Il muro e il murale. Da strumento di difesa a Bibbia dei poveri
Nella società contemporanea ci siamo sempre più abituati a sentire parlare dei muri come di qualcosa che va abbattuto, come di un elemento negativo che va demolito e rimosso: dopo quello di Betlemme che ha diviso Israeliani e Palestinesi e quello voluto da Donald Trump per arginare l’immigrazione messicana verso gli USA se ne è fatto addirittura un simbolo di inciviltà o di regresso sociale. Del resto, a parti politiche diametralmente inverse, in anni passati quello di Berlino aveva diviso fisicamente una città e ideologicamente due parti del mondo; davanti a quel muro, unico pezzo fisico della Cortina di Ferro che Zio Stalin fece calare sull’Oriente europeo, due presidenti americani fecero la Storia: John Kennedy quando disse “noi non abbiamo mai costruito un muro per tenere dentro i nostri o per impedir loro di lasciarci”, e Ronald Reagan quando gridò a Gorbacev “abbatta questo muro!”. Al netto delle visioni ideologiche, degli spasi emotivi a distanza tipici della nostra società e anche dei drammi veri che dietro o davanti a questi muri si sono consumati o si consumano tuttora, il “muro” volenti o nolenti è una necessità dell’uomo da quando ha lasciato le caverne, e non sorprende che faccia ancora così tanto discutere, dato che nasce in sé come elemento contraddittorio: è doppio, c’è un davanti e un dietro oltre i quali non si vede cosa c’è, è un elemento difensivo e rassicurante ma che in quanto tale origina dalla paura, dei propri simili o della natura che ci circonda minacciosa.
Il muro è stato anche per secoli macabro teatro di morte: era infatti il luogo tipico delle fucilazioni, tanto che “mettere al muro” è divenuta una frase minacciosamente proverbiale . Perfino i latini tenevano ben distinti i termini: “murus” per i Romani era la muraglia fortificata mentre le mura di casa si chiamavano “paries”, cioè pareti.
Eppure, la storia dell’arte ci insegna che i muri, meravigliosa contraddizione che ben pochi oggetti possono vantare, sono stati molto, molto di più: dalle pitture rupestri ai geroglifici egizi, dai mosaici bizantini agli affreschi medievali, per millenni i muri sono stati uno straordinario strumento di comunicazione di massa, che ha fatto raggiungere anche le più alte vette della creatività umana.
L’elenco è veramente sconfinato e raggiunge l’assoluto: dagli affreschi del buono e del cattivo governo a Siena, manifesto universale della didattica politica nell’arte, fino alla Cappella Sistina di Michelangelo, altro non troviamo che muri usati come straordinari strumenti di comunicazione e creatività, la cui durata nel tempo era una preoccupazione assolutamente rilevante: si dipingeva “a fresco”, e cioè direttamente sull’intonaco bagnato in modo che la pittura divenisse un tutt’uno con il muro e durasse nei secoli. A Milano nel refettorio della chiesa “di famiglia” degli Sforza, Santa Maria delle Grazie, Leonardo invece usò i muri per sperimentare le sue improbabili tecniche di pittura “a secco”, che hanno costretto generazioni di restauratori a dare il meglio di sé per salvare ciò che probabilmente nemmeno il Maestro voleva salvare, quell’Ultima Cena che ha stregato miliardi di persone con libri e film campioni di incassi perfino nell’era di internet.
I muri erano la cosiddetta “Biblia Pauperorum”, la Bibbia dei poveri, l’alfabeto degli analfabeti: i muri sono stati per secoli il sostituto naturale dei giornali, della radio, della televisione e di internet. Uno strumento imprescindibile di narrazione popolare che ha offerto ai più grandi artisti della Storia occasioni irripetibili di esprimere il loro talento. Il più “muralista” di tutti fu senza dubbio il Tiepolo, che adorava dipingere paradisi sconfinati sugli immensi soffitti di tutti i potenti della Terra: centinaia di metri quadrati di pura estasi pittorica contesa da tutti i più ricchi del suo tempo. Un must talmente imitato che perfino Donald Trump si è fatto un finto Tiepolo sul soffitto del suo mega attico dorato in cima alla sua torre sulla Fifth Avenue…
Ma il muro ha continuato e continua ad essere una tentazione irresistibile per l’uomo e per l’arte: la pittura murale divenne strumento politico durante la rivoluzione messicana del 1910, e da lì in poi il “murales” non si è più fermato. I Marxisti messicani mutuarono dalla sontuosa cattolicissima tradizione spagnola la gigantesca pittura murale, ma la convertirono in strumento di galvanizzazione delle masse in rivolta grazie a grandissimi artisti come Rivera ed Orozco. Una pittura quasi grezza, rude, con enormi figure di campesinos armati e schierati sotto alle titaniche figure di Marx e Lenin. Nessun individualismo: solo masse indecifrabili di uomini forti e tutti uguali unite sotto a un unico grande leader idolatrato. Esattamente da lì prese ispirazione il Realismo Socialista che da Stalin in poi condizionò decenni di propaganda sovietica, cui si dedicarono alcuni tra i migliori illustratori del ‘900: non a caso uno dei tanti clichè del crollo del comunismo sono le immagini dei manifesti con l’effige di Lenin strappati dai muri scrostati. Non fece certamente eccezione la Cina maoista, dove però le gigantesche raffigurazioni murali del Grande Timoniere mantenevano nei colori delicati e nelle guancette arrossate quella grazia un po’ naif delle piccole porcellane cinesi, contraddizioni che l’ideologia non poteva cancellare.
Perfino l’Italia Fascista voleva la sua arte muraria: Sironi e Carrà negli anni ’30 scrissero il Manifesto del Muralismo italiano, di cui vale la pena citare un passaggio: “la pittura murale è pittura sociale per eccellenza. Essa opera sull'immaginazione popolare più direttamente di qualunque altra forma di pittura”.
Oggi nelle nostre città l’arte murale vive una nuova stagione di legittimazione, grazie alla quale negli ultimi decenni è passata da arte pirata a forma d’arte istituzionale, con decine e decine di muri pubblici e privati che divengono getto di culto, di committenza pubblica e addirittura di sponsorizzazione privata. Potenza del muro, nonostante gli smartphone e il mondo virtuale, il bisogno di vedere dipinti i muri che ci circondano è ancora una esigenza dell’essere umano. Dal graffitarismo illegale a colpi di bombolette di qualche anno fa siamo passati ad una forma di arte celebrata e richiestissima, soprattutto per rendere più sopportabili i tanti eccessi edilizi del mercato perpetrati per anni a incolpevoli inquilini. Coprire d’arte un brutto edificio è un modo per renderlo più accettabile, perchè quella della bellezza rimane una esigenza insopprimibile dell’occhio umano, e se i muri non possiamo abbatterli perchè volenti o nolenti ci servono, beh allora almeno dipingiamoli. E in effetti, e parlo per esperienza diretta dopo ben cinque edizioni di Muri d’Artista in Cittadella degli Archivi, con oltre 60 artisti coinvolti e duemila metri quadrati di vecchi muri oggi dipinti, il risultato è assolutamente soddisfacente.
In fondo, a distanza di millenni, siamo ancora gli stessi esseri un po' impauriti che hanno bisogno di esorcizzare, dipingendo, ciò che abbiamo costruito per difenderci.
(La foto del professor Martelli è di Daniele Mascolo)
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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