26 agosto 2025

Lassù sulle montagne. Le scoperte della fatica e della libertà del cammino, dei rifugi, dell’autostop, dei Beatles e di altro ancora, fatte da un bambino degli anni ’60 con l’oratorio di San Luca

E alla fine con mio fratello Paolo sono proprio tornato sul luogo del delitto. Dopo 53 anni ci voleva davvero. Abbiamo cominciato ad andare a Campo Franscia, in Valmalenco (SO), nel 1968 e per un’epopea durata cinque estati, fino al 1972, ci siamo aggregati al gruppo di arditi dell’oratorio di San Luca che nella seconda metà di luglio partiva in pullman sotto la guida intelligente e la pedata convincente di padre Luigi Villa. Noi due eravamo proprio bambinetti, nel primo viaggio Paolo stava per compiere i suoi nove anni e io avrei dovuto attendere ancora quattro mesi per poterne vantare undici. Non saprei dire come fu, forse tutto nacque da una proposta di padre Villa ai miei genitori, ma non mi stupirei se, malgrado la nostra età, fu mio padre a prendere l’iniziativa. Sta di fatto che alla ripresa di ottobre alcuni i miei compagni di scuola dissero tra smorfie che erano stati in colonia, io invece con ferma soddisfazione dichiarai che coi Barnabiti ero stato “in montagna a 1500 metri”.  

Campo Franscia, collocato in una conca dominata dal Sasso Moro, nel gruppo del Bernina, in quegli anni era un paesino di una trentina di case, o poco più, in parte ancora in fase di ristrutturazione. La strada asfaltata della Valmalenco proveniente da Lanzada si fermava lì. Proseguiva poi con una sterrata solo per autorizzati che conduceva a Campo Moro e a Gera, dove tra gli anni ’50 e ’60 furono costruite due dighe per ricavare i bacini utili al funzionamento della centrale idroelettrica ivi collocata. Il cartello stradale sbiadito a sfondo blu che indicava la sospirata meta era collocato di sorpresa subito all’uscita dell’ultima galleria e veniva immancabilmente accolto sul pullman da un liberatorio grido di gioia. Si apriva un ampio piazzale ai cui margini incombevano quattro imponenti silos di color arancione, allora ormai dismessi ed oggi non più presenti, ma utilizzati all’epoca della costruzione della due dighe per caricare di sabbia e cemento i camion che rifornivano il cantiere. Oltre ad essere il parcheggio per le auto dei visitatori occasionali e dei villeggianti presso i due alberghi su cui si affacciavano, la spianata fungeva anche da spazio di manovra dei camion che trasportavano grandi pietre tagliate; la zona infatti è caratterizzata dalla presenza di cave di serpentino, in particolare del pregiato serpentino Verde Vittoria. Il nostro pullman però virava a sinistra e iniziava ad inerpicarsi per l’ultimo breve tragitto che, superato il ponte sul torrente Lanterna, formatosi proprio in paese dalla confluenza di altri due, ci portava il più vicino possibile a Villa Lena, destinazione finale. Restava comunque un ultimo tratto: valigia in spalla o in qualsiasi altra goffa collocazione, l’iniziatica ascesa lungo il sentiero che introduceva alla vacanza era irrimediabilmente percorsa a piedi, compendiata da edificanti scenette che dalla garbata insofferenza giungevano fino alla scomposta disperazione.

Villa Lena stava proprio a ridosso di una pietraia di serpentino, che partiva da dietro la casa e giungeva ripida fino ai piedi di una montagna non ancora intaccata dai tagli operati dai cavi d’acciaio che scorrevano veloci lungo incomprensibili circuiti determinati dal posizionamento di diverse carrucole. Quando non sapevamo cosa fare, ci arrampicavamo su questa pietraia, esterna alle cave attive, alla ricerca dei cosiddetti demantoidi, i minerali di color verde caratteristici della zona, incastonati nelle pietre o anche separati; ai nostri occhi dovevano valere moltissimo a motivo del nome che richiamava quello del diamante, tant’è che per noi erano “diamantoidi”. Ne trovavamo, anche di belli, e li mettevamo in valigia per un futuro da benestanti. La casa, costruita in pietra, si sviluppava su due piani ed era la spartana sistemazione fatta dai Barnabiti di quello che un tempo era stato un alloggio dei minatori. A piano terra cucina e refettorio con camino funzionante, al primo piano un ristretto settore con camerette singole o doppie e, attraverso una seconda scala, un’ampia camerata con una trentina di letti che dava su una lunga balconata in legno. Acqua calda solo in invocati momenti di grazia. Si trattava del dono fatto quale segno di riconoscenza al padre Barnabita Mario Salvadeo che per ragioni di salute aveva dovuto abbandonare la comunità di Milano e ritirarsi per un buon periodo lì in valle. Finì col diventare il cappellano dei minatori della Valmalenco facendosi benvolere da tutti loro. Anche dopo la risoluzione del suo problema di salute, il padre continuò per anni durante le estati a risiedere in valle; noi lo vedemmo in più occasioni, quando veniva a trovarci a Villa Lena o quando si recava a celebrare nella chiesetta di Santa Barbara a due passi dalla casa.

