La Bibbia prima di dirci cosa fare, ci dice chi è e cosa fa Dio
Siamo tutti malati di funzionalismo: impieghiamo il tempo, spendiamo energie, facciamo cose solo se ci procurano un beneficio immediato, un “ritorno” che possiamo quantificare in termini economici, di immagine o di sollievo psicologico o spirituale. Pensiamo per esempio alla preghiera: perché devo pregare se vivo un momento di aridità, se non percepisco la vicinanza di Dio, se dalle mie orazioni non esco ricco di consolazione e di doni interiori? Pregare, quando tutto attorno è oscuro e silenzioso, per molti è una perdita di tempo, come se Dio andasse onorato, ringraziato, lodato e invocato solo quando si è investiti da un entusiasmo o da una esaltazione spirituale. La preghiera, dunque, sembra efficace solo quando consegue un vantaggio per sé stessi…
Capita spesso anche nell’approccio alla Sacra Scrittura! Subito dopo la lettura di un testo biblico sorge spontanea al credente la domanda: che cosa mi sta chiedendo il Signore? Che cosa debbo fare? Queste parole servono alla mia esistenza? Per carità, l’interrogativo è più che legittimo, è vero che la Bibbia è un libro vivo, sempre nuovo, intriso di Spirito Santo, capace di arrivare al cuore dell’uomo per svelargli la sua identità profonda, il suo essere figlio amato e il suo ruolo nella storia della salvezza. Però mi sembra che prima di rivelare l’uomo all’uomo, la Scrittura riveli all’uomo chi è Dio. Prima di spingere a fare qualcosa, a seguire un comandamento o a rispettare un divieto, la Bibbia sprona a contemplare e a meravigliarsi di aver incontrato un Dio così!
Prendiamo per esempio il Vangelo di questa domenica: Luca ci presenta le sue beatitudini, così materiali, così concrete direi quasi “carnali” rispetto a quelle più spirituali di Matteo. Diverso è anche il luogo in cui vengono pronunciate: Luca situa Gesù in un luogo pianeggiate con un uditorio non solo di ebrei, ma anche di pagani, Matteo, invece, pone Cristo sul monte, come un novello Mosè che offre al popolo eletto una legge nuova.
A differenza delle nove beatitudini di Matteo, l’“evangelista medico” ne riferisce quattro che associa ad altrettanti guai, che non sono da intendere come una maledizione, ma un avvertimento, una messa in guardia: il ricco, il sazio e il ridanciano sono spronati a scegliere un’altra strada rispetto a quella del piacere egoistico e dell’autoaffermazione personale.
Ebbene quando si legge questa pagina del Vangelo, come molte altre, le prime domande che saltano alla mente sono: cosa devo fare per essere beato? In che senso devo diventare povero? Devo davvero vendere tutto?
In effetti Luca parla proprio di poveri e non, come Matteo, di “poveri in spirito”: la sua prospettiva, cioè, è molto meno spirituale rispetto a quella dell’altro evangelista. Il povero, per Luca, non è l’umile, il fiducioso, colui che svuota sé stesso per lasciarsi riempire da Dio, ma è proprio colui che non ha mezzi materiali per vivere: è l’affamato, è il piangente perché la vita gli ha riservato solo privazioni e miserie.
Se però la lettura di questa pagina conduce subito ad una “interpretazione esistenziale” si corre il rischio di ridurre l’esperienza cristiana ad un “imperativo morale” a discapito della sua dimensione essenziale di “buona notizia”. In soldoni: prima di “invitarci” o invitare gli altri a scegliere la via della povertà occorrerebbe fermarsi e contemplare stupidi il nostro Dio che – lui per primo - si fa povero, affamato, afflitto, perseguitato. Gesù consegnandoci le beatitudini ci consegna anzitutto ciò che è la sua essenza, ciò che ha scelto di essere. Cristo è il vero grande “povero” perché come spiega S. Paolo: “pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò sé stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò sé stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Fil 2, 6-8)
Gesù è povero non solo perché è nato in una mangiatoia “al freddo e al gelo”, non solo perché non aveva da posare il capo, non solo perché viveva della carità dei suoi seguaci, ma essenzialmente perché ha condiviso la nostra fragilità - non il peccato sia chiaro -, la nostra finitudine, i nostri limiti: «Gesù - dice il Concilio - ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine, egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato» (cfr. Gaudium et spes, 22). Egli si è dunque fatto “povero” per poterci salvare non dal di fuori, non con potenza e gloria, ma dal di dentro della nostra misera storia di uomini, attraverso la condivisione, la compassione, la tenerezza.
Se dovessimo pensare sul serio alla sublime follia dell’“incarnazione” che manifesta la profonda umiltà di Dio, il suo amore sconfinato, il suo desiderio tenace di avvicinarsi all’uomo, di stringere con lui un patto di amicizia, un rapporto tra Padre e figlio… quanto stupore, quanta commozione!
Ma Dio è povero, affamato, afflitto anche perché ha deciso di amare e di caricarsi sulle spalle le conseguenze dell’amore. Tutti noi sappiamo che quando si ama si diventa vulnerabili, si è quasi in balia dell’amato, si vive aspettando un cenno di assenso dell’altro. Ma allora Dio è “fragile”? Allora Dio non è Onnipotente? Sì è Onnipotente, ma nell’amore, non nella forza!
Asseriva sapientemente Benedetto XVI nel lontano 2013 durante l’udienza generale del 30 gennaio: “L’onnipotenza di Dio non si esprime nella violenza, non si esprime nella distruzione di ogni potere avverso come noi desideriamo, ma si esprime nell’amore, nella misericordia, nel perdono, nell’accettare la nostra libertà e nell’instancabile appello alla conversione del cuore, in un atteggiamento solo apparentemente debole – Dio sembra debole, se pensiamo a Gesù Cristo che prega, che si fa uccidere. Un atteggiamento apparentemente debole, fatto di pazienza, di mitezza e di amore, dimostra che questo è il vero modo di essere potente! Questa è la potenza di Dio!”.
Prima di dirci quello che dobbiamo essere, Gesù ci dice chi è Dio, come si comporta con noi, come si rapporta a noi. Questa è la “buona novella”, questo è l’annuncio che dovrebbe riempierci di gratitudine e di meraviglia e spingerci ad emulare Dio, il più povero tra i poveri. Solo così non ridurremo la fede a un meschino e sterile moralismo, ma ad una bella notizia!
© RIPRODUZIONE RISERVATA
commenti