostre corse era quello basso, il primo a lato della strada alzaia che costeggiava il fiume, confine estremo della golena antica racchiusa fra questa e  l’argine maestro; l’àarzennòon  si diceva per distinguerlo da quelli più bassi che traversavano, a parziale difesa,  quelle terre alluvionali.  Quel basso argine lo percorrevamo veloci fino al suo incrociarsi con la via del Sale dove pareva sdoppiarsi. Il terrapieno andava dall’altra parte aggirando da sinistra il parco delle “colonie padane”  imprigionandolo fra questo e la strada alzaia che seguiva lo scorrere del fiume.  Noi su questa continuavamo la corsa fino al baracchino de Sandròon, una casotta un po’ cupa che esiste ancora  sulla doppia curva prima della distrutta “riva dei bruti” e della baracca del “Mento”. 

Fra i ragazzi della corsa e tra i frequentatori della riva del fiume, Sàandròon  era famoso per la sua particolarità  nel far cuocere le uova. Lo faceva non alla francese ma con la gùsa, in modo che il tuorlo non completamente sodo, ma molto più consistente di quello che si otteneva immergendo l’uovo completo di guscio per due minuti in acqua bollente, ne rendesse più facile la digestione. Aveva un passato cospirativo d’antifascismo. Ospitava e nascondeva nella sua baracca ed in vicinori luoghi sicuri quanti a lui si rivolgevano per sottrarsi alla leva militare della repubblica di Salò. Con la barca li traghettava sull’altra sponda del fiume indirizzandoli verso le colline partigiane. 

 Alessandro Panetti, Sàandròon per tutti quelli che frequentavano la riva, con il fratello abitava in via Vecchia un budello anarchico e sovversivo di terrazzieri e fraudolenti pescatori a lato della via del Sale, oltre il ponte sul Morbasco, delimitato dal muro della fornace oggi scomparsa, dove anche gli insegnamenti di una libertaria ininterrotta memoria tramandata ispirava e ulteriormente motivava le rischiose azioni di quei giorni contro il potere ed il fascismo. Poco prima del sovrapasso sul Morbasco dove la strada si restringeva, la spostata spalletta lasciava libero un piccolo spazio fra la vecchia casa della curtassa ed il fosso. In questo buio e defilato  triangolo  da sempre gorgogliava lo zampillo di una fontanella per quelli che avevano bisogno d'acqua. Si apriva qui l'ingresso dell'Osteria del Ponte poco dopo di quella di Bigiello che la precedeva di qualche metro, luoghi di incontri conviviali e di furtivi abboccamenti fra quanti, intenzionati a disertare l'arruolamento fascista, cercavano indicazioni per raggiungere le bande partigiane di montagna. Da qui passarono Maca, Kiro, Pineugia, Bucalètt che furono nella 17a brigata Garibaldi della val Susa. 

Dalla "Osteria del Ponte",  attraverso labirintici passaggi sfocianti nello spontaneo boschivo rivierasco del Morbasco o nel misterioso intricato susseguirsi di portici, barchesse e cortili della curtassa fino alla via Lungastretta, era possibile fuggire alla improvvisa irruzione fascista o al semplice apparire di una sconosciuta faccia che poteva essere di spia. Poi, oltre il rivolo e fino al Po,  erano i liberi campi di Dionigi e  dell'Isola Radaelli o, da questa parte,  quelli di Ghisleri  delimitati dall'argine Panizza  che portava al ciavègòon ed oltre.  In queste strade che s’incrociano dopo il ponte sul Morbasco, nella  via Boscone che i più vecchi ancora chiamavano della Polveriera  e nelle cascine che nel nome ricordano il primo isolato emergere di quelle  terre basse, i guardia-caccia, guardia-pesca ed agenti del dazio, propaggini estreme e vessatorie del regime e del potere, preferivano non farsi vedere. Alcuni di questi dopo il 25 aprile del 1945 cambiarono aria.  Si rividero sugli argini e alle lanche  più tardi, dopo l’amnistia  del 1946 quando il "vento del nord"  da poderoso parve ridursi a refolo.   

Qui da queste parti,  nella via Lungastretta  fino alle antiche mura di via Giordano e poi più giù al limite dell’argine maestro, nonostante il passare degli anni,  ancora era vivo il cordoglio per  il “fiòol de còo bìiàanch” che in queste strade tutti avevano conosciuto, per l’operaio “socialista Marchi” ed il cagliaritano che al poligono militare  di tiro fuori porta Po, alla “presenza della rappresentanza delle truppe del presidio schierate in quadrato” erano stati fucilati per essersi rifiutati di fare la guerra del 1915-18.     

