19 febbraio 2023

Il Louvre diminuisce i visitatori: abbasso la quantità, finalmente!

Il Louvre ha deciso di contingentare il numero dei visitatori a un massimo di 30.000 al giorno, quando mediamente erano 45.000 prima della pandemia. Lo ha annunciato la Presidente-Direttice Laurence des Cars, con una virata che parrebbe nettamente contro tendenza rispetto a quanto accade: infatti il museo più visitato del mondo dopo la parentesi del Covid-19 è tornato ai livelli precedenti, con un + 170% rispetto al 2021. 

Prima della pandemia l’obiettivo sembrava essere uno solo per i Francesi: raggiungere la cifra simbolica dei 10 milioni di ingressi e superare il record del 2019 in cui il Louvre registrò 9,6 milioni di visite, perché anche lì come ovunque nel mondo una sola cosa contava: la quantità, la maledetta “bigness” americana che ormai ci ha appestati tutti e per cui ragioniamo sempre e solo in termini di grandi numeri.

Il mondo del turismo e della cultura pare diventato come quando negli USA ti capita di fare la spesa da Costco, uno di quei supermercati dove il carrello è grande il triplo del normale e le merci sono stoccate su giganteschi scaffali porta bancali e l’unica cosa che conta è comprare più che si può e soprattutto nel formato più XXL possibile.

La quantità è maledettamente tornata in tutto l’Occidente unico parametro di valutazione della ripresa dal disastro pandemico, e soprattutto in Italia dove non facciamo altro che sciorinare fiumi di numeri e percentuali per rassicurarci che il peggio è passato e tutto è bello come prima.

Dimenticandoci una cosa che invece i francesi, i quali quanto a valorizzazione del proprio patrimonio non hanno mai avuto rivali, hanno capito di rimettere al centro: che la quantità non è la qualità, e che chi possiede la qualità non deve avere come misura la quantità. Per tornare al paragone americano, può essere comprensibile che la quantità sia tutto per uno white-trash del Midwest il quale non ha altra soddisfazione nella vita che abbuffarsi dalla mattina alla sera per poi finire sotto i ferri del dottor Nowazaradan e passare da 300 a 200 kg: quindi gli va benissimo inzeppare il carrellone XXL di ogni cosa purché in formato fast food all’ingrosso, senza avere la minima intenzione di approfondire la qualità di quello che ingurgita.

Ma questa misura non può in alcun modo essere la bussola di chi come i noi o i francesi detiene ancora il primato mondiale della qualità, del gusto, dell’eleganza e soprattutto del patrimonio artistico. E invece, anche noi ormai siamo “malati” di quantità: numeri su numeri che danno percentuali sempre da confrontare con gli anni precedenti al dannato 2020 con la sola preoccupazione di tornare ai livelli precedenti, ma senza mai calcolare in queste statistiche un altro parametro centrale, ossia la qualità dei visitatori: è migliorata o peggiorata la qualità dei nostri visitatori? 

La qualità, siatene certi, è un indicatore dieci volte più micidiale della quantità: se cala il livello qualitativo del visitatore cala il livello dei servizi offerti, cala il livello della ristorazione e del divertimento, cala il livello di offerta dei negozi e l’offerta culturale si banalizza fino a livelli di semi abbandono del patrimonio, con il risultato che tutto il contesto sociale e culturale in cui si vive e che offre un prodotto al turista finisce per abbassarsi al livello basso del turista che lo frequenta. Ed è una cosa che ritengo stia avvenendo in moltissime parti d’Italia nel dopo pandemia: pur di riprendersi dalle batoste prendiamo quel che viene purchè siano in tanti, nella errata convinzione che più gente c’è e più si lavora. Io stesso vedo città invase da mangiatori seriali di panini e gelati, che spesso “pranzano” al supermercato e seduti sui gradini delle chiese contenti di essersi fatti un paio di selfie davanti a un posto famoso e finita lì. Per tornare a prima, questo va bene nel Midwest americano, ma non può andar bene per chi come noi custodisce il meglio del meglio. Attenzione: non facciamo qui il clamoroso errore di confondere il classismo con la qualità, perché la qualità non coincide con il lusso o il denaro, anzi troppo spesso è vero proprio il contrario e denaro e cattivo gusto vanno a braccetto; ma avere addirittura gente di cattivo gusto e pure morti fi fame è proprio il colmo.  Io ad esempio anni fa mi sono innamorato della Val d’Orcia proprio perché lì trovavo a prezzi assolutamente ragionevoli qualità di cibo eccelsa (che peraltro vuol dire una filiera agricola di livello nelle materie prime), in un contesto storico ambientale e culturale meraviglioso, e che aveva un turismo di qualità elevata in termini di educazione e cultura, senza che fossero milionari ma anzi persone normalissime.  

Vangelo sono le parole della Direttrice del Louvre : “se c’è una lezione da imparare da questo periodo post crisi è che bisogna riflettere sulla qualità dell’accoglienza. Non dobbiamo più tornare ai numeri di presenze di prima. C’è un problema di saturazione. Spesso si ha l’impressione di trovarsi nei trasporti pubblici, mentre è necessario ridare il piacere di visitare il Louvre”. Oggi più che mai, mi spiace dirlo ma è così, quantità è sinonimo di abbassamento del livello, altro che parametro principale di valutazione. 

E la qualità del visitatore, in nazioni come le nostre, inizia dall’offerta culturale che si costruisce. Che non può e non deve essere un piegare il proprio patrimonio a deformazioni “commercialoidi” o peggio ancora da selfie sui social media. L’offerta culturale è un rapporto con il patrimonio, e un rapporto è fatto di interazione e trasmissione che devono essere altissime come altissimo è il livello delle opere che abbiamo ereditato, di tempo ben speso e di una dimensione esperienziale che rimanga in chi lo ha visitato. E’ e deve essere a tutti gli effetti un rapporto educativo nel senso più alto e non un meccanismo di spremitura economica: il visitatore va arricchito umanamente in cambio del suo contributo economico al tessuto complessivo che lo accoglie. 

Certamente è facile (ma tragicamente rischioso) prendere a frotte chiunque perché tanto abbiamo cultura da mostrare ovunque, perché tanto anche se mangi male hai pur sempre mangiato italiano, e soprattutto perché se la massa non è scelta non si deve fare lo sforzo di avere trasporti puntuali ed efficienti e di offrire sicurezza nelle piazze e nelle strade…  Ma questo meccanismo finisce poi per ritorcersi notevolmente su una serie enorme di fattori di benessere territoriale: un progressivo ribasso dell’offerta che cambia strutturalmente un Paese intero, mentre un turismo colto, educato, è un turismo che spende meglio i propri soldi, pretende un livello di ristorazione e alberghiero più alto e servizi pubblici efficienti, oltre ad un livello di sicurezza adeguato ma che è poi coincidente con il contesto vitale in cui chi offre quel servizio vive tutta la vita e non solo per due settimane di vacanza.

Quella della qualità è una grande fatica che dobbiamo assolutamente ricominciare a fare, in primis come operatori culturali pubblici ma subito dopo come imprenditori privati del turismo, o saremo ingoiati da una progressiva ma inesorabile corsa al ribasso che tra l’altro finirà per non darci più nemmeno il sostentamento economico per cui l’abbiamo inseguita e accettata. 

(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

 

Francesco Martelli


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