Il mondo, tutto il mondo, ha bisogno di amicizia. Perché non tornare a uno sguardo sereno, a una mano alzata in segno di pace?
La scomparsa del prof. Mario Gnocchi, le assurde diatribe sui Presepi nelle scuole, le invettive e le minacce contro Giulia, Elena e Bruno Cecchettin (si parlava di più di 20.000 messaggi offensivi o intimidatori già un mese fa), le “bestialità” che va dicendo un certo generale italiano, per il quale chi non è conforme alla norma è “anormale”, il proseguimento delle ostilità a Gaza con iniziative che riportano alla mente il genocidio, (per non parlare dell’Ucraina), un ministro di Netanyahu, Eliyahu (Potere Ebraico), che propone di risolvere il problema palestinese sganciando un ordigno nucleare, un parlamentare che festeggia il nuovo anno armato di pistola, una delle “perle” di Cremona caduta nel tritacarne dei soldi ad ogni costo ecc. ecc. E’ finito bene l’anno 2023 e iniziato meglio il 2024? Preferisco rievocare momenti più lieti in cui un sorriso e una stretta di mano valevano più di mille dichiarazioni diplomatiche.
La morte di Mario Gnocchi mi ha richiamato un dialogo a tre, sviluppatosi il 15 dicembre 2001, presso la Sala Puerari della Biblioteca statale di Cremona, sul tema: “La fatica di credere”, partendo da una domanda assai esplicita: “E’ ancora possibile credere in Dio, oggi?”. A confronto tre studiosi-testimoni: il prof. Massimo Marcocchi, docente di Storia del Cristianesimo presso l’Università Cattolica di Milano, in veste di moderatore, il prof. Gnocchi in rappresentanza dei credenti, e il sottoscritto, portavoce del mondo laico non credente. Una sala piena ad ascoltarci, tra cui don Cavedo in prima fila. Calorosi applausi alla fine.
Il prof. Marcocchi, aprendo il confronto, ricordò che a differenza della cultura ottocentesca, nella quale credere o non credere in Dio si legava a globali visioni del mondo, al senso della vita e della storia, al posto dell’uomo nell’universo, sembra che nel XX secolo il problema di Dia abbia perso di rilevanza. Non più ateismo dichiarato e professato, quindi, ma perdita di importanza del problema stesso, a favore di una “paccottiglia irrazionale e superstiziosa sempre più diffusa tra troppe persone” (Magris), piene di credenze diverse e mai decisive. L’una vale l’altra. “La società attuale non è né adorante né blasfema nei confronti di Dio, ne prescinde”.
E tuttavia, proseguiva, “Oggi tra i non credenti si sente parlare di ricerca di più ampi orizzonti di senso, di rifondazione dell’etica su qualcosa che vada oltre l’interesse singolo, di riscoperta di vincoli di solidarietà”. Citava Eugenio Scalfari, Remo Bodei, Vittorino Andreoli, Eugenio Montale, Salvatore Veca, Albert Camus, Salvatore Natoli, tutti laici non credenti o dubbiosi, proponendo di prendere sul serio le domande che credenti e non credenti avanzano gli uni agli altri. “Il confronto tra credenti e non credenti è tale se è “con-ricerca”. Può avvenire solo su una base di reciproca fiducia”.
Impresa difficilissima già trovare chi può essere degno di fiducia, tuttavia “Bisogna dar vita a un pluralismo dialogante e collaborativo, dare spazio alla ospitalità delle convinzioni (Paul Ricoeur), o alla convivialità delle culture (Card. Martini). Ritengo che una frattura tra laici e cattolici pensosi, sarebbe un danno grave per il nostro paese. Insieme lottiamo contro la irrazionalità, la superstizione, i sincretismi, insieme smascheriamo le saggezze esotiche. E insieme collaboriamo per inventare nuove vie di senso, insieme pratichiamo la vita interiore, come approfondimento dell’uomo e come mezzo per leggere la propria e l’altrui esistenza, insieme cerchiamo la giustizia e la pace”.
Il prof. Gnocchi, da parte sua, partì dalla personale esperienza di uomo di una fede, profonda sì, ma sempre a suo dire sul ciglio dell’incredulità, chiedendosi verso quale concezione o immagine di Dio dobbiamo indirizzare la nostra ricerca, il dialogo avviato. A suo parere, anche a causa delle terribili vicende delle guerre mondiali e dell’Olocausto, la concezione corrente di Dio onnipotente era stata messa in discussione, come avevano proposto tra gli altri Hans Jonas (Il concetto di Dio dopo Auschwitz) ed anche le annotazioni di Etty Hillesum. Commentava Gnocchi: “Ora, a me pare che nel tempo che ho attraversato nella mia vita sia venuta definitivamente a incrinarsi quella che, con espressione approssimativa, direi l’immagine di un Dio “imperiale”. E usando questo termine penso anche ai condizionamenti storici e culturali che hanno potuto proiettare su Dio la figura dell’imperatore supremo… Un’immagine, un concetto, che ha avuto una sua tradizione e anche una sua nobiltà, ma che finiva con l’attribuire a Dio un carattere di sovranità potente e dominatrice troppo mondanamente connotata”.
