19 maggio 2024

Un pezzo di vecchia Cremona. Quando all'AEM i capi (e non solo) avevano solo soprannomi: "Bòon-Bòon, Lumumba, Sùpéen, el Bàarba, la Màma, Marubéen, el Marinar..."

Di aspetto severo, che il grigiore di capelli e baffi probabilmente accentuavano, pareva essere il più anziano, anche se non di età veneranda, di tutta la dipendenza aziendale. L'incontravo nell'atrio della sede mentre si apprestava a salire la rampa di scale che l'avrebbe portato nel suo ufficio, al primo piano. Mi salutava sempre senza fermarsi, cosa che faceva con quasi tutti gli altri. Era sopra nominato Bòon-Bòon, interlocuzione dialettale che usava, in sostituzione dell'avverbio “bene”, per dire che la cosa della quale si parlava era andata per il verso giusto. Fra noi tutti lo chiamavamo così ma nessuno si azzardò mai, che fosse a mia conoscenza, ad interpellarlo con quel sopranome. Bòn-Bòon era a capo dell'Ufficio Acquisti ed Economato, non so se in ufficio avesse collaboratori subalterni, probabilmente si, certamente da lui dipendeva il magazzino, unico per tutti i servizi aziendali, con i relativi addetti. Era stato notato che Bòon-Bòon faceva, tutti gli anni, qualche giorno di ferie nella settimana che precedeva il natale. I maligni, o i bene informati, dicevano che impiegasse quel tempo libero da impegni lavorativi, generalmente dedicato ad auguranti buoni auspici e, per molti, da intensa spiritualità , per fare un giro, anche fuori provincia, dai vari fornitori aziendali e presso chi, per scelta aziendale, nel corso dell'anno che passava, era stato gratificato da ordini di acquisto o commesse di lavoro in appalto. Lui portava i saluti augurali della nostra impresa e se ne tornava con i ricambiati auguri per l'azienda e qualche regaluccio personale. Pacchi con decorazioni natalizie arrivano anche in sede AEM. Alla domanda per chi fossero, il fattorino che era andato a ritirarli alla Posta Centrale confermava quanto già era stato supposto : “è quasi tutta roba per Bòon-Bòon” rispondeva. 

In prossimità delle festività di fine anno anche nella sede distaccata dove lavoravo io, arrivava qualche pacco indirizzato al capo. Quello mandato dal rinomato salumificio Pietro Negroni continuò ad arrivare, sempre portato dal furgoncino blu della ditta con impresso sulle fiancate il logo stellato, anche quando quel capo servizio era già in pensione. Noi lo ritiravamo e, certi dell'assenza definitiva del destinatario, con un pizzico di veniale fraudolenza dividevamo il contenuto fra noi. Andava ad integrare la strenna che tutti gli anni il Circolo Ricreativo Aziendale dava ai soci. 

Da Bòon-Bòon dipendeva il magazzino, unico per tutti i servizi gestiti. Al tempo erano tre: elettrico, acquedotto e trasporti urbani, questo ultimo ereditato da poco dopo la municipalizzazione, dalla Società Elettrica Bresciana. Del magazzino era capo Bruno Ceruti, un ex operaio del servizio elettrico. Quando ancora Bruno era operaio di squadra, Bòon-Bòon lo aveva notato per la bella calligrafia, l'allineamento dello scritto e la correttezza formale con la quale Ceruti compilava i moduli di “prelievo” , caratteristiche che evidenziavano una attitudine all'ordine ed alla precisione, qualità, certamente pensò Bòon-Bòon, che bene si conformavano per il nuovo capo magazzino che necessitava essere nominato. Ed a Bruno Ceruti venne conferita quella qualifica. Al bancone della distribuzione del materiale era cortese e sbrigativo, efficiente. Sempre serio non concedeva mai un lazzo od una parola scherzosa. Insomma era completamente preso dalla sua funzione e si faceva anche valere, atteggiamento che cambiò dopo il suo pensionamento. Ciarliero e quasi gioviale lo incontravo spesso in quel tratto di corso Garibaldi che sta fra la confluente via dei Mille e il ristorante “Stagnino” all'angolo con via Bertesi, doveva abitare da quelle parti. Si parlava di salute e della AEM, sempre curioso di sapere come andava il magazzino dopo che lui l'aveva lasciato, rimpiangeva i tempi della sua gestione e sembrava s'intristisse. Era un atteggiamento che avevo già notato in altri ex, direi più comune fra quelli che avevano avuto anche solo un piccolo ruolo di potere, andato perso con il pensionamento. Dopo di questo, cancellate le vecchie gerarchie aziendali, si tornava ad essere tutti uguali. Come collaboratore subalterno, Bruno Ceruti aveva avuto Giulio. Giulio del magazzino non alto di statura, grassottello e silenzioso si muoveva con agilità fra scansie ricolme e materiali vari pronti per la consegna posati a terra. Il passo era svelto e lo sguardo sempre fisso in avanti.

