Il colore nell’arte e il colore sui social: analfabeti antichi e analfabeti contemporanei
Diceva Iannis Kounellis che l’identità dell’Italia è più pittorica che letteraria: è una identità di immagini. E credo che avesse ragione. Se c’è una cosa che da sempre ci identifica in tutto il mondo è il colore, o meglio la straordinaria combinazione di colori dei nostri paesaggi, della nostra arte e delle nostre città.
Se un artista lavora per un periodo a Berlino diventa inevitabilmente spigolosamente scuro ed espressionista, mentre se sta a New York diventa subito Pop e fosforescente. Ma se viene a lavorare in Italia, il colore e l’eleganza del colore, invadono immediatamente i suoi lavori.
Questi colori sono appunto conseguenza della nostra unica e meravigliosa morfologia territoriale, eppure allo stesso tempo frutto di una storia politica e religiosa che dell’arte e del colore ha fatto uno strumento di potere, un linguaggio identitario e un fattore di condizionamento della società e dell’ambiente in una reciproca contaminazione continua.
E’ straordinariamente interessante vedere per esempio come i colori delle vesti indichino spesso le diverse gerarchie sociali e il potere che da esse deriva, come ad esempio nella Chiesa o nella Magistratura. Non parliamo poi di come i colori hanno condizionato la nostra sempre virulenta vita politica e viceversa: i rossi erano i comunisti, i neri i fascisti, i bianchi i democristiani e via dicendo fino al verde dei leghisti o al giallo dei pentastellati …
Di fatto, da quando l’uomo inizia a pensare e diventa “Homo Sapiens”, inizia anche a dipingere, tanto che molti studiosi usano il termine “Homo Pictor”: oltre 40.000 anni fa, quando ancora non sapevamo scrivere, sapevamo dipingere. E usavamo i colori. Per secoli, i colori sono stati l’alfabeto degli analfabeti, che non sapevano scrivere ma sapevano benissimo guardare un quadro e leggerne il significato dai colori e dai segni. Per secoli, attraverso uno straordinario sistema non scritto di tradizione orale e visiva, i più umili si sono tramandati iconografie di santi e personaggi storici, che sapevano riconoscere nei dipinti: un alfabeto cromatico e iconografico che i pittori conoscevano e usavano alla perfezione, e che anche i loro ricchi e potenti committenti rispettavano rigorosamente, benchè essi sapessero leggere e scrivere.
A volte nella storia dell’arte, il tempo ha giocato scherzi straordinari al colore: noi oggi non riusciamo ad immaginare nulla di più “classico” e rigorosamente candido e monocromo di un busto romano o di una statua greca, mentre i romani e i greci dipingevano le loro sculture di tutti i colori. Quando nel ‘700 si iniziarono a ritrovare i busti romani scoloriti dal tempo e quindi tornati al bianco del marmo originale, fu il grande Winkelmann, l’inventore del Neoclassicismo, a stabilire che la perfezione classica era il bianco candido, e da allora così è stato. Federico Zeri notava ad esempio che San Pietro per secoli è stato raffigurato sempre in giallo e azzurro, benchè non se conosca il motivo, e oggi riscopriamo addirittura che nelle Stanze di Raffaello in Vaticano i diversi colori delle vesti indicano diverse scuole filosofiche così come i diversi pomoli delle sedie raffigurate.
L’altra sera stavo guardando un documentario proprio su Raffaello, e ad un certo punto per pochi istanti si vede uno dei tanti dipinti ottocenteschi in cui Bramante introduce Raffaello alla presenza di Papa Giulio II. Nulla di che , però dietro al Pontefice noto tre cardinali, tutti con lo zucchetto ponsò, ma uno in cappa magna rossa e due in cappa magna azzurra: vuol dire che il dipinto è molto probabilmente stato commissionato da dei Frati Minori francescani, e che è dei primi del ‘900. Anzitutto chiariamo: il rosso cardinale non è il colore che vestono i cardinali, che da manuale di sartoria vaticana vestono invece il rosso ponsò. E se vestono di azzurro, allora sono cardinali nominati dal Papa tra i Frati Minori francescani, perché quello era il colore che prima del Vaticano II portavano quei frati elevati al rango di Vescovi e i Cardinali: e dato l’Ordine dei Frati Minori è stato “formalizzato” da Leone XIII° nel 1897, il dipinto è verosimilmente di qualche anno dopo. L’azzurro che vestono a sua volta è in realtà una derivazione del grigio, che è stato per secoli il vero colore dei francescani. Il più autorevole dei francescani nella storia politica, Père Joseph, al secolo Francois Leclerc du Tremblay, veniva chiamato “l’Eminence grise” (l’Eminenza grigia): grigia perché essendo un francescano vestiva di grigio appunto, eminenza perché era l’uomo ombra della grande “Eminence rouge” l’Eminenza rossa, l’onnipotente Armand Jean du Plessis, Cardinale di Richelieu… e da allora quando si vuole indicare un uomo di grande influenza che sta nascosto nel riserbo si usa proprio il termine eminenza grigia. Invece i frati Cappuccini, sempre della famiglia francescana, usano il marrone, cui si arrivò come altra derivazione del grigio, giacché nelle vesti di sacco il confine tra il marrone e il grigio era davvero lasco: infatti la cappa magna dei cardinali francescani cappuccini era grigio-marrone molto scuro, con una mantella pellegrina di pelliccia di marmotta scura invece che di bianco ermellino come per gli altri cardinali. I vescovi secolari invece, che in un tempo antico vestivano il verde, da secoli ormai vestono il viola paonazzo: tutti eccetto quello di Udine, che essendo erede del prestigio di Aquileia ha il privilegio di portare il rosso cremisi, l’unico al mondo. Si possono ancora veder ritratti ottocenteschi di prelati che vestono appunto il verde e l’azzurro, mentre i vescovi scelti dal Papa tra i Domenicani vestivano rigorosamente il bianco, e non fosse per il grande mantello “ferraiolo” nero nei ritratti e nelle foto sembrerebbero proprio uguali al Sommo Pontefice, il quale per la verità a sua volta veste il bianco al posto del rosso da Pio V° in poi, che proprio perché era domenicano decise di portare il suo colore monastico anche da Papa. Innocenzo III in suo trattato cerca di spiegare la gamma dei colori della gerarchia ecclesiale argomentando che il nero è il colore della penitenza, il rosso del sommo sacrificio, e il verde un colore intermedio… Il nero quindi tocca ai preti, il verde ai vescovi e il rosso ai cardinali e al Papa. E del resto, bianco rosso e verde sono i colori delle tre virtù teologali, Fede Carità e Speranza, tanto è vero che Beatrice così compare a Dante nel Paradiso.
Non vi allarmate, non voglio fare un trattatello di sartoria ecclesiastica. Ma siccome metà della storia dell’arte è arte sacra, e cattolica, conoscere i colori ecclesiastici è fondamentale per poter interpretare correttamente i capolavori, il loro significato, la loro storia e chi ne sono i committenti. Il colore è un alfabeto, e va conosciuto per capire, esattamente come in qualsiasi lingua.
Ricordo molto bene che una volta Philippe Daverio mi mostrò un ritratto a olio appena acquistato in cui figurava un apparente Maresciallo napoleonico con attaccata alla cornice la scritta Jacques Louis David. Che non fosse un David era abbastanza ovvio anche dal modesto prezzo pagato, ma ci accorgemmo che non era un Maresciallo ma un Ammiraglio dai bottoni con l’àncora, e che nemmeno era francese perché la placca che aveva dipinta sull’uniforme non era la Legion d’Onore ma l’Ordine di Santo Stefano, fondato da Cosimo Dè Medici. Ebbene, trovata la pista scoprimmo incrociando foto e fonti varie che era l’Ammiraglio Chigi della flotta Toscana: era l’alfabeto dei ritratti militari di allora.
Oggi viviamo nella società dei social e dell’immagine iper invasiva, in cui la parola scritta non interessa quasi più mentre tutto si gioca su una bulimica ricerca delle immagini a ogni costo, e in cui ormai comunichiamo molto più con le foto che con le parole: non è un caso che Facebook sia ormai stato definitivamente spodestato da Instagram. Perfino negli archivi documentali, tempio della parola scritta, ormai si va alla caccia frenetica di foto e disegni, i documenti chi volete che li legga più? Eppure, in una tipica contraddizione contemporanea, le immagini che così avidamente cerchiamo sono tutte falsate dai mille filtri che i nostri smartphone ci consentono di usare: facciamo comparire il sole dove ci sono le nuvole, togliamo le rughe ai volti e alteriamo completamente a seconda del nostro gusto personale i colori delle realtà che non ci piacciono in modo totalmente arbitrario e caotico. La verità è che siamo dei totali analfabeti dell’immagine, esattamente come molti nostri avi lo erano della parola scritta, con l’aggravante che noi stiamo sostituendo alla parola l’immagine ma senza esserci data alcuna regola, alcun criterio, alcun “alfabeto”. In una parola, ci stiamo analfabetizzando: dovrebbe essere obbligatorio un patentino per l’uso dello smartphone rilasciato solo dopo un bel corso di storia dell’arte...
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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commenti
Lorella
7 febbraio 2022 09:05
Vero Professore, se mi permette: si è passati dal " Cogito" all' "Epiphaino ergo sum" , di una pochezza imbarazzante.
Martelli
8 febbraio 2022 08:52
"epiphanio ergo sum" è un'ottima espressione direi!