Negli ultimi decenni invece si andava diffondendo, a suo avviso, una concezione un poco diversa, tesa ad avvicinare l’immagine di Dio al volto di Cristo, che un po’ rozzamente molti credenti sentono divergenti per non dire lontane. Secondo Gnocchi: “la croce finiva con l’essere considerata più come mezzo di salvezza che come rivelazione di ciò che Dio è”. “Ora invece credo che siamo indotti a prendere sul serio le parole di Gesù nel Vangelo di Giovanni: Chi vede me, vede il Padre (GV.14,9). Chi vede me, e non solo nella predicazione, nelle guarigioni, nei miracoli, ma soprattutto sulla croce, se la croce, come il Vangelo di Giovanni ci dice, è il culmine della manifestazione di Cristo, il momento della sua “gloria”; sua e del Padre. Ecco, il grande, difficile passo a cui la fede cristiana è chiamata è qui”.
E concludeva in tono accorato: “Ecco, la fede è chiamata a credere in questo Dio che ci viene incontro con la voce e il volto d’uomo, nella debolezza e nella compassione, che attraversa per amore tutto lo spazio della condizione umana, fino all’estremo dell’umiliazione, della sofferenza e della morte – e della morte inflitta per odio e per menzogna; subita, cioè, per effetto del male che regna nel mondo – che è condannato dal potere politico e da quello religioso, considerato malfattore ed empio, che sulla croce prova il sentimento dell’abbandono del Padre, e pur non cessa di invocarlo”.
Personalmente pensai che fosse doveroso non sviluppare un discorso in astratto – le ragioni pro o contro Dio e la sua presenza/assenza dal mondo – ma partire dalla mia esperienza in prima persona. “Molto significativa per me è una rievocazione di quegli anni (siamo nel 1964): ricordo perfettamente il momento in cui, di fronte alla prospettiva di dedicare anni di studi al problema dell’esistenza di Dio, mi chiesi: “Forse che i bisogni degli uomini si modificano per il fatto che Dio esiste o non esiste?” … Il compito più urgente mi sembrava invece quello di calarsi nel vario intreccio delle relazioni, nella loro concretezza e pregnanza, per fornire un modesto contributo a rendere più vivibile questo mondo. Che Dio ci fosse o non ci fosse mi sembrava non modificare l’esigenza esistenziale, prima che etica, di stabilire rapporti positivi con i miei simili. Ecco, questa fu una scelta tipica di una mentalità laica. Chi ha fede ama gli uomini in quanto figli di Dio, partendo dalla comune paternità trascendente. Per il laico invece vale un altro discorso: i singoli sono un valore indiscusso in quanto uomini, nella loro umanità terrena, nella loro finitudine”.
Se la tentazione del laico – proseguivo - è quella del relativismo, del neutralismo etico, che in fondo è sempre una resa alla casualità o peggio ai poteri imperanti, la tentazione del credente è trasformare Dio in strumento di potere: “Dall’unico e vero Dio, si passa ad un’unica verità, un’unica rivelazione, un’unica fede, che può suscitare la presunzione di compenetrare e controllare ogni momento della vita civile, sociale, individuale, di distruggere l’alterità”. Esempi storici ne esistono molti. Concludevo citando Salvatore Natoli quando commentava il racconto di Emmaus, dove due discepoli incontrano Gesù e non lo riconoscono per via, ma solo quando al tavolo spezza il pane. Il reciproco riconoscersi degli uomini si ha al momento della fractio panis, della ‘condivisione’. Un atto molto umano, centrale in tutte le fedi: “Siamo stranieri sulla terra. Non è importante la meta ma lo stare per via. Bisogna saper camminare insieme. Bisogna anche saper sostare: rendersi gli uni sostegno degli altri. Per tutti, infatti, cala la sera”.
Aggiungo qui un ricordo che mi è molto caro. La mattina dopo, era domenica, mia moglie ed io sentimmo suonare il campanello, e ci domandammo chi mai potesse essere. E sulla porta apparve con sorpresa don Enrico Trevisi, che aveva organizzato l’incontro, con un bel cesto di frutta in ringraziamento del mio contributo alla riuscita del dialogo fraterno. Il confronto con Marcocchi e Gnocchi, il gesto di don Trevisi (ora vescovo di Trieste), li rammento come un segno di profonda amicizia. In che senso? Ognuno aveva sviluppato il proprio discorso e non aveva invaso lo spazio dell’altro. Perché l’amicizia ha questo di peculiare: il rispetto dell’individualità, dei ricordi e delle speranze dell’altro, l’assenza della volontà di “convertire” o “piegare” l’altro alle proprie convinzioni, ma solo di stare “accanto”, di procedere insieme.
