Quelle estati sullo spiaggione del Po
Quel che cercavo lo trovai lontano dalla città, oltre il posto dove nei tempi andati, a richiesta di viandanti, un traghetto univa le due sponde. Di quel tempo, di quando di buon ora una chiatta traghettava dall'altra sponda il buon bianco pane parmigiano, era rimasto un disertato baracchino. Dal baracchino la strada alzaia, incastrata tra il Po e il primo basso terrapieno di golena, portava diritta fino allo slargo. Piegando a sinistra cingeva il bosco chiamato Ronchetti, abbandonava il ciglio del fiume,si allungava in un ampio semicerchio a cingere il bordo della grossa lanca formatasi dopo la costruzione della massicciata .
Fortemente arpionato alla riva e al fondo dell'alveo il pennello cominciava allo spiazzo da dove la via alzaia prendeva ad andare da un'altra parte. In quell'area larga, abbandonati da decenni, già c'erano quando passai per la prima volta da quelle parti ed ancora c'erano quando smisi di frequentare quei luoghi, eterni giacevano intaccati dalla ruggine giganteschi e deturpanti i resti ferrosi di un dismesso impianto di estrazione. Finita la redditività di quell'impianto tutto era stato abbandonato.
Nello sperduto Champas, in anni lontani, tre disperati gratificati dalla terra come lo furono dal fiume i nostri cavatori d'inerti, ebbero per questa una più rispettosa riconoscenza:
“ Dobbs, feritosi ad una mano mentre lavorava, urlò con rabbia: maledizione! Ma perchè dobbiamo fare tutto questo lavoro da negri? Dimmelo vecchio!”
“A me pare, rispose Horwald ,che si debba essere grati alla montagna di averci compensati così lautamente. Noi abbiamo ferito la montagna: è dunque nostro dovere farne rimarginare le ferite. La silenziosa bellezza di questi luoghi merita il nostro rispetto”. “Non riuscirei a dormire se pensassi di averlo lasciato come un deposito di rottami”. . E se voi due non volete aiutarmi , farò tutto da solo, ma lo farò”..
Da quella superficie ingombra di rifiuti ferrosi il pennello si inoltrava per un lungo tratto nel letto del fiume, ne intercettava e deviava il flusso, lo scorrere dell'acqua si faceva più rapido e forte. Grossi sassi di montagna, in origine ordinatamente accostati gli uni agli altri ma ormai smossi dal tempo passato e da innumerevoli sommersioni, ne costituivano l'accidentato piano di calpestio. Un fitto intrico di arbusti fluviali, cresciuti a dismisura negli interstizi fra un sassone e l'altro, ostacolavano il cammino facendo lento il duro procedere. In questa giungla padana il ricordo andava al fido Tremal-Naik e al prode Kammamuri, immaginari eroi incontrati in letture giovanili. Non la traccia di un sentiero da seguire che facilitasse il cammino, se non nell'ultimo tratto, inspiegabilmente spoglio di vegetazione arbustiva.. Ma alla fine di quel non agevole percorso c'era quel che cercavo. Dall'alto del pennello dominavo lo sprofondato fiume che correva verso valle. Davanti a me si stendeva il grande deserto dello spiaggione. Poco più a lato, isolato nella bassura che lo conteneva, lo specchio d'acqua della lanca che un sottile ampio istmo separava dal Po. Sull'altra riva, in sponda parmigiana, il luogo di attracco e di partenza dei barconi della ghiaia.
Per anni ho frequentato quel posto al termine del deviatore fluviale, senza perdere mai un giorno di quelle pensionate estati che andavano da maggio a settembre inoltrato. Vi giungevo che l'aria ancora risentiva della frescura notturna, il sole basso faceva lunghe le ombre degli alberi cresciuti sulla riva antica, capovolti si rispecchiavano nella acqua brumosa della lanca che svaporava il tepore residuo di passate insolazioni. Svuotavo lo zainetto, sul piano di un gradone di cemento che sembrava messo li volutamente alla giusta altezza per farmi da tavolo, come tovaglia stendevo quel che era restato di un lenzuolo di flanella non più adatto per il letto, vi sistemavo le cose che mi ero portate da casa: la bottiglia con l'acqua da bere, due mele, il giornale quotidiano del partito, un libro, un coltello, l'olio di noce e forse qualche altra cosa. Dal cespuglioso nascondiglio che l'aveva custodito, estraevo l'ombrello grande per l'ombra,con un pezzo di tubo e del fil ferro, portati da casa, avevo messo in opera un saldo porta-ombrello dove sia l'inserimento che l'estrazione del sostegno del parasole erano manovre facili da fare e da ripetere.