Quasi tutti avevamo un soprannome con il quale venivamo confidenzialmente chiamati o anche appena nominati nei conciliaboli o per distinguerci da altri che si chiamavano allo stesso modo.

Ai miei tempi in azienda, oltre al Giulio del magazzino, con questo nome ve ne erano altri due. Uno, il più giovane dei tre, per differenziarlo, non poteva che essere identificato come “Giulietto. Poi veniva Giulio Sùpèen......,più che con una scutùmaja vera e propria veniva chiamato con una storpiatura del cognome. Era una persona mite, l'unico di noi che santificasse le feste, teneva sempre spalancati i grandi occhi cerulei come se fosse costantemente in preda ad un improvviso spavento, prevalentemente impiegato come aiutante ad altri, mai un lavoro con autonomia di esecuzione, sempre dipendente eternava la figura del “giovane di bottega”. Di corporatura robusta, camminava lento e debolmente dondolante come come quelli che, incerti, cercano un appoggio sicuro per posare, uno dopo l'altro, i piedi. Degli epuratori conosciuti che collettivamente firmarono la richiesta di allontanamento del capo non fu tra quelli che alla chetichella, mi verrebbe da dire “notte tempo”, andarono poi a ritirare la propria adesione alla mozione espulsiva. Non solo per questo ebbe la mia stima. Il racconto era diventato storia di d'altri tempi, alcuni dei protagonisti di quell'affare erano andati in pensione, quelli rimasti ne parlavano poco. Ma nello spogliatoio, nelle chiacchiere anche aspre di fine giornata, nei riguardi di qualcuno, a volte il titolo di “faciàa vacàa” volava alto. Sùpèen, silenzioso, tentava un lieve sorriso di partecipativo consenso. 

Giulio Sùpéen andava fiero di suo figlio, che da dirigente scolastico si era guadagnato stima e fu attivo militante nelle ACLI cremonesi e nel sociale, con Gianvi fondò l'ARCI cremonese. 

Giulio Sùpèen.... veniva nominato abitualmente con il nome seguito da una distorsione del cognome, ma a volte, parlando di lui, nello spogliatoio faceva capolino l'ironico nomignolo di “fasulòon”. Lui sapeva di questo senza aversene. Sempre legato ad un fatto realmente accadutogli mi raccontava, divertito, un episodio. Ho sempre pensato che ricordando quell'accadimento costituisse per lui, di fatto, una rivalsa sulla eterna subalternità e sullo ironico senso del sopra nome.

Era andata così la rottura di un piccolo tubo agganciato al soffitto di uno scantinato aveva reso necessario un intervento riparatore. “Galèet” venne incaricato di fare quell'intervento, come aiuto gli venne assegnato Sùpèen. Dal tubo forato l'acqua aveva zampillato per tutta la notte allagando il piano di calpestio del sotterraneo raggiungendo un' altezza pari a quella del secondo gradino di discesa. Calzati i gommati stivali “Superga” che l'AEM, un anno si ed un anno no, forniva ai lavoratori, i due si apprestavano ad attraversare quel lago, il punto da raggiungere era dall'altro lato del locale semiinterrato. “Galèet”, come si conformava al suo ruolo di capo, andò avanti per primo, s'immerse fin quasi sotto il ginocchio guadagnando qualche passo sul compagno. Giulio, per natura titubante nell'incedere, gravato dal peso della borsa per gli attrezzi, timoroso della incertezza del percorso, si attardò un attimo. Con voce imperiosa “Galèet” lo sollecitò “vieni avanti, Fasùlòon!!” gli gridò. Non si sa bene come andò la cosa, Galèet non la raccontò mai limitandosi ad attribuire a Fasùlòon inesistenti colpe. Forse scivolò sul fondo vischioso o forse inciampò in un mattone sconnesso del pavimento sottostante, fatto sta che dopo quel richiamo Galèet fini completamente sott' acqua fra il riso, trattenuto e divertito, di Fasùlòon. Raccontando quell'episodio che si faceva antico, Sùpèen, spalancando per quanto possibile di più gli occhi, ancora rideva contento e divertito. 