Atteggiamenti totalmente divergenti rispetto a quelli adottati in quell’incontro del 2001 sono tanto diffusi oggi che non conviene nemmeno citarli. Le occasioni per contrapporsi e per odiarsi sono purtroppo numerosissime, anche tra credenti o forse soprattutto tra credenti. In Russia, tanto per fare un esempio, alcuni preti ortodossi sono cacciati dalla Chiesa Ortodossa dal Patriarca Kirill per aver pregato per la pace e non per la vittoria della “Santa Russia”. Voglio perciò terminare con alcune citazioni storiche e letterarie, che ci possono insegnare molto.
La prima si riferisce ancora una volta alla secolare presenza delle divisioni religiose ed etniche della vicina Jugoslavia, in particolare a Sarajevo. “Chi passa la notte sveglio a Sarajevo può udire le voci della sua oscurità. Pesantemente e inesorabilmente batte l'ora sulla cattedrale cattolica: due dopo la mezzanotte. Passa più di un minuto - esattamente, ho contato, 75 secondi - e solo allora si annuncia con un suono più debole, ma acuto, l'orologio della chiesa ortodossa che batte anch'esso le "sue" due ore. Poco dopo si avverte con un suono rauco e lontano la torre dell'orologio della Moschea del Bey, che batte le undici, undici ore degli spiriti turchi, in base a uno strano calcolo di mondi lontani e stranieri. Gli ebrei non hanno un loro orologio che batte le ore... il loro Dio e' l'unico a sapere che ore sono in quel momento da loro. Quante in base al calcolo dei sefarditi, quante secondo il calcolo degli askenazi... Così anche di notte, mentre tutto dorme, nel conto delle ore vuote del tempo veglia la differenza che divide questa gente assopita che da desta gioisce e soffre, che si nutre e digiuna in base a quattro diversi calendari, ostili tra loro, e che rivolge tutte le sue preghiere allo stesso cielo in quattro diverse lingue ecclesiali” (Ivo Andric, Racconti di Sarajevo).
La seconda riguarda una bellissima poesia di Umberto Saba (Quasi una moralità), che alla pubblicazione ricevette nel 1951 una quasi scomunica dal giornale del PCI, in quanto osava parlare di “amicizia” tra tutti gli esseri viventi sulla terra, prescindendo dalla logica della “guerra fredda”. Più non mi temono i passeri. Vanno / vengono alla finestra indifferenti / al mio tranquillo muovermi nella stanza. / Trovano il miglio e la scagliuola: dono / spanto da un prodigo affine, accresciuto / dalla mia mano. Ed io li guardo muto / (per tema non si pentano) e mi pare / (vero o illusione non importa) leggere / nei neri occhietti, se coi miei s'incontrano, / quasi una gratitudine. Fanciullo, / od altro sii tu che mi ascolti, in pena / viva o letizia (e più se in pena) apprendi / da chi ha molto sofferto, molto errato, / che ancora esiste la Grazia, e che il mondo / - TUTTO IL MONDO - ha bisogno d'amicizia.
Che il mondo abbia bisogno di amicizia e di pace amichevole è sottolineato anche dal gesto di Marco Aurelio, l’imperatore filosofo stoico e grande scrittore, rappresentato a cavallo nella Piazza del Campidoglio a Roma. Questo grande imperatore e grande uomo, che aspirava alla tranquillità, ma che dovette per tutta la vita combattere per salvare l’Impero dai nemici e dalla peste, è rappresentato con il braccio destro sollevato fino alla spalla, con le dita della mano aperte. Un segno di grandezza, certo, ma sicuramente di pacifica convivenza. La mano aperta completamente nuda segnala a chi incontra: “non porto armi”. Ben diverso dal braccio e la mano rigidi del “saluto romano” dei fascisti (un falso storico), che diviene segno di sottomissione al “capo assoluto”. Tra l’altro Marco Aurelio non indossa in questa sua rappresentazione stivali militari, ma calzari legati con strisce di cuoio che, fasciando il piede, segnalano l’atteggiamento pacifico dell’intera sua iconografia. Del resto scrisse, con uno sguardo aperto a tutti: “Ama, ma veramente, gli uomini coi quali il destino ti ha unito”.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti
Francesco
27 gennaio 2024 09:39
Mah, per quel che ne sappiamo, homo sapiens ha sterminato quello di Neanderthal e poi il mondo è sempre andato avanti così, non da ultimi i nativi americani e gli aborigeni australiani oppure la pulizia etnica nella ex Jugoslavia. Riusciamo a fermare tutto con i palloncini colorati, le riflessioni colte, le poesie?
Certamente, specie se ce ne stiamo al calduccio in queste giornate orrende