Donne di Kabul
Non raccontiamo favole di principi che salvano principesse, Kabul è tutta un’altra storia.
Esisteva un ideale riassunto nella parola libertà che, oggi, sembra essersi dissolto nell’aria.
Le donne di Kabul muoiono nella calca, muoiono schiacciate nella corsa alla fuga, restano uccise da colpi di kalasnikov, sottomesse in una città bastonata dal terrore. C’è davvero poco da sperare per i diritti alle donne, c’è poco da sperare per ciò che ne sarà dei bambini.
La guerra non ha mai i guanti di velluto. Lo sa bene chi l’ha vissuta, lo sa bene chi l’ha vista, non è un film, è vita vera. Non è mai facile trovare le parole più adatte per descrivere l’orrore. Si scrive per lasciare una testimonianza, si scrive per far riflettere. Sono stati spesi fiumi di parole ed immagini, ma la macchina del tempo ha riportato l’Afghanistan a quasi 20 anni fa.
Oggi è diventato un dato di fatto che la comunità internazionale sia stata sconfitta e rappresenta unicamente un luogo in cui cercare riparo. Altre nazioni con la loro forza economica e politica pronte come avvoltoi, intorno alla quasi esamine preda, a pianificare i prossimi investimenti. Ma chi pagherà il conto finale della lotta al potere? La risposta, purtroppo, è fin troppo semplice e crudele: le donne e i bambini.
Donne che avevano creduto nella possibilità di ritornare completamente libere, libere di essere se stesse, libere di mostrare il volto, lo sguardo, libere di lasciare i capelli al vento, libere di studiare e di realizzarsi, libere di indossare una paio di jeans. Oggi tutto è cambiato. È bastato un attimo. La storia insegna che in ogni popolo, in ogni epoca, il conto della guerra è sempre stato pagato dalle donne.
Lo sanno bene le donne di Srebrenica, Bosnia. Il peggior massacro avvenuto in Europa, dopo la seconda guerra mondiale. È accaduto tra l’11 e il 19 luglio del 1995, quando le forze serbe di Bosnia trucidarono quasi ottomila uomini e ragazzi musulmani. I soldati serbi di Bosnia e la polizia radunarono uomini e ragazzi tra i sedici e sessant’anni, civili innocenti, non avevano fatto nulla. Riuniti per essere fucilati e seppelliti in fosse comuni. E le donne? Le forze serbe trasportarono circa ventimila donne e bambini nelle aree, definite sicure, controllate dai musulmani, ma non prima di aver stuprato e aver fatto violenze indescrivibili a moltissime ragazze e donne persino alcuni bambini non furono risparmiati. Una violenza talmente atroce che gli Stati Uniti, dubbiosi fino a quel momento, decisero di intervenire per metter la parola fine al conflitto in Bosnia. La storia si ripete, è tremendo ammetterlo.
Ricordo che intorno al 2000, per motivi professionali, decisi di accodarmi ad una missione di pace per incontrare le donne di Srebrenica. Mi aprirono le porte delle loro case semplici. Erano state ridotte in povertà ma non si sono mai arrese. Realizzavano bambole di pezza e grandi babbucce di lana per portare il pane in tavola. Raccontano con coraggio il loro vissuto. Sono vite difficili, narrate con voci tremanti e strozzate. Ci scambiamo sguardi, ci stringiamo in un abbraccio, piangiamo insieme. Sono sguardi difficili da dimenticare, sono parole rimaste impresse nella mente. Il rispetto che impongono le fanno diventare parti di te. Nulla è più come prima. Violate nell’intimo, calpestate nella dignità unicamente per dimostrare la forza del potere dominante. Logiche perverse che hanno intriso ogni guerra e che, purtroppo, appartengono a società retrograde o, forse, senza troppa filosofia, appartengono all’essere malvagio. Ma non posso non fare un parallelismo di tutt’altro genere.
Ricordo l’8 marzo del 2012, festa della donna, in cui mi trovavo presso la base militare UNIFIL a Shama, al confine tra Libano ed Israele come giornalista embedded. In quell’occasione venni invitata per raccontare una “Festa della Donna” lontana dai canoni comuni. In quei luoghi non si gioca, non si scherza. In quei luoghi si costruisce il concetto di essere donna dalle basi. L’accettazione dell’essere femminile, in quanto persona, senza pregiudizi di sorta, è il termometro attraverso il quale misurare l’evoluzione di una società. In quell’occasione, in una sede della Croce Rossa di Tiro, alla presenza della First Lady Libanese di quel periodo, del Generale Serra, allora capo della missione italiana e comandante delle forze UNIFIL ed altri mille rappresentanti di potere, ricordo un incontro dal titolo “Il ruolo della donna in politica e nel processo di pace”. Io ero lì con loro. Pronta a cogliere ogni sguardo. Alla presenza di una platea di delegazioni di donne soldato italiane, turche, indiane, malesi, donne pronte a dare la vita per l’ideale di pace e libertà. La Carta delle Nazioni Unite del 1945 rappresenta il primo accordo internazionale ad affermare il principio di equità tra uomo e donna. Uno scritto che specifica che solo attraverso l’eguale partecipazione delle donne possiamo raggiungere l’obiettivo riconosciuto di una società sostenibile, pacifica e giusta.
Un concetto molto lontano per chi guarda all’Afghanistan. Ragazze sopra i 12 anni diventate bottini di guerra, studentesse che nascondono i diplomi e costrette a mettere il burqa, immagini di donne in pose “occidentali” vengono ricoperte da vernice bianca, la vita delle donne afghane è in pericolo, è in pericolo il concetto di donna così come lo intendiamo noi occidentali. Il dominio sul genere femminile è materia di studio dall’inizio della storia dell’uomo. Pagine segnate da equilibri di potere e supremazia che si ripetono con ricorsi storici, pertanto, non possono lasciare nel silenzio una Kabul sanguinante che sta urlando tutta la sua disperazione. Dobbiamo mettere fine ad una storia che si ripete da troppo tempo.
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