Negli anni che vennero, di buon passo, dal Mento non mancavo di andarci con lei alla prima nevicata. Nell’ultimo tratto, poco prima della piarda,  la via alzaia era interrotta  da quando la piena del fiume aveva travolto la passerella, non più ricostruita, che a monte del suo sbocco in Po  aveva tenute unite  le due sponde del Morbasco.  Facevamo l’argine maestro, la traccia del sentiero dominava alta sopra la campagna dove la neve conservava  i segni del passaggio degli animali selvatici. Le due lanche della cascina Boscone apparivano piccole nella loro reale dimensione con i contorni non ampliati dalla rigogliosa vegetazione dell’estate, la poca acqua senza divario visivo dalla neve dei campi si confondeva con questa in una inglobante piatta uniformità. Da tempo le due lanche, quella alta e quella bassa, il breve condotto che  sotto  passando un ponticello le univa travasando l’acqua dell’una nell’altra non ci sono più, spariti sono il canale della bonifica ed il piccolo spazio sabbioso nel quale, adolescenti,  andavamo a stendere  i nostri corpi nudi al sole,  dell’intrico palustre delle erbe e del bosco è rimasta qualche pianta a lato della ripida stradina che, discendendo dall’argine, brevemente conduce ai campi. Oggi nessuno identificherebbe questi posti con quelli di un breve tempo passato.

La stanza nella casotta del Mento era bassa, caldissima, fumosa per le tante sigarette e la stufa a legna, ricca degli odori di  tabacco e vino rosso. Il verticale assito divisorio, la tenda messa a chiusura del vano per una porta che mancava, non impedivano il diffondersi del grasso odore della trippa in bollitura che vaporosamente trasbordava da una pentola posta sulla rovente piastra di ghisa della stufa, ed i diversi odori si fondevano con quello delle tante persone raccolte in piccolo spazio accomunando tutti. In tanti si davano da fare per farci posto sulla panca ed  al comune tavolone, ripulendolo con un gesto ampio della mano dalle briciole e dalle traboccature dei bicchieri, in un improvviso silenzio e  rumore di panche spostate. Lei li gratificava con un sorriso e il suo dire in vernacolo padano,    contaminato  dalla non persa cadenza meridionale, suscitava confidenziale benevola ilarità e divertiti  galanti commenti: non chiamatemi signora, diceva loro, ma con il mio nome!. Ci sedevamo in quello spazio per noi  liberato da ospitali persone per lo più sconosciute, ed i gesti sembravano rinnovare  il primitivo “mettersi attorno al fuoco” di genti passate. Mamì portava scodelle fumanti di trippa con fagioli insieme a misure di vino rosso "ed il solo pregustare quel cibo povero rendeva tutti più allegri e vocianti".    Il comune cestino di gaggìa contenente il  pane da spezzettare ed inzuppare nel brodo passava di mano in mano svuotandosi, allora si alzava il ripetuto imperativo grido: "Mamì…panee!! con la prolungata “e” finale a sottolineare l’urgenza da soddisfare. La trippa in brodo andava mangiata bollente e rigorosamente con il pane  del quale  non si poteva farne a meno; attorno a quel tavolone era opinione comune che fosse preferibile il pane senza trippa alla trippa senza pane!.    

Una piccolissima finestra quadrata guardava il fiume e, più lontane, le colline piacentine dove la  terra era stata sudario di partigiani  cremonesi. 

Il “Mento” aveva una storia vera nel “maquis”e, successivamente,nel “franc-tireurs et partisan”,  dalla Francia era tornato con la moglie "Mamì" e la “Légion d’honneur”, così raccontava lui ma questa ultima cosa, sempre presa con ilare diffidenza e pacche sulle spalle,  non fu mai accertata. 

"Mamì" era stata artista di varietà adesso, fra una mescita ed una scodella di trippa portata ai tavoli, si metteva al pianoforte  ad accompagnare il cantare corale e spontaneo dei suoi avventori.  Forte e potente nelle innumerevoli tonalità di una improbabile scala musicale, tra voci false e profondi bassi,  mimato  da  ampia gestualità e mutevoli  smorfie delle facce tese ad esprimere ed interpretare plasticamente le diverse emozioni che il testo del  canto infondeva nell’ animo dei cantori, il lento ritornello  “Volaa.. colomba bianca, vola!” riempiva tutto il volume di quella stanza. Era questa una canzone risultata vincitrice in uno dei tanti “Festival” che in quegli anni si andavano inventando.

In quei pomeriggi non mancavano mai  i due gemelli Toscani, fra gli ultimi popolari suonatori di fisarmonica ormai in procinto di essere soppiantata nel gusto dei giovani  dalla chitarra. In anni passati e solo per qualche mese fummo compagni alla Scuola Industriale “Ala Ponzone Cimino”.

Noi due tornavamo verso casa percorrendo la strada che attraversa il paese e la neve rifletteva già il rosso del sole che se ne andava.  Poi la via Bosco fino al Ciavèegòon ed alla via del Giordano dove i fanali stradali erano accesi. Qui la città ricominciava.

 

Nelle foto di Ezio Quiresi la barca del Mento a Bosco ex Parmigiano e Giuseppe Cavalli "Mento"

Ennio Serventi


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Italo

15 agosto 2023 19:03

Bellissimo racconto però non ho capito chi è l'autore.

Italo

15 agosto 2023 19:05

Scusate ho letto ora nel titolo Ennio Serventi comunque complimenti.

claudio

16 agosto 2023 16:59

...mi permetto umilmente e amichevolmente di consigliare il Signor Italo di leggere sempre "i ricordi" del Signor Serventi, "cantore di un mondo piccolo rionale cremonese", ora rimpianto e scomparso per sempre!!!!!!!!!!!

Cinzia

17 agosto 2023 19:42

Commovente...grazie!