10 febbraio 2023

Con quanta apertura umana, comprensione, condivisione affrontiamo la “Giornata del ricordo”?

Presi dal vortice delle polemiche, alla fine e troppo spesso, delle vittime della storia in quel pezzo di terra triestina, giuliana e dalmata, non importa più nulla a nessuno. Quella “catastrofe umanitaria” – mille volte meno grave della shoah ma sempre tragedia umana di persone e di comunità – viene messa nel tritacarne della lotta politica. Considero “miserabile” il tentativo di porre le vittime delle Foibe e l’esodo giuliano -dalmata come contraltare della “soluzione finale” progettata e attuata dai Nazisti. I delitti, però, pur infinitamente minori, ci sono stati, le vittime non sufficientemente risarcite né sul piano morale, né su quello sociale. Delle persone uccise, torturate, insultate e umiliate, dell’esodo forzato di 300.000 mila individui con le loro famiglie, sradicati dai territori dove erano vissute, dalle loro case, dai loro ricordi, ci si è troppo a lungo dimenticati. 

Le loro storie sono state allontanate, taciute, quasi ammassate nella catasta dei rifiuti delle pagine della storia da mandare al macero. Al massimo rievocate al solo scopo di colpire il proprio nemico politico. E assistiamo ancora in questo 2023 a politici e intellettuali di destra che sollecitano incontri e commemorazioni sul “Giorno del ricordo”, ma sono assai più taciturni nel “Giorno della memoria”. Mentre quelli di sinistra quando intervengono in tale circostanza, cercano di attenuare la gravità di quanto compiuto dai partigiani titini, citando sempre i soprusi, veri e documentati, della politica fascista nell’area giuliano-dalmata. Lo schema retorico seguito è sempre lo stesso. Si ammette in forma stringata la responsabilità della “propria parte”, e subito dopo si elencano le colpe della parte avversa in maniera assai più analitica. E la parola, meglio, il sentimento della “pietas” scompare dalla coscienza dei contendenti. Pietà? Compassione? Richiesta di perdono? Nulla.

Delle vittime della storia non importa certo alla destra, che strumentalizza quella tragedia non solo per giustificare le sue orribili colpe, ma anche per infangare la Resistenza e coloro che considerano la Lotta di Liberazione un momento fondativo della democrazia in Italia e della Carta Costituzionale. La domanda “E allora le foibe?” è di una bassezza morale incredibile. L’eventuale colpa del tuo nemico lava forse la tua, ben più grande, anzi, enorme? Ma, mi rattrista dirlo data la mia storia politica e le mie convinzioni etiche, di quella catastrofe umanitaria, in fondo, non interessa nemmeno a troppi rappresentanti delle organizzazioni partigiane né ai tanti gruppi della frantumatissima estrema sinistra. Questa convinzione è rafforzata anche da una tesi dello storico Eric Gobbetti, autore di un libro importante come “E allora le foibe?”, quando scrive che il giorno del ricordo è il momento in cui la versione del neo fascismo italiano diventa la versione ufficiale dello Stato italiano. Quindi Ciampi, Napoletano, Pietro Grasso, Laura Boldrini, Mattarella, quando hanno commemorato tale evento, si trovano tutti accodati al neofascismo? 

Non ho mai udito né letto dichiarazioni nette del tipo: “Stigmatizziamo quei gruppi di partigiani titini, che hanno tentato di eliminare, insieme ai nazisti e fascisti, ogni tipo di minoranza e di pluralismo, e anche dirigenti e gruppi di antifascisti che combattevano al loro fianco, ma non erano né comunisti né slavi”. Un falso per omissione di dati storici accertati. Sarebbe come citare le esplosioni a Capaci e in Via D’Amelio, senza alcun riferimento a “Cosa Nostra”, oppure le morti sul lavoro, senza imputarle alla ricerca esasperata del profitto padronale. Che pena! Il fatto che gli israeliani abbiano subito la più grande crudeltà della storia, non li giustifica per il fatto di essere spesso spietati col popolo palestinese. Nelle migliaia di parole pronunciate e scritte sul “giorno del ricordo”, quante sono dedicate a queste vittime della storia da onorare in quanto vittime? Quante le “richieste”, meglio dire “preghiere”, di perdono?

Una grave carenza di umanità, questa, caduta che non ebbe il grande latinista Concetto Marchesi, esponente di spicco del PCI, il celebre professore universitario che in un appello alla fine del 1943 aveva invitato i suoi studenti a lottare per la libertà unendosi ai loro compagni operai e contadini, quando alla fine del 1945 propose all’Università di Padova di concedere la laurea honoris causa a Norma Cossetto, stritolata dalla crudeltà della storia di quel periodo e successivamente sempre strumentalizzata in una diatriba infinita. 

Molto più onesto era stato Pier Paolo Pasolini, iscritto al PCI, che a proposito dell’uccisione del fratello Guido Pasolini, partigiano, nell’eccidio di Porzus, scrisse a “Vie Nuove” nel 1961: “Lei sa che la Venezia Giulia è al confine tra l’Italia e la Jugoslavia: così, in quel periodo, la Jugoslavia tendeva ad annettersi l’intero territorio e non soltanto quello che, in realtà, le spettava. È sorta una lotta di nazionalismi, insomma. Mio fratello, pur iscritto al Partito d’Azione, pur intimamente socialista (è certo che oggi sarebbe stato al mio fianco), non poteva accettare che un territorio italiano, com’è il Friuli, potesse esser mira del nazionalismo jugoslavo. Si oppose, e lottò. Negli ultimi mesi, nei monti della Venezia Giulia la situazione era disperata, perché ognuno era tra due fuochi. Come lei sa, la Resistenza jugoslava, ancor più che quella italiana, era comunista: sicché Guido, venne a trovarsi come nemici gli uomini di Tito, tra i quali c’erano anche degli italiani, naturalmente le cui idee politiche egli in quel momento sostanzialmente condivideva, ma di cui non poteva condividere la politica immediata, nazionalistica”. 

