18 aprile 2024

Bandera "el ghèra". Storie di emarginati di fine anni quaranta tra piazza Duomo e mercato

Bandera “el ghèra”. Non so da dove sia sorto questo, da anni ormai in disuso,  vecchio detto cremonese, né il significato originario in esso contenuto. Presumo che stesse ad indicare un tempo remoto ormai trapassato o una cosa che c'era e che ora non esiste più. 

In quegli anni, dal 1947  a poco oltre, per conoscenza diretta, uno che si chiamava Bandera c'era. Nel camminare  più che zoppicare trascinava i piedi, malandato lo trovavi di giorno seduto sui gradini prospicienti la piazza o, guadagnato il colonnato, sotto il portico  della Bertazzola del Duomo. Portava un cappello che poteva essere stato, in un tempo passato,  abbondantemente piumato. Probabilmente per questo lo chiamavano “bersàaglièer", una specialità della fanteria  dell'esercito italiano nella quale, forse, aveva prestato il servizio militare . Le piume erano state potate e in parte portate via dai venti ma il nomignolo resisteva alle intemperie del tempo che passava. Bandera  trascorreva le sue giornate sotto quel colonnato e, nella stagione mite, anche le notti. Quando  queste incrudivano bussava alla porta dell'Albergo Broggi e Simoni di via Cadore all'angolo con via Flores, il dormitorio pubblico dell'Ente Comunale di Assistenza che ospitava derelitti sociali e quelli che non avevano  casa. In alternativa non disdegnava stendersi sulle grate ferrate messe a protezione  delle caditoie disposte a raso terra che, una si e una no, si alternavano alle grandi e rettangolari colonne che sostengono il palazzo comunale. Sotto il lastrico semi cortilivo, nel sotto suolo della sede comunale, funzionava un albergo diurno con docce e bagni e altre cose attinenti alla cura della persona , come non di rado si trovava nelle stazioni ferroviarie delle grandi città. Quando il “diurno” venne chiuso parte dei servizi prestati, ma non le docce ed i bagni che furono traslocati in una palazzina appositamente costruita in viale Trento Trieste  d'angolo con via Cantarane, vennero trasferiti al lato opposto del porticato comunale dove si trovano tuttora.  Il “diurno” sotterraneo era molto frequentato, i diffusi bagni domestici  arrivarono anni dopo. Vi si accedeva scendendo una scaletta dopo avere superato un piccolo ingresso a tutto sesto, sbarrato di notte da una robusta porticina.  I locali erano  angusti. Vapori, odori ed aria eccessivamente calda, sicuramente non olezzanti, venivano evacuati in alto attraverso  le caditoie che fungevano anche da sfiatatoi.  Sopra quelle grate  ferrose che le proteggevano, Bandera ed altri diseredati, si stendevano per riscaldarsi nelle notti invernali. Il ricorrere  ai servizi dell'albergo Broggi e Simoni comportava adeguarsi a certe regole comportamentali che i potenziali ospiti spesso non gradivano, preferendo alla claustrale  disciplina il libero riveder le stelle, avvolti dagli effluvi caldi, ma non certo fragranti, di quei soffioni. Bandera viveva di quel che i commercianti di Largo Boccaccino e del tratto confluente di via Solferino gli offrivano,  faceva per loro piccoli servigi. Prendeva il pasto di mezzo giorno,  forse anche  qualche cosa per la sera, alle “cucine benefiche” della Società san Vincenzo De' Paoli, allocate in un'ala del palazzo vescovile, quella che contorna un tratto di via Platina dirimpettaia dell'imbocco di via Bonomelli, già Prato del Vescovo.