Qui, alla punta estrema del manufatto sommergibile dove oltre non c'era che l'immensa non calpestata rena, non era facile arrivarci e nessuno ci veniva. Fu una sorpresa scoprire che quel posto, dove io mi ero sistemato, fosse sulla abituale rotta fluviale dei barconi che trasportavano gli inerti estratti da una cava lontana. Improvviso, come fossero investiti da un vento che non c'era, il frusciare di rami smossi mi annunciò l'arrivo del primo dei barconi. Stracolmo,con al centro il grande cuneiforme cumulo di sabbia, comparve improvviso all'uscita di una specie di tunnel vegetale, scuotendo e scompigliando i rami penduli che dalla artificiale riva si protendevano ben oltre il ciglio dell'acqua, curvi fino ad intingersi. Al suo sfilare davanti a me, salutai con il cenno del braccio i tre uomini dell'equipaggio. Nel loro atteggiamento mi parve di cogliere un tratto di interrogante diffidente sorpresa. Poi, per la lunga mia frequentazione del posto e la consuetudine di quei passaggi, il rapporto divenne amichevole. Per riguadagnarsi l'attracco nella sponda opposta, il barcone scendeva adagio lungo il margine del pennello dove la spinta della corrente era forte e l'acqua più profonda. Lo sciacquio, il lento battito del motore non disturbavano la quiete di quel luogo fra la lanca ed il fiume dove tutto taceva. Sfilava davanti a me sull'acqua dove, in basso, lambiva il margine inferiore della massicciata, io lo guardavo dall'alto. Scendeva per un breve tratto, lasciandosi spingere verso il centro del fiume dalla corrente più forte, o, men forte ma certamente rinvigorita dal restringimento dell'alveo e dalla giusta angolazione del manufatto sassoso . Ora questa impattava il naviglio al bagnasciuga, la particolare inclinazione del naviglio faceva si che, in un delicato gioco di spinte e contro spinte, il natante arrivasse al dirimpettaio approdo senza l'ausilio del motore. Alti su quella riva si intrecciavano metallici tralicci, funi, nastri mobili strumenti che che servivano per trasportare, dal sottostante barcone, gli inerti da scaricare e cavati in un luogo che a me rimase sempre sconosciuto. Alla fine di quel aereo trasporto, lasciati liberamente cadere si accumulavano a terra in gigantesche conoidi. A lungo andare anche quelle strutture ferrose, avulse dal panorama circostante, finirono per essermi familiari. Ad intervalli regolari passavano i barconi che trasportavano la ghiaia ed il tempo, tra un passaggio e l'altro, lo misuravo con la rudimentale meridiana disegnata sulla sabbia. Non che mi mancasse l'orologio.
Puntuale, al sovrapporsi delle ombre proiettate dai bastoncini, nello stesso posto lontano dove il fiume pareva arrivare da sinistra, spuntava un barcone Ne vedevo solo l'erta struttura che ospitava la cabina del pilota. Dipinta di bianco, la torretta risaltava alta sullo sfondo scuro di una cortina d' alberi che chiudeva l'orizzonte ed il fluire della non vista imbarcazione lo si poteva solo immaginare. Poi l'atteso natante, ormai senza sorpresa, compariva a qualche metro di distanza da dove avevo sistemato le mie cose e con gli uomini dell'equipaggio, nel breve tempo di quel transito, prese ad instaurarsi ed a ripetersi un succinto dialogo: il livello dell'acqua che si abbassava sempre di più mettendo a rischio la navigazione, il sole che bruciava, la limpidezza del cielo e la insolita frescura dell'aria dopo il temporale notturno. Sono assolutamente certo che per loro, per quegli uomini del fiume usi a cogliere con rapido sguardo ogni mutamento del greto e delle rive, il biancore della mia flanella costituisse un punto di riferimento. Quelli di Boretto quotidianamente piantavano paletti nel letto fluviale ad indicare il più o meno prossimo emergere di sabbie nuove. Le losanghe dipinte di rosso e bianco issate sui pali delle rive ad indicare ai naviganti di mettersi a destra o a sinistra,mi facevano pensare alla esposizione delle teste dei briganti in luoghi conquistati dai piemontesi. In quel punto del fiume, dove il natante cominciava la manovra di avvicinamento all'altra riva, anche la mia flanella bianca mandava a quegli uomini un messaggio: gli indicava che per quel giorno il presidio umano su quella punta estrema non sarebbe mancato. Una specie di avamposto su di un deserto. Se al passaggio trovavano la flanella ed il posto sguarnito di presenza umana non mancavano di inviarmi, con tre brevi sonori colpi del potente clacson il loro saluto ovunque io fossi. Dal profondo dello spiaggione, ricambiavo il buon giorno agitando, alto, il cappello.
