10 agosto 2024

Quelle estati sullo spiaggione del Po

  Quel che cercavo lo trovai lontano dalla città, oltre il posto dove nei tempi andati, a richiesta di viandanti, un traghetto univa le due sponde. Di quel tempo, di quando di buon ora una chiatta traghettava dall'altra sponda il buon bianco pane parmigiano, era rimasto un disertato baracchino. Dal baracchino la strada alzaia, incastrata tra il Po e il primo basso  terrapieno di golena, portava diritta fino allo slargo.  Piegando a sinistra cingeva il bosco chiamato Ronchetti,  abbandonava il ciglio del fiume,si allungava in un ampio semicerchio a cingere il bordo della  grossa lanca  formatasi  dopo la costruzione della massicciata .  

     Fortemente arpionato alla riva e al fondo dell'alveo il pennello cominciava allo spiazzo da dove la via alzaia prendeva ad andare da un'altra parte. In quell'area larga,  abbandonati da decenni, già c'erano quando passai per la prima volta da quelle parti  ed ancora c'erano quando smisi di frequentare quei luoghi,  eterni giacevano  intaccati dalla ruggine giganteschi e deturpanti  i resti ferrosi di un dismesso impianto di estrazione. Finita la redditività di quell'impianto tutto era stato abbandonato.

    Nello sperduto Champas, in anni lontani, tre disperati  gratificati  dalla terra come lo  furono dal fiume i nostri cavatori d'inerti,  ebbero per questa una più rispettosa riconoscenza:

   “ Dobbs, feritosi ad una mano mentre lavorava, urlò con rabbia: maledizione! Ma perchè dobbiamo fare tutto questo lavoro da negri? Dimmelo vecchio!”  

  “A me pare, rispose Horwald ,che si debba essere grati alla montagna  di averci compensati così lautamente.  Noi abbiamo ferito la montagna: è dunque nostro dovere farne rimarginare le ferite. La silenziosa bellezza di questi luoghi merita il nostro rispetto”. “Non riuscirei a dormire se pensassi di averlo lasciato come un deposito di rottami”. . E se voi due non volete aiutarmi , farò tutto da solo, ma lo farò”.. 

    Da quella superficie ingombra di rifiuti ferrosi  il pennello  si inoltrava per un lungo tratto nel letto del fiume, ne intercettava e deviava il flusso,  lo  scorrere  dell'acqua si faceva più rapido e forte. Grossi sassi di montagna, in origine ordinatamente accostati gli uni agli altri ma ormai smossi dal tempo passato e da innumerevoli sommersioni, ne costituivano l'accidentato piano di calpestio. Un fitto intrico di   arbusti   fluviali, cresciuti a dismisura negli interstizi fra un sassone e l'altro,  ostacolavano il cammino facendo lento il duro procedere. In questa giungla padana il ricordo andava al fido Tremal-Naik e al  prode Kammamuri, immaginari eroi  incontrati in letture giovanili.   Non la traccia di un sentiero da seguire che facilitasse il cammino, se non nell'ultimo tratto,  inspiegabilmente  spoglio di  vegetazione arbustiva..  Ma alla fine di quel non agevole percorso c'era quel che cercavo. Dall'alto del pennello dominavo lo    sprofondato  fiume che correva verso valle. Davanti  a me si stendeva  il grande deserto dello spiaggione.  Poco più a lato,   isolato  nella bassura che lo conteneva, lo specchio d'acqua della lanca che un sottile ampio istmo separava dal Po.  Sull'altra riva,  in sponda parmigiana, il luogo di attracco e di partenza dei barconi della ghiaia. 

     Per anni ho frequentato quel posto al termine del deviatore fluviale, senza perdere mai un giorno di quelle pensionate estati che andavano da maggio a settembre inoltrato. Vi giungevo che l'aria ancora risentiva della frescura notturna, il sole   basso faceva lunghe  le ombre  degli alberi cresciuti sulla riva  antica, capovolti si rispecchiavano nella acqua  brumosa della lanca che  svaporava il tepore residuo di passate insolazioni. Svuotavo lo zainetto,  sul  piano di un gradone di cemento che sembrava messo li volutamente alla giusta altezza  per farmi da tavolo, come tovaglia stendevo  quel che era restato di un lenzuolo di flanella non più adatto per il letto, vi sistemavo le  cose che mi ero portate da casa: la bottiglia con l'acqua da bere, due mele, il giornale quotidiano del partito, un libro, un coltello, l'olio di noce e forse qualche altra cosa. Dal cespuglioso nascondiglio che l'aveva custodito, estraevo l'ombrello grande per l'ombra,con un pezzo di tubo e del fil  ferro, portati da casa,  avevo messo in opera un saldo porta-ombrello dove sia l'inserimento che l'estrazione del sostegno del parasole erano manovre facili da fare e da ripetere. 