Le scutumaie erano, generalmente, fantasiosi appellativi spesso derivanti da caratteristiche fisiche o da abituali frasi a sproposito usate dai soggetti in questione. Non mancavano quelle derivanti dai nomi di politici anche internazionali o da eventi che ebbero risonanza mondiale. Un mio capo, immediatamente dopo la sua assunzione, per il solo fatto di avere lavorato nel cantiere che costruì la diga di Kariba sul fiume Zambesi, venne chiamato con il nome di un prestigioso lieder congolese assassinato nel 1961. Nella fase della decolonizzazione e dello sgretolamento del dominio imperialista, contro il pericolo di una divisione tribale del Congo, Patris Lumumba lottò fino alla fine. Incarcerato, venne ucciso. La sua uccisione provocò grandi manifestazioni di protesta in tutto il mondo ed in Italia non furono da meno.

Nelle menzioni non mancava il rivoluzionario leader cubano né l'imperatore Barbarossa accomunati in un unica persona.

Fra i capi ci furono un Orecchia/ Sventaglia, un barba elettrica anche solo el Barba, un la Màma (questo fu sicuramente il più originale), el Sourd, Marubéen, Pisùu, Marinàar (ex marinaio di leva rinverdiva i fasti della scomparsa marina regia raccontando, non tralasciando i nuovi arrivati, la “Beffa di Buccari” del 1918 alla quale non poteva avere partecipato). 

Cera uno, fra noi, che invece di rispondere con un si o con un no alla domanda di un interlocutore preferiva usare gli avverbi “ovviamente”/ “ovvio”. Ovviamente il suo nomignolo non poteva non tener conto di questa raffinatezza linguistica usata con evidente piacere e palesato tratto di orgogliosa distinzione. Per tutti, da Giuseppe che era divenne, ovviamente, “Ovvio”.

Oltre a me, Giulio del magazzino era certamente l'unico che si poteva vantare di avere ben due nomignoli. Sicuramente mutuato da caratteristica fisica era quello ripreso dal trancio, salato ed a volte affumicato, che nelle case contadine, appeso con un gancio al trave del solaio, veniva conservato come fonte di grasso per il resto dell'annata e doveva durare fino alla macellazione del suinetto in accrescimento. Con al centro un filo rosso di “magro”, era una delle cose buone che in campagna ancora si trovavano. 

A causa della chiusura temporanea del collegio dovuta a cause belliche, in quei mesi del 1944 ero ospite della mia antica balia, abitava alla cascina “Terra Amata” . Lei il trancio lo teneva appeso in un vano che fungeva da piccola dispensa, al piano superiore. In quel locale,oltre a quella parte salata che fu la schiena di un suino, era stivato il poco grano spettante dalla divisione “a quarto” ed, in un cassetto del comò che aveva cessato la sua funzione primaria, il pane fatto in casa cotto e biscotto nel forno comune. Tre cose che dovevano durare per il resto dell'annata. Io a quel lardo e a quel panbiscotto clandestinamente ricorrevo spesso e l'anomalo ridimensionarsi di quel ben di Dio non passò inosservato. La balia, maternamente e certamente con dispiacere, mi spiegò che quelle scorte dovevano sostenere per l'intero anno tutti i membri della famiglia instillandomi, inconsapevolmente, un rudimento di comunanza sul quale si depositarono le esperienze di diverse militanze. 