A dire il vero il primo approccio ai monti per me e i miei fratelli, abituati solo al mare, era avvenuto a Ponte di Legno presso la casa in Val Sozzine che don Franco Amigoni apriva per le estati dei suoi parrocchiani di Borgo Loreto. Proprio lì nel dopoguerra mia madre trascorreva le vacanze con le amiche dell’oratorio e sempre lì, nei prati circostanti, mio padre teneva il campo scout del Reparto “Giovanni Cazzani” da lui aperto nel maggio 1946. La vicenda fu completata proprio da don Franco davanti all’altare il 20 ottobre 1954. Sicchè in quell’estate del ’67 si trattò anche per i miei genitori di un ritorno sul luogo del delitto, sia pur con a carico noi quattro nuovi assassini. Fu dunque a Villa Albina che a naso in su per la prima volta guardai ammirato il Castellaccio e le sue nubi, che corsi e ruzzolai per scoscesi prati fioriti, che mi bloccai stupito per il vigore e il fragore del torrente Narcanello. Ma a Villa Lena dei padri “Bernabiti”, come li chiamava mia nonna Paolina, senza la tutela dei genitori la montagna si rivelò di tutt’altra maestosità, con una più intensa percezione degli spazi e dei silenzi e con i primi brividi della piccolezza e della solitudine davanti all’immensità.

Ma fu soprattutto una scoperta del cammino, delle sue discese e delle sue salite, con le nostre gambette a calzettoni abbassati che trionfalmente procedevano in libertà come per conto proprio fino all’impatto faticoso con la necessità di dover andare avanti comunque. Il fiato, io ricordo il fiato, questa nuova realtà che non avevo mai ascoltato prima, lì si faceva davvero corposa, fino a diventar fiatone. Lungo quegli anni però il cammino trasfigurò la fatica e sempre più imparammo a guardare con coraggio e tenacia alla meta. Camminavamo tantissimo, padre Villa, che a causa della sua stazza era il primo ad arrancare in salita, ci portava frequentemente per rifugi, di cui scoprii l’esistenza con una certa sorpresa. Apriva la vacanza conducendoci allo Scerscen a 1800 metri, un’ora di salita, “per fare la gamba”, ci diceva. La meta più ambita era però quella del Rifugio Marinelli a quota 2813 metri, oltre il quale ci era assolutamente proibito procedere attraverso il ghiacciaio del Bernina fino al rifugio Marco e Rosa; da là si partiva per arrivare in cima. Ci alzavamo presto e in giornata andavamo e tornavamo dal Marinelli. Un anno, giunti al rifugio, comprai una cartolina che lo raffigurava e vi raccolsi i timbri di tutti i rifugi che costituivano l’itinerario. Prestigiosissimo trofeo da mostrare con altezzosa superiorità alle pippe rimaste a Villa Lena; lo conservo ancora.

Però la gita indimenticabile rimarrà per sempre quella al Lago Palù, per me legata al formidabile protagonismo di mio fratello Paolo. Sulla via del ritorno, infatti, noi “bàgoli” avevamo perso il contatto con i “grandi” (erano queste le categorie di catalogazione pacificamente in uso); si era in uno spazio a pascolo molto ampio ed avevamo incertezze sulla direzione da seguire, ma d’improvviso sul crinale di un dosso abbastanza lontano qualcuno di noi individuò lo scorrere della fila del gruppo di testa. Chiamammo per farci notare ma quelli, pur vedendoci, continuarono a camminare; così si scatenò la corsa collettiva per raggiungerli, prima che potessero di nuovo scomparire. Facilitati dal terreno in discesa, passammo a gran velocità a fianco di un gruppo di baite. Fu lì che sulla direttrice da lui tenuta, Paolo trovò un ampio letamaio di cui naturalmente si accorse solo dopo averlo attraversato tutto di gran carriera ed averci lasciato nel bel mezzo uno scarpone. Mi toccò bussare dai malgari che vociando e sghignazzando per l’inatteso siparietto, lo recuperarono con delle aste. Così anche noi facemmo nostro il motto della giornata elaborato dalla ricercata poetica dei più grandi: “il Lago Palù non mi cocca più”. Nondimeno Paolo immerse in un abbeveratoio gli eleganti scarponcini scamosciati d’un tempo, li scosse per bene e se li rimise; giunto a Villa Lena, arginò risolutamente il problema del puzzo chiudendoli per il resto della vacanza in sacchetti di plastica. Lascio immaginare la condizione in cui li trovò mia madre quando aprì circospetta quella povera valigia dal fetore inequivocabile. 