L'oste dell'osteria “ai tre RE” in via J. Torriani, un uomo imponente, elegante nel portamento e scic nel vestimento, sempre in maniche di camicia abbottonate ai polsi ed il gilet confezionato con la della stessa stoffa dei pantaloni,  lo chiamava per  piccoli aiuti nei lavori di cantina. Nelle vie viciniore il bersaglièer lo s'incontrava al  traino di un carrettino,  intento a fare piccole consegne e mini trasporti per conto dei bottegai della zona. Per la tabaccaia, che era poi la sorella della signora Giuseppina moglie del fornaio dal quale io lavoravo,  andava a prendere il sale ed i tabacchi al sito dei Monopoli di Stato all'angolo via Bel Fuso con vicolo san Marco. La tabaccaia  li avrebbe rivenduti nel suo negozio di largo Boccaccino,  oltre la via del Cigno. “EL bersaglièr” non mancava di dare una mano  all'allestimento dei banchetti espositivi degli ortolani al mercato all'ingrosso di frutta e verdura,  si teneva in piazza san Angelo, nello spazio fra il lato posteriore del palazzo dell'Arte e la chiesa, chiusa al culto, di san Vitale. Nei suoi  locali, al fronte con via A. Melone, in anni futuri, il mio amico Sghia commerciò in riso e farine. Nel lato opposto, all'interno di una corta rientranza della strada Bel Cavezzo, nome che si distingueva dagli altri delle strade di quel quartierino per far riferimento ad uno strumento  di lavoro non di filanda,   sbarrata in fondo da un portone carraio che immetteva all'istituto delle sùur tudèsche,  aveva laboratorio un falegname : mi sembra si chiamasse Zambelli.  Molti degli ortolani che esponevano la loro merce in piazza san Angelo venivano da  Croce Santo Spirito e Catselvetro Piacentino. Pedalando trainavano un furgoncino, posteriormente agganciato alla sella della bicicletta,  carico  della verdura fresca raccolta  poche ore prima di partire. VI erano anche i grossisti veri: si ricordano i Persegàan ed i Faustinèel. Questi secondi  erano proprietari di una  filanda in via Cadore ora trasformata in appartamenti civili, dell'opificio rimane una corta ciminiera forse mutilata della parte superiore. Sui loro banchi merceologici al mercato di san Angelo compariva anche la frutta, quella che non si coltivava dalle nostre parti. Mentre faceva le consegne Bandera, gioviale, salutava con frasi ironiche quelli che incontrava,  innescando, con questi,   un corto dialogo scherzoso, sempre ricambiato.  Spesso cantava una canzone bersaglieresca che pareva evocare i tempi dell'epopea (si fa per dire) sul fiume Cernaia. Chissà da chi  l'aveva imparata considerato che, lui, a quella battaglia e a quel tempo, non c'era .

 Si raccontava che proprio per un canto, nell'inverno del 1944/45, ebbe a subire “l'avvertimento” da parte di una pattuglia di militi fascisti irritati dai versi di una sua canzone che parevano un invito ai soldati della Wehrmacht, che transitavano in quel momento, a  lasciare l'Italia.  “Torna al tuo paesello/che tanto è bello/torna al tuo casolare/torna a cantare” ripeteva il refrain che altro non era se non la preghiera di un innamorato alla sua bella che se ne era andata. Per questo,  Bandera si ebbe il suo ammonimento e, forse, anche la iscrizione nel “Repertorio dei Sovversivi”

 Con Bandera, seduti sui gradini che dal porticato del Duomo scendono alla piazza, passai un paio d'ore di un tardo pomeriggio.  Con una ciambella stantia e rinsecchita non più adatta alla vendita ma che comunque ancora conservava un po' della originaria bontà di quando fragrante e fumante svaporava il residuo calore del forno,  per togliersi il bambinetto d'attorno, il principale mi mandò in piazza a sbriciolare il dolce a nutrimento dei piccioni ma, sopratutto, per divertire il pargolo. Eravamo nel 1947/'48, la guerra finita da poco, c'era ancora la tessera annonaria per il pane contingentato, anche se già compariva un tollerato doppio mercato a soppiantare, o a darle una veste di legalità,  quel che fino a poco prima era stata la “borsa nera”. Dare il dolce ai piccioni mi pareva un insulto a quelli come me ed il racconto di quel signore che era sceso da cavallo per raccogliere da terra una briciola di pane, raccontatami mille volte per  per farmi ben capire e ricordare a futura memoria  che niente del cibo andava sprecato,  mi rullava in capo. Bandera mi si sedette subito a fianco, forse mi chiese un pezzo di quel ben di Dio. DI pezzetto in pezzetto, mentre il bambino lentamente ne sbriciolava una piccola parte a beneficio dei pennuti, io e Bandera demmo fondo al dolce lasciando agli uccelli quello che la gravità terrestre attirava  a se. Tornando al negozio, ci si fece incontro il padre del bimbo ansioso di sapere come era andata con i piccioni e se avessero gradito: “l'ha mangiata tutta lui con Bandera” gridò astioso il bimbetto puntandomi con  l'indice accusatorio, dando inizio alla sua abituale interminabile lagna senza lacrime. Piagnoloso come sempre, cercò consolazione fra le braccia affettuose del babbo che lo risarcì dedicandomi uno sguardo feroce.