Certamente non per magrezza fisica a Giulio del magazzino fu affibbiato, per nomignolo, l'identificativo di quel trancio, lo si usava nei conciliaboli quando a lui ci si riferiva. In questi, per tutti era “el làard”. Per chiamarlo, però, si preferiva usare lo spagnolesco “Arriba”, l'altro sopranome. “Arriba Espana” era stato il motto dei legionari reclutati da Mussolini e mandati in Spagna a combattere contro la legittima Repubblica, una specie di “A-LA-LA” del fascismo nostrano. Non so dire con certezza se “el lard” conoscesse questa storia, suppongo di sì, lui usava quella parola come saluto attribuendole un significato simile a “ciao” o ad un “arrivederci”. Non so dove l'avesse sentita ed imparata ma il pensiero che fosse stato in Spagna negli anni fra '36/'39 del novecento mi ballava in testa. In un elenco conosciuto dei nominativi di quanti accorsero solidali in Spagna per difendere la Repubblica vittima del “pronunciamento” di generali golpisti, il suo nome non c'era. Poteva essersi arruolato dall'altra parte o fatto parte di quelle truppe di leva dell'esercito italiano mandate dal fascismo di casa nostra a sostenere il “pronunciamiento” dei generali franchisti. Indagai sulla sua età anagrafica e ne ricavai che per questa l'andata in Spagna ci poteva stare . La cosa mi intrigava, nonostante il mio impegno nel volere ricostruire il suo passato, questo mi rimaneva oscuro. Né tanto meno si chiarì dopo quell'incontro all'osteria “la prima” di via Cavitelli dove le osterie erano due: la nominata “ prima” e la contigua successiva che per distinguerla era chiamata “la seconda”. Esisteva anche “la settima” ma più lontana, a lato del vecchio Ospedalino, nel vicolo che ricorda i lanieri che furono contigui ad una eresia e che porta alla chiesa di sant' Abbondio. Da questa parte della cancellata che delimitava e divideva l'area ospedaliera dalla strada, tirando una funicella si azionava una campanella che risuonava nel locale della mescita, richiamando l'oste. Lui si affacciava e prendeva le ordinazioni dagli adulti ricoverati nel nosocomio che non potevano uscire.

“El Làard” era bevitore. Quella sera, “alla Prima”, mi venne incontro sorridente e paonazzo. La porosità delle guance stillava un copioso e colante sudore. Si fece avanti con il consueto passo svelto, le braccia larghe protese lasciavano intuire l' intenzione di un abbraccio. Mentre avanzava verso di me, con la voce che sovrastava l'ininterrotto borbottio che saturava l'ambiente, ripeteva una frase che esprimeva una cordialità mai neanche supposta: “ecco il nostro Ennio, il nostro Ennio”!!. Non riuscii a sottrarmi alla stretta dell'abbraccio né all'aderente contatto con le sue appiccicose guance bagnate da una abbondante, calda e collosa secrezione. Staccatosi dall'abbraccio e guardandomi fisso mi disse: “Tu “comunista cinese”, “io” continuò “comunista sovietico”. Detto questo il dialogo finì. Erano i mesi che seguivano gli scontri sull' Ussuri gelato dove le Guardie alla Frontiera dei due stati che ancora si definivano “fratelli” si erano scambiate più di un colpo di fucile. Le diatribe generate da problemi di confine preludevano all'universale esplodere di sottostanti, questioni ideologiche investendo anche noi. . Non so trovare il perchè Giulio del magazzino sentì il bisogno di precisare quelle che secondo lui erano le rispettive posizioni al riguardo, almeno una di queste, in parte, solo supposta. Indietreggiando si allontanò di due passi da me, non stendendo il braccio ma piegandolo al gomito, portando la mano alla altezza dell'orecchio di sinistra, serrando il pollice all'interno delle altre dita in un perfetto pugno chiuso, saluto pare usato dai combattenti del Battaglione Garibaldi, fissandomi con un ultima occhiata, si girò su se stesso. Lo vidi di spalle allontanarsi verso la primitiva combriccola. Con ancora il braccio angolato nel saluto miliziano, alla voce lanciò nell'aere chiuso, affumicato e denso, il suo spagnolesco grido lasciandomi con le mie insolute, accentuate e mai chiarite dubbiose domande sul suo passato. 

