22 agosto 2021

L’arte “markettizzata”, la crisi delle gallerie e il ruolo del Pubblico nel mercato dell’arte

Qualche giorno fa in una lunga intervista a Finestre sull’arte, Gian Enzo Sperone, uno dei più noti e importanti galleristi italiani, ha espresso critiche feroci verso il dilagare del marketing nel mondo dell’arte: “stiamo andando verso una presenza soffocante del marketing. E anche gli intellettuali e gli artisti assumono i modi e le cadenze di quelli degli uffici pubblicitari delle grandi aziende (…) Se questa gente prende il potere (come si diceva nel ‘68: l’immaginazione al potere), e anzi lo ha già preso, tutti gli altri non possono che diventare marginali. Gli artisti hanno le antenne per captare queste cose, però il problema è che la guerra contro questo sistema è già persa in partenza”. 

Per la verità, l’impressione è che ormai il marketing stia dilagando senza argini in ogni campo della società, perfino nella sfera religiosa. Ciò che conta è solo piacere, nel senso di essere accettati, ben voluti, seguiti, giammai criticati, lodati e alla fine “comprati”. E’ in gran parte colpa della società dei social, che hanno trasformato il marketing da strategia commerciale in vera e propria forma mentis, per cui ognuno di noi esiste solo se è “seguito” e “piaciuto”, nel senso del numero di followers che ha e di likes che riceve. Prova ne è il fatto che ormai ci si muove solo a ondate emotive rispetto a qualche pensierino dominante (i cosiddetti “hasthtag #”), mentre verso ogni opinione contraria, anche se ragionata e motivata, scatta una sorta di reprimenda collettiva immediata e prepotente. 

Poteva l’arte restarne immune? Avrebbe forse dovuto, ma non è andata così. E infatti, buona parte dell’arte si è adeguata a questo andazzo internettiano molto omologante e soprattutto noioso oltre ogni decenza. E se internet la fa da padrone, come dice Sperone, le gallerie d’arte rischiano di soccombere a favore all’artista che è mercante di se stesso o delle Case d’Asta che grazie alle vendite on line stanno facendo furore, perché vendono pezzi già noti e non hanno il problema di scoprire e lanciare talenti. E poi oggi si fanno sempre più strada, nel ruolo di talent scout dei nuovi talenti, le Home Gallery e affini (cioè collezionisti privati che aprono le proprie case e/o collezioni agli artisti e li mettono in contatto con altri collezionisti, appassionati e possibili compratori) oltre alle ormai solidissime figure dei curatori e degli art dealers, che hanno un po' surclassato anche il critico d’arte.

Eppure proprio le gallerie nel ‘900 hanno esercitato questo ruolo di tramite tra il talento emergente e il collezionista e la ristretta cerchia dei critici e intenditori, che li portava poi ai musei ed al grande pubblico più generale. Il ruolo della galleria d’arte, nato di fatto a fine ‘800 nella Parigi della Belle Epoque, è cresciuto a dismisura fino a toccare l’apice nei gloriosi anni ’80 newyorkesi, quando il “vernissage” o “inaugurazione–evento” divenne un vero e proprio rito di epifania (e commercializzazione) dei nuovi giovani talenti scoperti in qualche garage o seminterrato, e di colpo lanciati nello sfavillante mondo dei ricchi collezionisti e delle loro bellissime signore tra un cocktail e una compravendita, non senza aver anche fatto male agli  artisti, questo va ammesso.

Ma il vero inventore di tutto questo, della mostra-evento, dell’arte-mondanità, dell’esposizione  che fa notizia sulla stampa, fu un italiano che proprio da Parigi agli inizi del ‘900 trasse ispirazione per il suo nuovo modello di arte-vita totale: Filippo Tommaso Marinetti, l’inventore del futurismo.  Lombardo, benchè nato ad Alessandria d’Egitto, fu mentore, ispiratore, finanziatore e scopritore di quasi tutti i talenti che diedero vita a quelle che lui chiamava “Avanguardie Futuriste” , un drappello di artisti che come degli arditi soldati si lanciavano nella battaglia culturale anche a suon di bastonate, inneggiando alla guerra e alla velocità: “nous sommes pour le grandes idees qui tuent” , noi siamo per la grandi idee che distruggono, scriveva nel 1909 su Le Figaro nel primo Manifeste de Futurisme.

