Quel 1°maggio del 1920 con le filatrici in corteo: "Vengono, vengono"
Era grata a chi, invece che alla filanda, dopo la scuola elementare l’aveva indirizzata a quel laboratorio: “ho fatto anche la sesta” diceva con orgoglio. La bottega del signor Emilio Faia, sarto prestigioso, ciclista, sportivo appassionato, fondatore con altri e primo presidente della Unione Sportiva Cremonese, apriva la sua vetrina in quella strada che è adesso corso Matteotti, proprio a lato della antica farmacia del dott. Leggeri che ancora esiste. La natura era stata prodiga con il signor Emilio, fornendolo di padiglioni auricolari di dimensioni tali, che fino a qualche anno fa ancora se ne parlava.
Nel laboratorio prestavano la loro opera una decina di lavoranti, uomini e donne in una, assolutamente nuova, promiscuità. Il giorno che la ragazza fece il suo ingresso in quella sartoria, accompagnata da una istitutrice del collegio, uno di quei lavoranti la salutò con un sorriso. Lei si accorse più tardi che era claudicante. Veniva tutti i giorni con la bicicletta dal suo paese, Castelvetro Piacentino. Una volta ebbe una piccola discussione con il signor Emilio e lei, “la piccinina del collegio” come lui la chiamava, l’aveva sentito rispondere ai quei rimbrotti del principale, con una ben scandita, per lei misteriosa frase: “verrà il giorno della riscossa!”.
Le pareti del laboratorio, contornate verso l’alto dalle geometrie di una greca e dipinte con un bel colore di paglia, doravano riflettendola in un obliquo fascio, la luce che un’ampia vetrina lasciava passare. Imperativa, non addolcita dall’eleganza della grafia, una scritta attraversava tutta la stretta parete di fondo, sovrastando e pesando sulle teste chine dei lavoranti intenti a cucire: “Silenziosi e Operanti”. Nonostante quell’ingiuntivo monito, durante il lavoro era ammesso scambiarsi sottovoce qualche parola. Quando le parole si facevano più alte un perentorio, lungo e strascicato “ssss!!!” imponeva il silenzio e la moglie del signor Emilio, deposto l’ago, puntava un dito indice a indicare la quasi francescana regola impressa sul muro di fondo. Come tutti, anche il sarto piacentino approfittava dell’opportunità di scambiare qualche parola con i compagni di lavoro, ma molto spesso se ne stava in disparte.
La “piccinina del collegio” s’accorse che durante questo silente lavoro, il sarto piacentino muoveva in continuazione le labbra, come se stesse pregando. Non pregava ma recitava poesie. Erano le liriche di Stecchetti, vietatissime dalle Orsoline, ma che qualche collegiale “delle grandi” raccontava con fare misterioso alle più giovani. Come era in uso, ne era stato dato alle stampe un volumetto censurato, “per signorine” precisava, evidenziato in neretto, il sottotitolo.
In quel laboratorio la“piccinina del collegio” conobbe integralmente quelle rime che raccontavano come “la sua carne fremea fra le mie braccia / eravam sulla riva e mi fermai, / e la mal chiusa veste apria la traccia / di candidi misteri e li guardai, / fin che mi vinse amor...”
Mai aveva sentito parlare con tanto entusiasmo del peccato: “chiudete il libro mio scomunicato / che vi potrebbe dir come son belli / maggio, le peccatrici ed il peccato...” Ma in quelle liriche c’era anche dell’altro. Socialista di quei tempi, Stecchetti non aveva ancora scoperto né il proletariato né la rivoluzione e s’attardava a parlare di rivolta delle plebi, ma il messaggio era chiaro: “giù dai monti, dal mare, da aspri boschi / che l’aquilon flagella / innumeri, feroci e disperati, / noi plebe maledetta / incontro a voi /discenderemo armati / di odio e di vendetta...”
Quello dell’anno 1919 o del ‘20 fu il suo primo “primo maggio”. La mattina di quel giorno al laboratorio si presentarono, oltre lei, quattro o cinque lavoranti, circa la metà dei dipendenti. Non c’era il sarto piacentino. Alla sua domanda le venne data una risposta misteriosa, era il “primo maggio”.