Ottobre 1950, l'Officina Elettrica di Viale Trento e Trieste, locale camino e officina fabbri. Poi le officine Aem nel secondo dopoguerra (la foto è di Fazioli) infine i  lavori per la posa di nuovi cavi in via Nazario Sauro con l'ingresso della nuova cabina elettrica alle Camilliane (Settembre 1950)

Ennio Serventi


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commenti


Greci luisa

20 maggio 2024 18:13

Bellissimo questo articolo mi ricorda la mia giovinezza quando i clienti del bar dei miei genitori avevano tutti un soprannome e ci si considerava una grande famiglia

Michele de Crecchio

20 maggio 2024 22:09

Ricordo bene il commercio di bicchieri pieni di buon vino bianco che si svolgeva tra gli ammalati ospitati nel giardino del cosiddetto "ospedalino" e l'osteria che sorgeva sul lato della via Umiliati. Non ricordavo la corda che. attraversando detta via, serviva agli ammalati per richiamare l'attenzione dell'oste. Spostatosi l'ospedalino nella nuova sede di via Giuseppina dove il nuovo imponente nosocomio occupò il podere denominato "Cà de guai", la vecchia osteria aggiornò la propria denominazione esponendo una nuova insegna con la scritta "La cantina di Brecht"!

Michele de Crecchio

21 maggio 2024 22:56

Mi era inizialmente sfuggita la interessante immagine dell'interno dell'officina AEM, credo ripresa quando questa era ancora collocata in viale Trento e Trieste, in particolare sul terreno dove oggi sopravvive, da qualche tempo desolatamente abbandonata, la sede dei relativi uffici, recentemente traferiti, non saprei dire quanto saggiamente, nella ex zona annonaria.
Nella bella fotografia che precede l'ancor più gradevole memoria, come al solito magistralmente scritta da Ennio Serventi, si nota, in particolare, la base di una significativa ciminiera, ciminiera che, come testimoniano altre più note fotografie di viale Trento e Trieste, era allora ben visibile fin dalla piazzetta di San Luca.
Se i miei ricordi di ragazzino curioso sono corretti e non troppo alterati dagli oltre settanta anni nel frattempo trascorsi, la ciminiera serviva ad esalare i fumi provenienti da una contigua caldaia a carbone che credo servisse a far funzionare un generatore di elettricità che veniva attivato quando veniva a mancare, spesso in coincidenza con avverse condizioni atmosferiche, la corrente proveniente dalla apposita centralina che gli efficienti amministratori cremonesi di inizio secolo avevano fatto costruire lungo il corso dell'Oglio, mi pare in località Genivolta. Nell'immediato dopoguerra, la mia famiglia abitava in un alloggio che solo un cortile divideva dall'officina AEM. Le interruzioni alla regolare erogazione di corrente erano allora piuttosto frequenti e non di rado coincidevano con accidenti atmosferici. Se tali inconvenienti si manifestavano in assenza della illuminazione naturale, le famiglie cremonesi ricorrevano di necessità all'uso di candele o di lumi ad olio, strumenti allora sempre presenti in ogni abitazione. Per coloro che, come la mia famiglia, abitavano nei pressi dell'officina AEM, un tipico "borbottio", proveniente dall'interno del relativo capannone, segnalava che il generatore "di soccorso" si stava attivando e, di conseguenza, con un respiro di sollievo, nelle abitazioni ci si apprestava a spegnere la illuminazione di fortuna.

ennio serventi

22 maggio 2024 21:19

ciao. La centrale che tu citi come lungo il corso dell'Oglio non può essere quella del ricordo essendo stata fatta nel 2001. Questa sfrutta l'acqua proveniente dalla scaricatore di Genivolta riversandola nel fiume. Quella del tuo ricordo può essere quella in località Reza ( sempre in comune di Genivolta) o quella di Mirabello Ciria di poco distante. Le località meritano una visita. Entrambe sfruttavano l'acqua del Naviglio Civico. Nacquero con un accordo fra diversi enti. La ciminiera della foto penso che servisse a scaricare i fumi dei due motori "marini" ai quali erano accoppiati i due alternatori. Il trapano e l'incudine che di vedono nella foto, alla demolizione del sito, vennero portati alla piccola officina della centrale di via Realdo Colombo dove io lavoravo.