Storie della vecchia Cremona: gente di cumèenda e di altre strade. Ricordi di Camel, Castello, Chiappa, Guindani e Bagonghi
Fino a qualche tempo fa, quel quadrilatero fra Capellana, Malombra, Tofane e la piazza san Michele, al di qua dell'antico baluardo di quel che resta delle mura spagnole, era indicato come la “cumèenda”. D' angolo con via Malombra, documenta Gianfranco Taglietti riprendendolo da Cavalcabò, fu la chiesa di san Giovanni del Tempio dipendenza dall'Ordine dei Cavalieri della Milizia del Tempio, cioè dai Templari. Soppresso quest'ordine, la chiesa passò ai Cavalieri di Gerusalemme, diventando Commenda di san Giovanni.
Anche un osteria, oggi del tutto scomparsa, ricordava quel beneficio ecclesiale: l'ustària dè la cumèenda. In stanze vicine, o forse nella osteria stessa, aveva avuto sede la sezione territoriale del P.C.I. Non so se sempre in quella sede, la sezione, fino al sofferto scioglimento del partito, rimase intitolata al partigiano Bruno Ghidetti caduto, il 26 aprile 1945 in uno scontro a fuoco in via san Rocco, poco oltre il ponte sul Cavo Cerca. Nei tempi post liberazione furono, in molti casi, le osterie ad ospitare le sezioni territoriali del partito. Ricordo di una sezione all'osteria del Bazar in via Cappelletti angolo Damiano Chiesa dietro il palazzo Cittanova, forse intitolata al partigiano Ruggeri fucilato a Pozzaglio da militi fascisti. Ma a porta Po in una osteria esisteva anche una sezione della Democrazia Cristiana , per questo chiamata “osteria dei preti", oggi inglobata in un grande ristorante orientale, nella casa che fu dell'ingegner navale Raimondi. Una sera del 1946, da un palchetto eretto davanti alla porta di quella sezione D.C., Angelo Formis sindacalista democristiano della segreteria della Camera del Lavoro quando questa era ancora unitaria, cioè prima della nascita della U.I.L. e della CISL tenne un comizio. Ricordo bene le sue parole di felice consenso quando descrisse la partenza, da Napoli per l'esilio portoghese, “del re di maggio” con l'augurio di fare buon viaggio. Eravamo dopo la vittoria del 2 Giugno. Noi si andava anche ai comizi dei partiti avversi cogliendone, a volte applaudendo, gli argomenti condivisi, come in questo caso. Pur nelle differenze politiche era ancora vivo il portato della “Liberazione”.
In anni immediatamente post-bellici, nella grande casa della cumèenda, vi erano i magazzini di vendita e raccolta di cose motoristiche provenienti da demolizioni. Gerevini Nino detto Topa vi aveva trasferita, da via Cantore, la sua attività. Vi insisteva anche uno stallaggio comunemente chiamato stàal de la cumènda. Poco più avanti, all'angolo di via Buoso da Dovara con la piazza di porta Romana vi era lo stallo della Jolanda, “con alloggio” diceva l'insegna. A porta Po, incuneato fra il portichetto della porta Nuova (demolita negli anni '50 del '900) e la via del Giordano, esisteva quello del “Dragone”. Il nome è passato ad un bar lungo il viale che arriva al fiume, d'angolo ad un chiostro di recente costruzione. Cessata la attività di stallaggio, su quell'area dietro la porta nuova venne messa una pista di legno per il ballo, di quelle che si smontavano a fine stagione. Il ballarotto venne nominato “L' Eridano”, ma ebbe vita breve.
A volte vi si esibiva nel canto Fulvio Signori, al tempo un giovane che frequentava porta Porta Po ma era di via del Giordano, recentemente scomparso. Passò la vita girando il mondo cantando sulle navi da crociera. Era conosciuto come “il Claudio Villa di Cremona”, si esibiva con il repertorio del “reuccio”, veniva ingaggiato a cantare nei matrimoni ed in feste religiose. Si diceva che la sua interpretazione dell' “Ave Maria” di Gounod non avesse confronti. Era stato notato dal maestro Umberto Sterzati che gli insegnò, gratuitamente, i primi rudimenti musicali. A Cremona una scuola di chitarra porta ancora il suo nome. Fulvio Signori frequentava le scuole elementari Realdo Colombo ed il maestro musicista lo aspettava all'uscita. Insieme andavano a casa dove, dopo averlo rifocillato con pane e mortadella, iniziava la lezione.