Il richiamo del calcio rimaneva però sempre incontenibile e così scendevamo a piedi al paese di Lanzada, tagliando la strada asfaltata lunga nemmeno una decina di chilometri, grazie al vecchio sentiero che da là conduceva fino al Dosso dei Vetti passando per Campo Franscia, un tempo l’unico collegamento prima della costruzione della strada tracciata dall’Enel nel 1950 fino a Campo Moro. Su un campo regolare con tanto di porte, il gestore del bar lì a fianco ci dissanguava ogni anno diffondendo dai gracchianti altoparlanti a tromba sempre la stessa canzone ripetuta a ciclo continuo per tutta la durata della partita. “Papa Giovanni, il papa della bontà” era un interminabile brano di un imperdonabile sconosciuto che raccontava, accompagnato da una fisarmonica a tempo di valzer, vita e virtù di Giovanni XXIII. Ne ricordo ancora la musica, le parole del ritornello e perfino qualche passaggio delle strofe.  E così nell’arco di un pomeriggio avevamo energie per scendere a Lanzada, giocare a calcio e poi risalire. Non sempre però nel ritorno riuscivamo a trovare gli imbocchi del vecchio sentiero che si affacciavano sulla strada, così finivamo per percorrerne dei tratti che comprendevano anche brevi gallerie. Qui però tornavano utili i più grandi che azzardavano per tutti l’autostop, emblema dell’effervescenza giovanile di allora. I poveretti che si fermavano erano così costretti a stipare in sovrannumero le loro auto, ma lo facevano quasi sempre in allegria.  

I “grandi” inoltre erano utili per i loro dischi che portavano da casa, i famosi 45 o i 33 giri. Fu sul giradischi piazzato nel refettorio di Villa Lena che ascoltai per la prima volta i Beatles insieme ad altri complessi o cantanti stranieri e italiani allora in auge e per me, abituato a sentire in casa i canti di montagna del coro della SAT, il passaggio fu piuttosto ardito. Quando un paio di settimane fa sono ritornato con mio fratello a Campo Franscia, sono entrato nell’albergo Edelweiss, stavolta non per comprare le cartoline che poi spedivo all’ultimo, tant’è che arrivavano dopo il nostro ritorno a Cremona. Bevendo un caffè, con Paolo raccontai alla barista la nostra vicenda. Saputo che eravamo del gruppo di Cremona, ci elencò al volo i nomi di quattro o cinque di questi ragazzi un po’ più avanti di noi negli anni, se li ricordava ancora. E così cinquant’anni dopo sono venuto a sapere che proprio questi “grandi” si trovavano di nascosto con lei e qualche altra ragazzetta per andare al Tanana, un buco di bar in cui però nella sala inferiore c’era uno dei pochi posti in valle in cui si ballava. Naturalmente a castigati orari pomeridiani che oggi mettono solo tenerezza.

Ma da ultimo non posso dimenticare la signora Colomba, un atletico donnone di Lanzada che in cucina faceva tutto e che con vigorosi colpi di scure ben assestati spaccava tronchi a tutto spiano per far legna per il camino del refettorio e per la stufa della cucina. Aveva al contrario un marito secco secco che ogni tanto veniva a trovarla insieme ad un fido ed arruffato spinone sardo che sapeva il fatto suo nell’eseguire a puntino gli ordini. Se poi qualcuno stava male con lo stomaco, aveva febbre, raffreddore o qualche altro malanno, la Colomba usciva a raccogliere i fiori di timo e li metteva in infusione in una tazza di acqua calda zuccherata. Andando con lei a raccoglierli, imparai a riconoscerli. E con “l’acqua di timo”, come lei la chiamava, passava tutto. Nell’ultimo anno al posto di padre Villa venne ad accompagnarci un barnabita più morbido, così che alcuni “grandi” si sentirono autorizzati ad infastidire continuamente noi “bàgoli”; qualcuno se ne lamentò anche con la signora Colomba e su sua richiesta le fece il nome di quello più aggressivo che guarda caso era anche il più robusto. Il giorno dopo non venne a trovarla il marito ma il figlio che fisicamente aveva preso tutto dalla madre ed era anche più grande dei “grandi”. Attese pazientemente il soggetto in questione, lo puntò e davanti a tutti gli piazzò "d'emblée" un ceffone da antologia accompagnato da qualche sommessa parola che il pur tarchiato malcapitato ascoltò impietrito. E nessun “bàgolo” ebbe più alcun problema fino alla fine della vacanza. Anche in assenza di pre-requisiti, gli essenziali progetti educativi di un tempo contro il bullismo conseguivano non di rado il loro successo formativo... 

Nelle foto: Campo Franscia e il rifugio Marinelli in cartoline dell’epoca. Il trofeo dei timbri dei rifugi per giungere al Marinelli

 

Maurizio Cariani


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