Gesù Cristo è tutt’altro che un fantasma!
Tutto il Vangelo, ogni suo singolo versetto, mira a suscitare nel lettore una domanda fondamentale: “Chi è Gesù per me? Che cosa rappresenta per la mia vita?”. Il Nuovo Testamento è, in fondo, un viaggio affascinante che ha come meta l’incontro con una persona reale, viva, contemporanea, capace di dire parole umane che profumano di divino e che sanno interpretare perfettamente gli aneliti dell’animo di ciascuno.
Noi uomini, purtroppo, siamo fondamentalmente dei distratti e dei superficiali: dare tutto per scontato è facile e semplice, non impegna la mente e il cuore, non tormenta e non angoscia! È quasi naturale non interrogarsi mai sulla qualità, lo spessore, la profondità del proprio amore nei confronti del partner, dei figli, degli amici. Nelle relazioni umane si cerca sempre di evitare le verifiche, gli esami di coscienza, sperando – spesso invano – che tutto scorra placidamente o che gli altri non facciano emergere criticità e conflitti! Si dialoga poco, ci si guarda negli occhi ancora meno, non ci si “tocca” - nel senso di abbracciarsi, stringersi, accogliersi - più! La vita frenetica e intricata che ciascuno vive, sempre di corsa anche quando si avrebbe il tempo di incrociare gli occhi dell’altro, complica le cose rendendoci sempre più insofferenti e aridi.
Il “dare tutto per scontato” è certamente un modo per avvelenare i rapporti: l’altro non si sente più riconosciuto come importante, percepisce di essere stato abbandonato, intuisce di essere poco interessante se non addirittura inutile. In questo modo l’altro diventa, lentamente, ma inesorabilmente, un estraneo, con il quale si fatica ad interagire e dialogare.
L’esperienza amorosa è molto simile a quella di fede: si tratta, infatti, di relazioni interpersonali che hanno tantissimi punti di contatto.
Se il cristiano non “frequenta” Dio, cioè non prega coinvolgendo il proprio cuore e non solo le labbra, non medita la Parola di Dio facendola risuonare nella concretezza del quotidiano, non si lascia provocare dall’Eucaristia che spinge a divenire pane spezzato per la vita del proprio prossimo, non si lascia coinvolgere dalla misericordia come esperienza da accogliere e poi donare, non prende sul serio le beatitudini come la grande occasione per umanizzarsi, allora il cristiano rischia di credere solo in un fantasma.
I fantasmi – lo sappiamo bene – non esistono! Ma nell’immaginare popolare essi sono eterei, inconsistenti, terrificanti. Appaiono e subito scompaiono; fanno parte del regno dei morti e per questo fanno tremare le gambe ai vivi. Difficilmente con essi si può instaurare un dialogo, una relazione, tendono a fuggire o a impaurire. Solitamente non amano coabitare con le persone e se sono costretti fanno dispetti e cercano di ogni modo di liberarsi da presenze umane fastidiose.
I discepoli – secondo la narrazione di Luca – sono sconvolti perché credono di vedere un fantasma: nonostante abbiamo vissuto con Gesù tre anni, condividendo con lui ogni attimo della sua esistenza, non l’hanno conosciuto in profondità. Sono rimasti schiavi dei loro pregiudizi su Dio, forse hanno dato per scontato tante cose, non si sono lasciati interpellare dalle sue parole pensando che fossero sempre dirette ad altri e non a loro stessi, non hanno percepito quanto amore e quanta misericordia hanno ricevuto, non hanno compreso di quanta grazia sono stati testimoni.
Per questo Gesù li invita anzitutto a guardare, cioè ad affinare la sguardo, a vincere superficialità e presunzione. Non si può solo “posare lo sguardo” sul Vangelo della domenica, ma occorre starci, interrogarsi se quelle parole possono davvero illuminare la propria vita, le proprie scelte, il proprio modo di pensare, il proprio rapporto con la realtà e con gli altri. Ma non basta! Occorre riconoscere – direi decidere! - che quelle parole sono essenziali per la propria esistenza, occorre metterle in pratica anche se costa fatica, anche se sono oscure, anche se non si vedono immediatamente gli effetti, anche se tutto ciò che si ha attorno dice il contrario. Occorre guardare a Cristo come una persona viva che ha sotto controllo la situazione, conosce esattamente chi siamo e sa precisamente dove dobbiamo andare. Guardare lui e un po’ meno al nostro ombelico. Occorre, insomma, essere meno autoreferenziali e vivere la fede nella sua autenticità: fidarsi contro ogni apparenza!
Occorre poi toccare Gesù, soprattutto le sue mani e i suoi piedi feriti. L’esperienza cristiana è ciò di più concreto e reale che ci possa essere. Il Risorto chiede ai suoi discepoli di toccarlo cioè di cercarlo non fuggendo dal mondo e dalla propria carne, ma accettando il mondo e la propria carne perché essi sono il luogo privilegiato della sua manifestazione. Dio lo si incontra nel presente, nella ferialità, nella bellezza e nella fatica delle relazioni umane, nella sofferenza di un amore non corrisposto, nella gioia di una passione che sconvolge l’animo, nel dolore di una malattia inaspettata, nella letizia di una amicizia autentica. Dio lo si tocca stupendosi continuamente per la forza della vita, per lo splendore del sole in un cielo terso, per il candore di una coltre di neve immacolata, per lo sguardo curioso di un bimbo che si apre alla vita. Dio lo si tocca nel bisogno di amore che abbiamo e che ci tiene vivi, che a volte ci fa soffrire, ma che spesso ci fa toccare le vette sublimi dell’estasi.
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