Alla cumènda nel lato che costeggia via Malombra, fino ad una quarantina di anni fa, vi aveva laboratorio uno dei gemelli Toscani, ultimi due suonatori popolari di fisarmonica. Erano un po' più grandi di me. Li si incontrava nelle osterie cittadine e nei baracchini beverecci rivieraschi del Po: dalla Manola, da Sandròon, dal Mento. Negli angusti vani di via Malombra, in quel minuscolo atelier uno di loro faceva il doratore di cornici, lampadari e altri oggetti di legno scolpito. Usava la “foglia d'oro”, arte appresa alla Cavalli e Poli, la fabbrica fra il borgo Loreto e la via per Brescia che venne colpita anche nel bombardamento aereo del 10 luglio 1944.
Sul finire della guerra e in periodo successivo quel Toscani lavorò dall'intagliatore in legno Allodi, con laboratori in via XX Settembre nella casa che fu dei Vergani o degli Sperlari. In anni bellici, in locali attigui, vi fu la sede della Croce Rossa poi, trasferitosi l'ente assistenziale, i locali ospitarono anche lo studio del notaio Ambrogino Squintani. Negli anni sessanta il doratore si mise in proprio aprendo la sua attività alla cumèenda.
“Il lavoro è scarso” mi raccontò una volta che mi fermai a chiacchierare . “La doratura a foglia d'oro, anche se non di metallo interamente pregiato, costa cara. Non ci sono più le grandi famiglie, gli eredi sembra che cerchino il lussuoso decoro in altri oggetti ed i rampolli nelle automobili, i musei latitano, il più grosso committente sono rimaste le chiese, ma hanno anche loro un giro quasi esclusivo ed è difficile entrarvi”. Alla cummènda durò poco, chiuse la baracca, non so cosa fece in seguito.
Da Allodi in via XX Settembre, al tempo del Toscani, come incisore e decoratore in legno, vi lavorò anche Milietto confidenzialmente chiamato con il sopranome di Bagonghi, accumulandolo ai nani che lavoravano nei circhi. Affiancato ad altri al comune tavolo da intaglio, per arrivare all'altezza del piano d'opera si serviva di una pedana che lo rialzava dal pavimento di calpestio per quel tanto che la natura gli aveva negato.. Tifoso appassionato della popolare squadra di calcio che portava lo stesso nome dell'ostessa di via Porta Po Vecchia, nei dopo partita del torneo di Lega Giovanile lo trovavi alla osteria della “Lisetta”. Con ampia gestualità, senza fare straripare una goccia dal bicchiere che teneva in una mano tesa verso l'alto, cantava coralmente, in allegra brigata, l'inno della compagine sportiva: “Della Lisetta siamo i più belli/ andiamo in pista al Vigorelli./ Dalla Lisetta beviam beviamo/beviamo il vino quel di Frascati/se di bottiglia oppur nostrano, per la Lisetta beviam beviamo” dove la pista del primo verso si poteva intendere in almeno due modi diversi. Era così anche nei casi di sfumata vittoria, la compagnia canterina trasmetteva sempre e comunque un senso di allegra felicità. Poi, tacitata l'esuberanza canora, era la volta dello svuotamento del bicchiere a ristoro della gola. Milietto fu molto popolare. Nei giorni del carnevale, con Candeggina e Ciapòon nelle vesti genitoriali e lui in quelle del bambino con bavaglino e biberon a forma di bottiglia con la scritta “vino” ad indicarne il contenuto, giravano per le strade rappresentando una parodia della Famiglia. Nessuno si sentì mai offeso per quell' ccostamento. A volte, non sempre, fu anche mascotte della Cremonese: quando le squadre erano già schierate al centro, prima del fischio di inizio partita, portava il pallone in campo depositandolo sul dischetto.
“Candeggina”, chiamato anche Camèel, faceva il venditore ambulante di detergenti e prodotti chimici: l'ipoclorito di sodio, che vendeva sfuso, lo si andava a prendere con un fiasco. Di soda ne aveva di due qualità: la molto rinomata soda Solvay, per produzione della quale venne inquinato per anni il mare di Rossignano. L'altra, quella caustica, veniva usata, bollita e miscelata con un grasso di chissà quale provenienza, per fare il sapone da bucato in casa, prodotto che ancora scarseggiava. Girava con il suo carretto per le strade ed i cortili, a richiamo della clientela lanciava il suo grido: candeggina!! a questo, certamente, doveva il suo sopranome.