Questo ometto inarrestabile, polemico, guerrafondaio, che una volta mentre veniva contestato in un teatro napoletano conquistò la città prendendo al volo sbucciando e mangiando serafico un’arancia che gli venne tirata sul palco per ferirlo, capì prima di tutti gli altri il potere della comunicazione nell’arte, il marketing appunto. Ogni mostra futurista, che si teneva rigorosamente in gallerie private e non in musei o simili, era preceduta da un battage pubblicitario ottenuto a mezzo stampa promettendo risse provocazioni e tafferugli, che puntualmente si verificavano. Notoria era la predisposizione del grande Boccioni per l’uso del suo bastone da passeggio contro i contestatori, culminata nella grande rissa tra intellettuali al Caffè Grand’Italia in Galleria Vittorio Emanuele a Milano.

Ma Marinetti fu molto di più: fu un vero scopritore di talenti, un sostenitore a spese proprie di tanti artisti affamati, e quando divenne potentissimo membro dell’Accademia d’Italia ( l’ istituzione fascista che aveva sostituito l’Accademia dei Lincei) dava indicazioni ai musei civici e pubblici di mezza Italia su dove, come e quali opere comperare per costruire le prime collezioni di “avanguardie futuriste”. E spesso faceva comperare opere di artisti in difficoltà e sempre dalle gallerie d’arte che li vendevano: obbligava cioè lo Stato a sostenere con acquisti di opere le gallerie private ei loro artisti, ma costruendo così delle raccolte di arte futurista che hanno dato il via a molti dei musei di arte contemporanea italiani. 

Nei nostri archivi la documentazione è corposa: lettere autografe con le quali Marinetti non solo ordinava ai Sovrintendenti dei musei di acquistare la tal opera, purchè futurista, dal tal gallerista perché quell’artista “aveva più bisogno” di un altro, ma a volte vendeva lui stesso opere, come nel caso della spettacolare “Linea Unica della Continuità nello Spazio” di Boccioni, oggi custodita al Museo del ‘900 e che vediamo ogni giorno sulle monete da 20 centesimi.  Certo, non sfugge che il tutto fosse opinabile, e certamente poco democratico, oltre che piuttosto “fascista” nella modalità, cosa che peraltro costò poi cara ad alcuni Dirigenti museali come Giorgio Nicodemi, che fu epurato anche proprio in ragione delle tante acquisizioni ritenute “facili” fatte negli anni del Regime.  E Marinetti, come D’Annunzio (che lo definì “un cretino fosforescente”, salvo poi diventarne fraterno amico durante le giornate di Fiume) paga caramente i suoi rapporti col Fascismo in una damnatio memoriae che ancora perdura. Ma a suo discapito, va detto che le acquisizioni da lui imposte ai musei pubblici furono spesso degli affari colossali, che hanno oggi un valore assoluto.

Ma quello schema per cui un intellettuale di fama acclarata fa acquistare allo Stato opere di artisti emergenti dalle gallerie d’arte che li sostengono, fu a mio avviso qualcosa di geniale che meriterebbe di essere riscoperto, adattandolo ovviamente ai giorni nostri, in cui tanti artisti e tanti privati del mondo dell’arte sono in grande difficoltà, e in cui troppe istituzioni culturali pubbliche si trascinano stancamente senza uno scopo.

Sarebbe molto interessante che ci fosse la volontà di riconvertire i tanti luoghi pubblici della cultura assopiti e chiusi in realtà dinamiche che interagiscono con nuovi talenti, dandogli spazi e occasioni di mettersi in mostra, magari proprio con la collaborazione dei tanti dealers, galleristi e curatori della sfera privata del mondo dell’arte.

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

Francesco Martelli


© RIPRODUZIONE RISERVATA




commenti


Annamaria

22 agosto 2021 10:35

Splendido editoriale che, direi come sempre, inquadra perfettamente l'argomento