       Qui, alla punta estrema del manufatto sommergibile dove oltre non  c'era  che l'immensa non calpestata rena, non era facile arrivarci e nessuno ci veniva. Fu una  sorpresa scoprire  che quel posto, dove io mi ero sistemato, fosse sulla abituale rotta fluviale dei barconi  che trasportavano gli inerti estratti da una cava lontana.  Improvviso, come fossero investiti da un vento che non c'era,  il frusciare di rami smossi mi annunciò l'arrivo del primo dei  barconi. Stracolmo,con al centro il grande cuneiforme cumulo  di sabbia, comparve improvviso all'uscita di una specie di tunnel vegetale, scuotendo e scompigliando i rami penduli che dalla artificiale riva  si protendevano ben oltre  il ciglio dell'acqua,  curvi fino ad intingersi. Al suo sfilare  davanti a me,  salutai con il cenno del  braccio  i tre uomini dell'equipaggio. Nel loro atteggiamento mi parve di cogliere un tratto di interrogante diffidente sorpresa. Poi, per la lunga mia frequentazione del posto e la consuetudine di quei passaggi, il rapporto divenne amichevole. Per riguadagnarsi l'attracco nella sponda opposta, il barcone scendeva adagio lungo il margine del pennello dove la spinta della corrente era  forte e l'acqua più  profonda. Lo sciacquio,  il lento battito del motore non disturbavano la quiete di quel luogo fra la lanca ed il fiume dove tutto taceva. Sfilava davanti a me sull'acqua dove, in basso, lambiva il margine inferiore della massicciata, io lo guardavo dall'alto. Scendeva per un breve tratto,  lasciandosi spingere verso il centro del fiume dalla corrente più forte, o, men forte ma certamente rinvigorita dal restringimento dell'alveo e dalla  giusta angolazione del manufatto sassoso . Ora  questa impattava il naviglio al bagnasciuga,  la particolare inclinazione del naviglio  faceva si che, in un delicato gioco di spinte e contro spinte, il natante arrivasse al dirimpettaio approdo senza l'ausilio del motore.  Alti su quella riva si intrecciavano metallici tralicci, funi, nastri mobili strumenti che  che servivano per trasportare, dal sottostante barcone, gli inerti da scaricare e cavati in un luogo che a me rimase sempre sconosciuto. Alla fine di quel aereo trasporto, lasciati liberamente  cadere  si accumulavano a terra in gigantesche conoidi. A lungo andare anche quelle strutture ferrose,  avulse dal panorama circostante, finirono per essermi familiari. Ad intervalli regolari passavano  i barconi che trasportavano la ghiaia  ed il tempo, tra un passaggio e l'altro, lo misuravo con la rudimentale  meridiana  disegnata sulla sabbia. Non che mi mancasse l'orologio. 

Puntuale, al  sovrapporsi delle  ombre proiettate dai bastoncini, nello stesso posto lontano dove il fiume pareva arrivare da sinistra, spuntava un barcone   Ne vedevo solo l'erta struttura  che ospitava la cabina del pilota.  Dipinta di bianco, la torretta risaltava  alta sullo sfondo scuro di una cortina d' alberi che chiudeva l'orizzonte ed il fluire della non vista imbarcazione lo si poteva solo immaginare. Poi l'atteso natante, ormai senza sorpresa, compariva a qualche metro di distanza da dove avevo sistemato le mie cose e con gli uomini dell'equipaggio, nel breve tempo di quel transito, prese ad  instaurarsi ed a ripetersi un succinto dialogo: il livello dell'acqua che si abbassava sempre di più mettendo a rischio la navigazione, il sole che bruciava, la limpidezza del cielo e la insolita frescura dell'aria dopo il temporale notturno. Sono assolutamente certo che per loro, per quegli uomini del fiume usi a cogliere con rapido sguardo ogni mutamento del greto e delle rive, il biancore della mia flanella costituisse un punto di riferimento. Quelli di Boretto quotidianamente piantavano paletti nel letto fluviale ad indicare il più o meno prossimo emergere di sabbie nuove.  Le losanghe  dipinte di rosso e bianco issate sui  pali delle  rive ad indicare ai naviganti di mettersi a destra o a sinistra,mi facevano pensare alla esposizione delle teste dei briganti in luoghi conquistati dai piemontesi.   In quel punto del fiume, dove il natante cominciava la manovra di avvicinamento all'altra riva, anche la mia flanella bianca mandava a quegli uomini un messaggio: gli indicava  che  per quel giorno il presidio umano su quella punta estrema non sarebbe mancato.  Una specie di avamposto su di un  deserto.  Se al passaggio trovavano  la flanella ed  il posto sguarnito di presenza umana non mancavano di inviarmi, con tre brevi sonori colpi del potente clacson il loro saluto ovunque io fossi. Dal profondo dello spiaggione, ricambiavo il buon giorno agitando, alto, il cappello. 

