Da Cremona al mare di Cesenatico. La liturgia della partenza, il padre a pesca e a parlar tedesco, i nonni in spiaggia e l’incanto del grattacielo visti da un bambino degli anni ‘60
Era un po’ il mio cruccio: quando tutti tornavano, noi partivamo e trovavamo le spiagge che si svuotavano sempre più. Con quattro figli, mio padre prendeva le ferie coi prezzi di fine stagione e così le vacanze al mare della nostra famiglia comprendevano l’ultima settimana di agosto e la prima di settembre. Il sopraggiungere del 6 settembre, giorno in cui festeggiavamo l’onomastico di mio padre Umberto, era segno che si era ormai agli sgoccioli della vacanza. Andavamo a Cesenatico con una 500 “Bianchina” che mio padre chiamava “Giardinetta” nonostante la denominazione ufficiale fosse “Giardiniera”; l’aveva comprata usata a Milano, città in cui lavorava, le portiere erano incernierate dietro ed il modello costituiva un lontanissimo progenitore della station wagon uscito dall’inedita collaborazione Fiat e Autobianchi, anche se all’epoca l’auto con la coda lunga e mozzata veniva detta “familiare”. L’Autosole era ancora in costruzione ed era percorribile fino a Parma, ma mio padre faceva affrontare a questo po’ po’ di auto tutti i 250 Km che ci separavano dl mare, sulla via Emilia, anche per alcuni anni dopo l’apertura dell’intera A1. Ricordo gli attraversamenti di Bologna con convulsi maneggiamenti della cartina della città.
I bagagli erano caricati in parte nel “generoso” spazio in coda dietro i sedili e un po’ sul portapacchi esterno. Quando si era a metà agosto, mio padre fatalmente saliva in soffitta a recuperare lo strategico ausilio e procedeva al suo fissaggio sul tettuccio della Giardinetta. La mattina della partenza c’era il sofferto caricamento dei bagagli. Disteso anzitutto sul portapacchi il telo anti pioggia (con funzione più scaramantica che protettiva) costituito da un plasticone che oggi farebbe tramortire ogni ecologista, seguiva l’accorta distribuzione e accatastamento di borse e valige secondo complessi criteri di staticità, di bilanciamento, di aerodinamicità e di sicurezza che nessun algoritmo sarebbe oggi in grado di restituire. Conclusa la fatica psicofisica, non restava che rivoltare il resto del telo sulla pigna di bagagli e fissare il tutto al telaio del portabagagli. Niente elastici, niente ragni, solo affidabili ausili di tecnologia avanzata dell’epoca. Nel senso che era proprio di avanzo: gli scarti delle fettucce delle tapparelle di casa che erano appunto avanzate a conclusione del loro allestimento. E da bravo scout, mio padre, come atto finale, si compiaceva nel fissare con nodi secondo manuale tutta la massa impacchettata: “Vèdet?, chésto chì èl mòla pö!”.
Ma tutta questa liturgia era preceduta dall’accompagnamento dei miei nonni in stazione FS che venivano al mare con noi, loro in treno e i loro bagagli con la Giardinetta. Mio nonno Giuseppe, detto però Ettore, era infatti ferroviere in pensione e insieme alla moglie Paolina aveva una forte riduzione dei biglietti, se non addirittura la gratuità. Ettore, del 1883, “conduttore capo di 1a Classe”, dalle Ferrovie venne messo a riposo nel 1932 per motivi politici perché rifiutò di tesserarsi al Partito Fascista. Nel 1948, in seguito ad una ricostruzione di carriera, venne promosso a “controllore viaggiante di 3a Classe”, ricevendo finalmente un significativo aumento della striminzita pensione con la quale aveva dovuto sostenere per anni una famiglia con tre figli. Dal canto suo, mia nonna Paolina aveva tenacemente integrato gli introiti familiari con la propria avveduta economia domestica costituita dall’allevamento delle galline, e la conseguente vendita di uova, e dall’allevamento dei bachi da seta. Sicchè entrambi avevano qualche ruggine personale per viaggiare volentieri a scrocco delle Ferrovie. Li accompagnava mia madre e, con la nascita dell’ultimo dei miei fratelli, la spedizione ferroviaria raggiunse il proprio culmine numerico.
Per una serie di anni andammo nelle pensioni – gli alberghi per la nostra famiglia giunsero alla portata anni e anni dopo – prese in gestione dalla signorina Argentina Rossi, non saprei se per conto della diocesi di Cremona o dell’Istituto Figlie di S. Angela Merici cui apparteneva. Nomen omen, davvero l’Argentina, fac totum della parrocchia di S. Michele, aveva addosso l’argèent vìif, quasi saltellava quando camminava ed affrontava con vitalità inesauribile tutto ciò di cui si occupava. Restammo per qualche estate in una pensione i cui proprietari abitavano in una semplice casetta sul retro dell’albergo; il loro figlio Dino aveva la mia età ed era un selvatico di prim’ordine, ogni poco ne combinava qualcuna, sicchè la madre per tenerlo sotto controllo e non farlo allontanare dalla “zona di sicurezza” lo chiamava frequentemente. Così ogni tanto s’alzava il suo potente grido di richiamo che riecheggiava investendo tutto l’albergo: Dinòòòòòò!, con la “o” ben aperta e ben protratta. Il padre di Dino era un pescatore, ogni giorno ad orario antelucano partiva con la barca e un po’ tutti noi bambini presenti in pensione, fatta colazione, correvamo a casa di Dino per vedere, tra sguardi di curiosità e smorfie di ribrezzo, i vari tipi di pesce caduti nelle reti. Nonostante soffrisse il mal di mare, mio padre, troppo incuriosito dalla tecnica di pesca con la rete, dopo giorni di titubanza impiegati ad autoconvincersi della leggerezza del proprio handicap, si lanciò in un accordo col papà di Dino e una notte si alzò per partecipare ad una battuta di pesca. Oltre a cavarsi la voglia, cavò l’anima in mare, completò l’opera in albergo e a pranzo si presentò “più bello e più glorioso che pria” davanti ad una scodellina di umiliante brodino. Solo nel pomeriggio iniziò a raccontare.
Con le spiagge invase già allora da tedeschi, a mio padre ogni tanto piaceva agganciare qualcuno di loro. E c’era un motivo. Avendo trascorso durante la guerra un periodo in Germania, si dilettava a rispolverare lessico e costrutti maccheronici là appresi per allacciare dialoghi con qualche “crucco” – sua immancabile attribuzione – vicino di ombrellone. Un anno si accorse che la mamma di Renate, una bambina tedesca che era solita venire a giocare con noi, aveva una gamba profondamente segnata da cicatrici da ustione. Era sopravissuta al bombardamento di Dresda di metà febbraio ’45 dove inglesi e americani lanciarono anche bombe incendiarie; fu un’intenzionale restituzione del tremendo bombardamento tedesco di Coventry del novembre 1940. Così col suo tedesco mio padre raccontò alla signora che in quello stesso periodo venne fortunatamente spostato da Berlino (dove comunque si beccò il bombardamento del 3 febbraio ‘45, uno dei più pesanti dell’intera guerra) proprio nella zona di Dresda, a est verso il confine con Polonia e Cecoslovacchia. Fu proprio da lì che poi, a marzo, diede inizio al suo lungo ritorno a casa. Che io ricordi, quella fu la prima volta che venni a conoscenza della sua partecipazione alla guerra e che ne sentii raccontare episodi. E ricordo anche le domande di contorno che subito scaturirono: avevi il fucile?, hai sparato? La risposta fu per noi deludente perché mio padre sparò tre soli colpi in addestramento, dopo di che tenne sempre in mano pinze, cavi elettrici e quant’altro lo connotasse come telebauer, l’inquadramento assegnatogli dai tedeschi per indicare l’installatore nel campo delle telecomunicazioni.
I miei nonni si fermavano per poco tempo in spiaggia, in ragione del caldo, ed arrivavano in abbigliamento piuttosto insolito. Il nonno Ettore era in normali pantaloni lunghi e camicia, non necessariamente a maniche corte, non disdegnando a volte un gilet senza maniche; si piazzava seduto sotto l’ombrellone con l’inseparabile pipa in bocca ad infestare l’area circostante con la pestifera mistura di suo brevetto fatta di toscano sbriciolato e tabacco “Trinciato forte”. Del mare non si occupava minimamente, impegnato com’era nel leggere il giornale da sotto un cappello in paglia di bella fattura che teneva in testa malgrado fosse immutabilmente all’ombra. Inoltre indossava costantemente un paio di occhiali da sole da far invidia a un saldatore: larghissimi, scurissimi e per di più dotati di alette protettive laterali. La ragione che ho sempre sentito dire di questa sua ipersensibilità alla luce, che manteneva anche a casa, stava in una operazione di cataratta che aveva subito ad entrambi gli occhi. Mentre mia nonna Paolina, più giovane del marito di tre anni, veniva in spiaggia in abituale dress code da cuciniera: scusàal chiaro, in tela leggera, tasche ben rigonfie di ogni cosa, era come se fosse pronta a mèter sö na pügnàta da un momento all’altro. Lei però non era così sedentaria come mio nonno, si recava sul bagnasciuga, raccoglieva il grembiule di poco sopra le ginocchia e si bagnava anche per dovere, perché “pütéi, l’acqua del màar la fa sèemper bèen!”.
Quasi a partecipare di tutto ciò, si ergeva l’emozionante grattacielo di Cesenatico, icona della galoppante modernità che incombeva poco distante dal nostro ombrellone su chilometri di piatta riviera. Per me, abitante di un misero secondo piano, costituiva non solo motivo di stupore continuo per l’impensabile altezza, ma anche fonte di invidia verso chi vi abitava agli ultimi piani. Li contavo incredulo, tutti quei piani che mutavano di numero ad ogni faticoso computo, arrivavo sempre attorno al 30; ogni anno si aggiungeva ad aiutarmi un fratello che aveva imparato a contare, il che contribuiva a mantenere ancor più indeterminato il risultato. Ma un anno la signorina Argentina trovò una nuova pensione altrove e la nostra famiglia non tornò più a Cesenatico. Ce ne eravamo andati definitivamente senza che sapessi di quanti piani avesse osato alzarsi ciò che mi aveva lasciato a lungo stupito col naso all’insù.
Nelle foto: Ernestina Pedretti con i quattro figli, in rigoroso ordine di nascita, a Cesenatico a fine agosto 1962; l’Autobianchi Fiat 500 Giardiniera, detta “Giardinetta” o “Bianchina”, di Umberto Cariani
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commenti
Palma
25 agosto 2024 13:46
Complimenti Maurizio!
Se hai questi ironici ricordi così nitidi e piacevoli penso di poterti dire:
"Sei il gran collega, prof, amico che sei...
grazie anche ai tuoi splendidi ed utili ricordi di vita vissuta, apprezzata, accettata e ricambiata. Un affettuosissimo abbraccio.
Giancarlo
28 agosto 2024 06:20
Grazie Maurizio, tutti i tuoi racconti sono un ricordo di vita cremonese della nostra infanzia.
Spero che prima a poi tu li raccolga in un libro.
Silvano Gambi
28 agosto 2024 17:48
Complimenti per il bellissimo ricordo delle tue vacanze a Cesenatico. Sono del 45 e ho cominciato a frequentare Cesenatico nel 48 perché i miei genitori avevano una attività estiva. Giravo con il biciclino lrosso in mezzo a Viale Carducci il giorno di ferragosto. Prova adesso. Ho visto nascere il grattacielo nel 55 e andavo a seguire i lavori come un umarel. Bellissimi ricordi che posso condividere se può interessarti. I migliori saluti.