La grande spiaggia era totalmente priva di alberi se non nell'inizio dove un rilievo della sabbia faceva, da quel lato, da barriera all'espandersi dell'acqua della lanca. Oltre questo, nelle stagioni siccitose quando il livello del fiume si impoveriva rapidamente, prima che l'emergere di un leggero istmo ne chiudesse definitivamente lo sbocco a Po, un sempre più rinsecchito zigzagante rigagnolo riversava l'acqua della lanca nel fiume. Nei restanti giorni dell'anno, sommersa la divisoria bassa striscia di sabbia, da quella ristabilita apertura liberamente fluiva o defluiva in un senso o nell'altro, assecondando i capricci altimetrici del fiume. Con cappello, zoccoli e un bastone per l'appoggio guadato il rivolo cominciavo quel girovagare per la spiaggia arrivando, ogni giorno, in un punto più lontano senza mai giungerne alla fine.
Mi allontanavo dal posto dove avevo sistemato la mia roba: sulla estremità alta del pennello la macchia bianca della flanella riluceva sempre in pieno sole, ininterrottamente visibile anche da lontano. Quello era l'unico punto, una specie di porta di accesso alla spiaggia dalla quale avrebbero potuto giungere altri come me, ricercatori o no di un libero indisturbato luogo. Ogni tanto vi rivolgevo lo sguardo senza scorgervi mai presenza alcuna.
Gironzolavo in quella voluta solitudine cercando fra i residui depositati dal ritirarsi del fiume: un vecchio tronco in avanzata fase di carbonizzazione semi sommerso dalla sabbia, la ricerca di inesistenti pesci in una pozza d'acqua stagnante intrappolata in una bassura dell'arenile, pezzi di legno dalle forme strane che richiamavano teste d'animali ed altre inutili cose simili. Una sempre uguale sterile ricerca di cose futili: non trovai mai qualcosa che valesse la pena di essere portato a casa. Non mi abbandonò mai la illusione antica di trovare l'oro pur sapendo che non c'era, che non ci poteva essere: il torrente Anzasca era lontano e quel poco che le ex miniere di Pestarena ancora rilasciavano, accuratamente drenato e setacciato lungo il Ticino da ricercatori dopolavoristi, non giungeva fino a noi . Ma presso la riva del nostro fiume, nei posti dove piccoli vortici d'acqua mettevano a nudo depurate e levigate ghiaie, sopraffatto dalla illusione di trovarvi una pepita, non mancavo di cercare fra quei sassi.
Sulla striscia di sabbia più prossima allo scorrere dell'acqua, dove questa aveva lasciato la sua umida impronta, infinite scaglie di mica percosse dal sole luccicavano :
“ Se una cosa luccica deve essere oro” pensavano Dobbs e Curtin mentre si arrampicavano sui sentieri della Sierra Madre. In quel loro andare quasi ogni giorno s'imbattevano in tratti di sentiero coperti da una sabbia giallastra e luccicante. La bagnavano con l'acqua delle borracce per meglio farne risaltare lo scintillio. Horwad non li derideva per quel loro scambiare il brillio del sentiero con quello dell'oro. Diceva soltanto: “ve lo dirò io quando dovete raccogliere. Un carro colmo di questa cosa non servirebbe a pagarvi un pranzo, non vale la pena che sprechiate l'acqua”. Il vecchio Horward conosceva bene l'oro.“Ogni volta che si fermava e tirava fuori dal suo bagaglio la padella per lavare un po' terra sudicia in un ruscello, i due compari sapevano che egli aveva trovato qualche cosa”.
Qui, lungo il fiume, nessuno cercava , nessuno trovò mai qualche cosa e l'esortazione di Horward pareva diretta solamente a me.
La foto è di Sandro Talamazzini (anni Cinquanta): un barcone per l'escavazione della ghiaia sul Po
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