Cominciò il lavoro, il signor Emilio sembrava essere in agitazione e invece di starsene al suo bancone di lavoro dove, aiutandosi con gesso, riga e squadra, ritagliava dalla stoffa le parti che poi sarebbero state cucite e assemblate dai lavoranti, faceva e rifaceva nervosamente il tragitto fra la sua stanza e la porta di ingresso verso il corso. Senza scendere dallo scalino che rialzava il piano di calpestìo del negozio da quello stradale, tendendo il collo, avendo cura di non sporgersi eccessivamente, quasi per paura di essere visto, guardava in direzione di porta Venezia. La leggera curva della strada in corrispondenza del palazzo dei Cavalcabò, gli impediva di vedere cosa stava succedendo verso la piazza. Non particolarmente noto per prodigalità, avrebbe forse pagato qualche cosa pur di riuscire a guardare oltre a quel gomito. Sembrava in preda a un’ impaziente agitazione che gli impediva di stare fermo, era un continuo rifare quel tragitto nella penosa attesa di un evento che, fatalmente, sarebbe avvenuto.
Provenienti dalla strada cominciavano a sentirsi canti e grida “Vengono! vengono! arrivano!” esclamò a se stesso ma tutti nel laboratorio udirono e tutti alzarono la testa puntando gli sguardi oltre la vetrina, a scrutare la striscia di strada che si intravedeva.
Un coro di voci femminili, nel canto, sovrastava le altre. Lei, la “piccinina del collegio” che sempre si vantò di avere “l’orecchio fino”, sentì chiaramente e intese le parole di quella canzone che raccontava come “la povera fanciulla della strada / sul marciapiede il corpo trascinò / la vile sensuale borghesia / con un pezzo di pane la comprò”. II ritornello preannunciava la venuta di un certo Lenin. che avrebbe redento la fanciulla, punito la voluttuosa borghesia e fatto in modo che le ragazze del popolo non fossero costrette a prostituirsi a causa delle miserevoli condizioni della loro vita: “sì Lenin verrà... perché Lenin soltanto... la legge di Lenin trionferà”.
Nel laboratorio seguirono sospesi attimi di silenzio, poi con un tono deciso che parve liberatorio, il signor Emilio esclamò: “Eccolo! Eccolo là, è in prima fila vicino alla bandiera!” “Canta, ha la bocca spalancata, dietro ci sono le filatrici con le pertiche, urlano contro il signor avvocato Alessandro Groppali e Lanfranchi!”
Era la cronaca perfetta di quanto stava vedendo. “Tira giù, tira giù”, gridò il signor Emilio e in più di uno si precipitarono a prendere il bastone uncinato con il quale, una volta agganciata, la saracinesca sarebbe stata fatta scendere a chiusura del vano della vetrina.
“Andate via, andate via” gridava il principale e i lavoranti si squagliarono dalla porta interna, verso il cortile. Il corteo che si avvicinava, lo si capiva dai canti, dalle grida di gioia e di minaccia che venivano dalla strada, parve arrestarsi nei pressi del laboratorio ed il canto si fece corale, immenso:
“su fratelli su compagni / su venite in fitta schiera / sulla libera bandiera / splende il sol dell‘avvenir / nelle pene e nell’insulto / ci stringemmo in mutuo patto / la gran causa del riscatto / niun di noi saprà tradir!” “Avanti popolo alla riscossa...”“Rivoluzione, rivoluzione!...”
Improvvisamente la porta verso il cortile si aprì e preceduto da un “permesso, si può?”comparve lui, il sarto piacentino. La “piccinina” lo salutò, lui le sorrise toccandole, affettuosamente, la spalla con la mano. Aveva un fiore rosso con il gambo infilato nell’asola del “rever”, sembrava felice. Con voce allegra e un tantino mordace rivolse un saluto al principale che gli si era fatto incontro: “signor Emilio buon giorno, come va?” “Oggi i padroni siamo noi!” e lo puntò fisso negli occhi.
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