Quasi nessun cenno viene fatto a quanto affermato nella Relazione della Commissione mista storico-culturale italo-slovena, istituita nel 1993 e che concluse i suoi lavori nel 2000, che va letta tutta, non una pagina sì e una no: “Tali avvenimenti si verificarono in un clima di resa dei conti per la violenza fascista e di guerra e appaiono in larga misura il frutto di un progetto politico preordinato, in cui confluivano diverse spinte: l'impegno ad eliminare soggetti e strutture ricollegabili (anche al di là delle responsabilità personali) al fascismo, alla dominazione nazista, al collaborazionismo e allo stato italiano, assieme ad un disegno di epurazione preventiva di oppositori reali, potenziali o presunti tali, in funzione dell'avvento del regime comunista, e dell'annessione della Venezia Giulia al nuovo Stato jugoslavo. L'impulso primo della repressione partì da un movimento rivoluzionario che si stava trasformando in regime, convertendo quindi in violenza di Stato l'animosità nazionale e ideologica diffusa nei quadri partigiani”. 

Sono convinto che la responsabilità delle azioni compiute e delle loro conseguenze sia individuale. Essere responsabili significa saper rispondere di ciò che di persona si è fatto (o omesso di fare) e delle conseguenze delle proprie azioni. Perciò devo chiedere perdono a chi ho ferito, umiliato, ucciso. E se rappresento una istituzione, chiedo perdono anche a nome di chi rappresento. “Quando Willy Brandt visitò la capitale polacca nel dicembre 1970 per firmare il Trattato di Varsavia, si inginocchiò davanti al monumento ai caduti della Rivolta del Ghetto di Varsavia. Non aveva previsto questo inginocchiamento, che è diventato il simbolo del nucleo morale della sua politica estera, e quindi non ne aveva parlato con nessuno. Il luogo stesso, dove gli mancavano le parole, gli ha suggerito di chiedere perdono. Come cancelliere, ha chiesto così perdono per i crimini commessi in nome della Germania da un regime di cui lui stesso era stato vittima”. 

Sono convinto che di fronte a un delitto, ci si debba porre in un’ottica di “giustizia riparativa”, non di giustizia punitiva né di vendetta, partendo da una richiesta di perdono del carnefice alla vittima. Un noto giurista italiano (Adolfo Ceretti, ma con lui vanno citati altri studiosi di grande spessore come Luciano Eusebi, Ivo Nissola, Gherardo Colombo, Gustavo Zagrebelsky) ha scritto che occorre “superare la logica del castigo, muovendo da una lettura relazionale del fenomeno criminoso, inteso primariamente come un conflitto che provoca la rottura di aspettative sociali simbolicamente condivise. Il reato non dovrebbe più essere considerato soltanto un illecito commesso contro la società, o un comportamento che incrina l’ordine costituito – e che richiede una pena da espiare – bensì come una condotta intrinsecamente dannosa e offensiva, che può provocare alle vittime privazioni, sofferenze, dolore e persino la morte e che richiede, da parte del reo, principalmente l’attivazione di forme di riparazione del danno provocato”. 

Tale discorso va esteso dall’area dei delitti “privati” a quella dei delitti “pubblici”, come è stato fatto in Sud Africa da Nelson Mandela (Commissione per la Verità e la Riconciliazione) e in Ruanda a proposito del genocidio del 1994. Attribuire al tribunale il binomio “verità/riconciliazione” derivava dalla posizione non violenta di Mandela, in quanto sosteneva che il perdono dovesse essere la principale risposta dei neri: a condizione che gli afrikaner fossero amnistiati qualora si confessassero per le loro crudeltà di fronte alle vittime. Mandela scelse di sanare le ferite del Sudafrica attraverso la costruzione di un dialogo tra vittime e carnefici, in antitesi al paradigma della "giustizia dei vincitori”.

Quali forme di riparazione possibili anche nel Giorno del Ricordo? La prima, fondamentale, è di carattere morale: la vittima è un soggetto umano con certo dei diritti inalienabili, ma anche con una sensibilità, dei sentimenti, al centro di relazioni famigliari, amicali, sociali, che vanno capite nella loro profondità, una dignità che va ripristinata e onorata pubblicamente. Poi l’offesa e il danno vanno riparati anche sul piano sociale, e se possibile materiale. 

Scrisse una volta Etty Hillesum, una delle vittime del nazi-fascismo: “Una cosa, tuttavia, è certa: si deve aumentare la scorta di amore in questa terra. Ogni briciola di odio che si aggiunge all’odio esorbitante che già esiste, rende questo mondo più inospitale e invivibile”. I gruppi fascisti e nazisti, veri o mascherati, tale odio lo stanno spargendo a palate. Ma noi, che fascisti e nazisti non siamo, che ci muoviamo all’interno dei principi sanciti dalla Costituzione fondata sulla lotta di Liberazione, in questa vicenda del giusto ricordo, quanto amore e rispetto per le vittime abbiamo saputo donare? Con quanta apertura umana, comprensione, condivisione affrontiamo la “Giornata del ricordo”? 

 

 

Carmine Lazzarini


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commenti


Anna Maria Pedretti

13 febbraio 2023 08:25

Ciao Carmine trovo il pezzo che hai scritto per il giorno del ricordo molto intenso e portatore di una verità sacrosanta. Sostituire l'amore con l'odio, chiedere perdono, non fare delle vittime oggetto di propaganda politica. Di qualunque parte. Grazie di averlo voluto condividere con me