Ciapòon era uno dei due fratelli Chiappa, elettromeccanici che sapevano rifare l'avvolgimento bruciato ai motori elettrici e tante altre cose che avevano a che fare con l'elettricità. Stessa specializzazione che lascia supporre come l'avessero ereditata dal padre, ma attività operative separate.
L'altro fratello Chiappa teneva il suo atelier nel primo tratto di dei Mille, compreso fra la il palazzo Cittanova e la chiesa di sant' Ilario, con ben due accessi verso strada, sbarrati dalle tipiche porte d'officina fatte di lamiera e rettangolini di vetro opaco incastonati in un telaio di ferro, opacità che nulla lasciava vedere all'interno. Riuscivo a sbirciare oltre gli sbarramenti se, per cose loro, una porzione di porta era aperta. Vi vedevo le stesse cose di quando guardavo nella bottega di “Ciapòn”: le penzolanti catene di un paranco. Delle due figlie di quel Chiappa di via dei Mille, che spesso incontravo nel mio transito, per anni non ho più saputo niente. Qualche giorno fa una di queste mi ha ravvisato, sono ancora contento di questo e che si sia fermata a parlare.
Ciapòon era un omone grande e grosso con officina-bottega al lato destro di via Mulino (oggi Arcangelo Ghisleri). Del suo laboratorio teneva sempre la non piccola porta spalancata, nessuno ostacolo divisorio si frapponeva fra questo ed il marciapiede. Quando passavo mi fermavo sempre un attimo a guardare, pensando che mi sarebbe piaciuto imparare a fare quel lavoro. Ciapòon, armeggiava in quello spazio, a volte alzava la testa rivolgendomi uno sguardo che pareva interrogativo. Le cose mi andarono non perfettamente come le avevo pensate ma ebbero una certa attinenza con quel mio lontano pensiero.
Poco oltre, verso piazza Venezia sullo stesso lato della strada, nello stabile che ospitava l'elettrauto Pigoli, Piero Guindani aveva la sua officina per la riparazione di automobili. Ricordo la sua “Balilla 508” marrone. Quando con il triciclo gli riportavo il pezzo da noi rettificato, si trattasse di un monoblocco o di un albero a gomito, mi dava sempre una mancia. Una delle figlie, Luciana, fu campionessa di canoa, nel 1960 partecipò alla Olimpiade di Roma, gareggiava per la Canottieri Leonida Bissolati. Con la sorella più giovane fummo amici. Da anni non la vedo, mi è stato detto che vive in un istituto, non so quale. Io la chiamavo con un vezzeggiativo del suo nome.
Di cognome era Castellucchio ma tutti lo chiamavamo Castello. Ci incontravamo alle manifestazioni del partito. Una amicizia con scarse frequentazioni durata tanti anni. Abitava, da solo, alla “cumèenda”. Aveva una lavoro all'ospedale, non certo in una delle qualifiche sanitarie. Forse non leggeva libri ma sicuramente leggeva il giornale quotidiano.. Gli piaceva essere informato e, quando poteva, la lettura di questo era la prima cosa che faceva al mattino, come suggeriva il partito, perchè, si argomentava, chi si propone di riformare il mondo primamente deve sapere cosa all'interno di questo succede. Leggeva della politica e dello sport. Perse il lavoro all'ospedale, per quanto ne so, a seguito di un litigio con una suora. A quel tempo le religiose svolgevano una funzione primaria all'intero del nosocomio. Venne sospeso dall'impiego, seguì una lunga vertenza con l'intervento sindacale e successivamente, per effetto di una sentenza, licenziato. Riprese a fare piccoli lavori d'imbiancatura, mestiere che aveva imparato prima dell'assunzione alla casa di cura. Sbarcare il lunario si faceva difficile, a volte s'imbatteva anche in chi non lo pagava per la prestazione. Io, al bisogno mio e a quello di famigliari, lo chiamavo. Era preciso e puntuale. Arrivava, con il triciclo carico di strumenti, all'orario convenuto, sistemava la scaletta e gli attrezzi vari, poggiava a terra ed accendeva una radiolina portatile e, sulle arie dalla musica trasmessa, canticchiandone le parole, si metteva all'opera. Pur nelle difficoltà aveva sempre un che di allegro, sorrideva con tutta la bocca che a me sembrava eccessivamente larga. Se accennava al suo disagio terminava sempre l'argomento con una scrollata di spalle accompagnata da parole che parevano di rassegnata accettazione del suo stato, con un tratto sorridente quasi a volere allontanare pensieri che certamente lo rattristavano. Mi chiamava Servent. Parlavamo di politica commentando gli accadimenti. Per il pasto del mezzogiorno preparavo per due, attento a limitare la quantità del vino messo in tavola.
Abitare alla cumèenda aveva un costo che non riuscì più a pagare, fece domanda per una casa popolare che tardava ad essere soddisfatta. Lasciò l'abitazione per circa tre anni passò le notti al dormitorio pubblico che più non era il Broggi e Simoni delle vie Larga-Floris ma una palazzina in largo Pagliari ora demolita. La notte lasciava il suo incustodito triciclo, con gli attrezzi da lavoro, in un angolo esterno della casa diventando oggetto di divertimento per buontemponi notturni. Gli procurai una catena con lucchetto perché potesse legare il tutto.
L'assegnazione della casa popolare arrivò, si trasferì al Cambonino, non so con quali cose rese abitabili le stanze. Certamente avere l'alloggio gli diede una spinta positiva ma non gli risolse le difficoltà che costantemente gli si ripresentavano. A volte lo incontravo nei pressi della piazza del Duomo, andava o veniva dalla Famiglia Cremuneesa contigua alla libreria della Franchina. Nel barettino sociale, come non aveva mai smesso di fare, eggeva accuratamente il giornale, certamente qualcuno gli offriva un caffè, era benvoluto. In uno degli incontri casuali, felice mi mostrò la sua nuova dentatura. Un compagno, mi pare si chiamasse Ghisani che faceva il dentista in via Bonomelli gli aveva fatto, gratuitamente, una protesi.
Se m'imbattevo in lui nell'ora giusta a volte lo invitavo a casa. Era dignitoso, rifiutava sempre dicendomi che avrebbe mangiato “en bufèt” alla Famiglia. Con tatto insistevo, dicendogli che la sua venuta mi avrebbe aiutato a vincere la mia solitudine. Non so dire se percepisse l'antifona o no ma finiva con l'accettare. Mangiava lentamente, e sicuramente troppo poco. Parlava delle cose del mondo, mai della sua condizione personale. Finito di mangiare gli offrivo da fumare anche per dopo.
Nel tempo quando andavo a far visita a Rosanna al cimitero passavo anche da lui, gli riassettavo la terra indurita dal sole dopo la pioggia, cercando di estirpare la sempre abbondante gramigna. A volte vi trovavo qualche fiore, segno che anche altri lo ricordavano.
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commenti
Luana
16 giugno 2024 08:53
Splendido articolo della Cremona di un tempo, con gli occhi lucidi Le dico grazie per aver ricordato mia nonna Lisetta..
Roberto
16 giugno 2024 19:42
Che bel racconto….grazie!
Gigi
16 giugno 2024 21:08
Gigi
Io sono nato a porta Po,e alcuni di questi personaggi me li ricordo.
Attilio Chiappa era lo zio di Domenico Luzzara dal quale ereditò l'attività. Bel racconto. Tempo fa ho letto un libro di Danilo Montaldi "Storie della Leggera" che parlava di tanti altri personaggi di Cremona. Bei ricordi
Mauro
17 giugno 2024 14:13
Da Topa a Castello bei ricordi. Con Castellucchio passato qualche ora a parlare piacevolmente la sera alla osteria di Pinin in piazza s. Michele. E quanto abbiamo giocato alle "frecce" in Cumenda.
Francesca Sora
19 giugno 2024 18:35
Bellissimo racconto
Michele de Crecchio
24 giugno 2024 00:40
Alla periferia meridionale di Persichello (non vi passo, purtroppo, più da molto tempo) sorgeva, fino a non molti anni orsono e forse, malconcia, si sorge ancora) la Cascina Commenda, ben nota nella storia d'Italia perché vi era nato il più famoso dei "garibaldini" cremonesi, quel famoso Giacomo Pagliari, caduto nell'assalto alla romana Porta Pia. Mi auguro che, se non già avvenuto, venga, prima o poi, effettuato il ripristino della lapide marmorea (spero ben conservata nei magazzini comunali) che ricordava, sulla parete esterna della bella cascina, la morte in battaglia dello sfortunato concittadino convinto e coraggioso garibaldino.