    La grande spiaggia era totalmente priva di alberi se non nell'inizio dove un    rilievo della sabbia  faceva, da quel lato, da barriera all'espandersi dell'acqua della lanca.  Oltre questo, nelle stagioni  siccitose  quando il livello  del  fiume  si impoveriva rapidamente, prima che l'emergere di un leggero istmo ne chiudesse definitivamente lo sbocco a Po,  un sempre più rinsecchito zigzagante rigagnolo riversava l'acqua della lanca nel fiume.   Nei restanti giorni dell'anno, sommersa la divisoria bassa striscia di sabbia, da quella ristabilita apertura   liberamente fluiva o defluiva   in un senso o nell'altro, assecondando i capricci altimetrici del fiume.   Con cappello, zoccoli e un bastone per l'appoggio guadato il rivolo  cominciavo quel girovagare per la spiaggia  arrivando, ogni giorno, in un punto più lontano senza mai giungerne alla fine.

    Mi allontanavo dal posto dove avevo sistemato la mia roba:  sulla estremità alta del pennello la macchia bianca della  flanella  riluceva sempre in  pieno sole, ininterrottamente visibile  anche da lontano.  Quello era  l'unico punto, una specie di porta di accesso alla spiaggia dalla quale avrebbero potuto giungere  altri come me, ricercatori o no di un libero indisturbato luogo. Ogni tanto vi rivolgevo lo sguardo senza  scorgervi mai  presenza alcuna. 

    Gironzolavo in quella voluta solitudine  cercando fra i residui depositati dal ritirarsi del fiume: un vecchio tronco in avanzata fase di carbonizzazione semi sommerso dalla sabbia, la ricerca di inesistenti pesci in una pozza d'acqua stagnante intrappolata in una bassura dell'arenile, pezzi di legno dalle forme strane che richiamavano  teste d'animali ed altre inutili cose simili.   Una sempre  uguale sterile ricerca di cose futili: non trovai mai qualcosa che valesse la pena di essere portato a casa.  Non mi abbandonò mai la illusione antica di trovare l'oro pur sapendo che non c'era, che non ci poteva essere: il torrente Anzasca era lontano e quel poco che le ex miniere di Pestarena  ancora rilasciavano, accuratamente drenato e setacciato lungo il Ticino da ricercatori dopolavoristi, non giungeva fino a noi . Ma presso la riva del nostro fiume, nei posti dove  piccoli vortici d'acqua mettevano a nudo depurate e  levigate ghiaie, sopraffatto dalla illusione di trovarvi una pepita, non mancavo di cercare fra quei sassi.

    Sulla striscia di sabbia più prossima allo scorrere dell'acqua, dove questa aveva lasciato la sua umida impronta, infinite scaglie di mica percosse dal sole luccicavano : 

  “ Se una cosa luccica deve essere oro” pensavano Dobbs e Curtin mentre si arrampicavano sui sentieri della  Sierra  Madre. In quel loro andare quasi ogni giorno s'imbattevano in tratti di sentiero coperti da una sabbia giallastra e luccicante. La bagnavano con l'acqua delle borracce  per meglio farne risaltare lo scintillio.   Horwad non li derideva per quel loro scambiare  il  brillio del sentiero con  quello dell'oro.  Diceva soltanto: “ve lo dirò io quando dovete raccogliere. Un carro colmo di questa cosa non servirebbe a pagarvi un pranzo, non vale la pena che sprechiate l'acqua”. Il vecchio Horward conosceva bene l'oro.“Ogni volta che si fermava e tirava fuori dal suo bagaglio la padella per lavare un po' terra sudicia in un ruscello, i due compari sapevano che egli aveva trovato qualche cosa”.  

Qui, lungo il fiume, nessuno cercava , nessuno trovò mai qualche cosa e l'esortazione di Horward pareva diretta  solamente a me.

La foto è di Sandro Talamazzini (anni Cinquanta): un barcone per l'escavazione della ghiaia sul Po

Ennio Serventi


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti