Gesù, la Samaritana e l'acqua viva: quell'amore che si dona e nulla pretende
Siamo tutti mendicanti di briciole di felicità, di sguardi di tenerezza, di abbracci affettuosi, di parole di apprezzamento, di decisioni che ci valorizzino, di dichiarazioni di amore… di gesti, insomma, che ci fanno sentire accolti, benvoluti, stimati.
Tutti cercatori di un senso da dare alla vita affinché non scorra inutilmente, senza aver potuto gustare un po’ di quella bellezza che è il motore dell’esistenza, ciò che da’ colore, sapore, spessore alle nostre giornate. Ma cos’è questa bellezza della quale sentiamo il richiamo, il fascino, la nostalgia? È il volto di Dio la “grande bellezza” che ricerchiamo e che si nasconde dietro la natura, l’arte, le idee, i sentimenti… ne siamo attratti perché nel nostro cuore alberga quella scintilla di divino, dono del Creatore, che si appaga solo di armonia, equilibrio, pace, serenità.
Tale bellezza la possiamo gustare soprattutto nelle relazioni interpersonali: è in esse che troviamo il compimento pieno di noi stessi, scopriamo la nostra identità più profonda, assaporiamo quanto è salutare donarsi agli altri senza riserve e infingimenti. Sono i rapporti con gli altri – e anche con Dio – che ci costruiscono, che forgiano la nostra personalità e che ci dicono per cosa siamo stati creati: per amare!
Certo occorre ricordare che l’amore è pericoloso e che espone la persona alla vulnerabilità. Il grande scrittore inglese Clive Staples Lewis, autore di grandi libri come le “cronache di Narnia” o “Le lettere di Berlicche”, scriveva ne “I quattro amori”: «Amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili. Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi avrà a soffrire per causa sua, e magari anche a spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno, nemmeno a un animale. Proteggetelo avvolgendolo con cura in passatempi e piccoli lussi; evitate ogni tipo di coinvolgimento; chiudetelo col lucchetto nello scrigno, o nella bara del vostro egoismo. Ma in quello scrigno - al sicuro, nel buio, immobile, sotto vuoto - esso cambierà: non si spezzerà; diventerà infrangibile impenetrabile, irredimibile. L’alternativa al rischio di una tragedia è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’inferno».
Gesù non ha paura di lasciarsi coinvolgere dall’amore, anche se sa che tutto questo lo porterà alla Croce! Egli ha sete dell’amore dell’uomo, perché sa che solo dentro quell’amore l’uomo potrà essere davvero felice, compiuto, realizzato.
In questa terza domenica di Quaresima Cristo si trova in Samaria, terra ostile di eretici tra la Galilea e la Giudea. A Sichem, presso il pozzo costruito da Giacobbe, incontra una donna che ha cercato la felicità in relazioni inadeguate e che per questo adesso è sola. Nessuno infatti dei cinque mariti che ella ha avuto è riuscito a colmare la sua sete di vita, di felicità, di pienezza. Il suo amore sbagliato l’ha immersa in una solitudine angosciante! Il peccato è così: ti fa credere di poter prendere tutto ciò che vuoi dalla tua vita, di godere delle cose senza legami e senza responsabilità e subito dopo ti fa piombare nel baratro della solitudine; d’altra parte non si può pensare che gli altri possano amare che li ha usati solo per solleticare il proprio ego!
È suggestivo pensare che Gesù incontri la donna e manifesti la sua sete proprio a mezzogiorno: è lo stesso orario in cui inizia la sua agonia sulla Croce e che lo porterà ad urlare “Ho sete”. In entrambi i casi egli manifesta un’arsura non tanto della bocca, ma del cuore: la sua è una sete di anime, di cuori, di feriti dalla vita che vanno a tutti i costi curati e rimessi in piedi!
E qual è la cura per poter guarire da una vita disordinata, ripiegata su stessa e senza prospettive? Unicamente un amore sano, gratuito, fecondo! È quello che Gesù mostra a questa donna: si interessa a lei, cerca di aiutarla a scandagliare il proprio cuore, a dare il nome al male che ha nel cuore, a riconoscere che quei rapporti che ha avuto con quegli uomini non l’hanno fatta crescere nell’amore vero, quello che non cerca il proprio tornaconto o il proprio piacere, ma che si nutre solo del bene che riesce a donare all’altro.
I cinque mariti di questa Samaritana per noi rappresentano tutti quei surrogati di un rapporto vero e oblativo con Dio e con gli altri. Proviamo a domandarci se le relazioni che intessiamo servono solo a noi per riempire il nostro vuoto esistenziale, per farci sentire vivi, amati, cercati? Non è raro cercare gli altri per placare solo la nostra solitudine! Quando sento qualche persona che dice: “Vado a fare il volontario alla mensa dei poveri perché è una attività che mi fa stare bene!”, mi domando ma quest’opera di carità la fai per gli altri – in questo caso per i poveri - o per te stesso, per colmare un tuo vuoto? E questo vale per i tanti servizi che si possono espletare nella propria comunità: è un vero mettersi a disposizione o è la ricerca di un posto, di un prestigio, di un riconoscimento?
Lo stesso discorso vale per la sessualità: è realmente il linguaggio concreto dell’amore che cerca di donarsi all’altro senza riserve o è un prendere con la forza quel bisogno di sentirsi fisicamente di qualcuno? Quante persone sole vanno alla ricerca di un abbraccio mercenario illudendosi così di riempire qui buchi affettivi che solo un rapporto autentico può colmare!
Gesù alla Samaritana cerca di spiegare questo attraverso l’immagine dell’acqua viva, cioè dell’amore di Dio che raggiunge tutti gli uomini, li fa sentire vivi, li aiuta a purificare le loro attese e ad aprirsi ad un amore che tutto si dona e nulla pretende in cambio. Senza paura di essere vulnerabili, di mettersi in gioco e, occorre dirlo, di soffrire.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Ivana
12 marzo 2023 20:01
I suoi commenti sono sempre precisi e coinvolgenti . Grazie