Dopo qualche settimana cambiai lavoro allontanandomi dalla piazza. Di Bandera, sodale  coprotagonista di quel  picnic pomeridiano, cantore da strada di guerre lontane dai più dimenticate distratti, ormai dagli eventi appena trascorsi, non seppi più niente. 

Ennio Serventi


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


claudio

18 aprile 2024 19:40

Sempre avvincenti i racconti del Signor Serventi, al quale chiedo, approfittando della menzione, se il "...suo amico Sghia..." non fosse, assieme alla moglie (mi pare si chiamasse Lina) gestore dell' osteria Varesina sita nella citata piazza Sant' Angelo. Che bei ricordi... Grazie

ennio serventi

19 aprile 2024 17:59

Gentile Claudio, alla ipotesi che mi pone avevo pensato fin da quando scrisse, qualche tempo fa, a commento della sede dove si fondò la Unione Sportiva Cremonese. Sarei del parere di escludere, anche in rapporto alla "anagrafe" dei diversi soggetti, quanto mi chiede. Penso che i gestori della "Varesina", che io ricordo d'angolo fra la via bel Cavezzo e un altra della quale al momento non ricordo il nome, ma, comunque, ingresso dell'osteria dirimpettaio alla tipografia Pizzorni, potessero essere i genitori del mio amico, dal quale non ne sentii mai parlare.
A risentirci.
Ennio

claudio

19 aprile 2024 19:01

Grazie dell'interessamento

Michele de Crecchio

18 aprile 2024 23:48

La filanda citata da Serventi credo fosse quella che io conobbi come "filanda Cattivelli". Me ne occupai quando, come assessore all'urbanistica, quasi mezzo secolo or sono, cercavo alloggi fatiscenti da recuperare per destinarli a quella che oggi credo si chiami "edilizia sociale". Riuscii a farne acquistare dal Comune una porzione che, mi auguro, faccia ancora parte del patrimonio comunale. Ricordo che quella parte di edificio, sicuramente già appartenuta in passato ad un palazzo di maggior prestigio, conservava al proprio interno un bella porzione di decorazione che il compianto monsignor Voltini mi assicurò essere di origine rinascimentale. Spero che anche tale inaspettato e gradevole reperto sia ancora oggi conservato. L'altra porzione della vecchia filanda credo sia stata, successivamente, per iniziativa di privati, riutilizzata anche come palestra.

Claudio

19 aprile 2024 14:32

Se non erro o la memoria non m'inganna, la filanda Cattivelli era in Via Manini, con due corpi di fabbrica, uno appunto prospicente la via citata, l'altro la Via Cadore. Confermo la notizia circa l'acquisto per alloggi "sociali"

Gino

19 aprile 2024 15:36

Signor de Crecchio, leggo sempre con piacere e curiosità i suoi puntuali ricordi sui fatti delle passate amministrazioni.
Visto che cita la edilizia sociale si ricorda chi si occupò di trasformare le vecchie scuole di San Savino (ora parte del quartiere14) in alloggi popolari?
Al tempo destò stupore la colorazione scelta per gli stessi, rosa, verde e giallo quasi fluorescenti.
Purtroppo, oggi, questi alloggi sono in uno stato di abbandono e decadenza tali che mi chiedo come possa essere possibile che siano ancora adibiti ad abitazione.

ennio serventi

20 aprile 2024 14:06

chiedo scusa ai lettori, ringrazio Claudio e MIchele. Sono andato a rivedere vecchie carte del 2001. Avevo preparato, per conto di un amico, un giro, che si sarebbe dovuto fare in bicicletta, di visita a quel che restava delle filande cremonesi. Del giro non se fece niente., ma quella di via Cadore già chiamavo di Faustinelli . Non potendo avere una memoria diretta precedente qualcuno deve avermelo detto. Grazie a Claudio e Michele ne ho corretto il nome. Ripensando alla conformazione di quella di ViaCodore, mi convinco che è certamente il corpo di fabbrica secondario di una costruzione più vasta., presumibilmente quella di via Manini che negli anni sessanta ospitò il dancing "Cristallo"

Claudio

20 aprile 2024 17:41

Ahhh..., "la sala da ballo" Cristallo di Via Manini ( che ricordi), alla quale si accedeva scendendo alcuni scalini e alla quale, noi bambini di allora, era severamente vietato, non dico solo accedere, ma addirittura sedersi sul gradino del marciapiede per sentire almeno la musica, dopo aver cercato di sbirciare all' interno di quel "mondo" misterioso...

Alessandro

21 aprile 2024 18:20

Bandera el gheera.. Giuan el ga pusee ann