29 giugno 2022

La guerra senza fine, la povertà che cresce. E un buio autunno

La guerra fra Russia e Ucraina finirà nei tempi e nei modi che l’Ucraina deciderà. Draghi è, al riguardo, di lapidaria chiarezza: esclusa qualsiasi stringente moral suasion europea in grado di sollevare un po’ della nebbia che tuttora grava su due aspetti centrali del conflitto in corso. Quanto durerà: giorni, mesi, anni?
Quali riconquiste territoriali appariranno adeguate per indurre gli Ucraini a concrete ipotesi negoziali? Per ora alle nostre prostrate economie non resta dunque che continuare a spararsi sui piedi nell’intento, forse illusorio, che il crescendo di sanzioni faccia abbastanza male a Putin da indurlo a più miti consigli. Impossibile negare o smontare il principale argomento messo in campo dai fautori della continuazione dell’appoggio militare a Zelensky: difendendo l’Ucraina difendiamo i confini dell’Europa, dunque i nostri confini e
le nostre libertà.
Le libertà occidentali sono dunque il punto d’appoggio dell’intero ragionamento. Il che, tuttavia, a un’analisi minimamente realistica, più che tacitare i dubbi dei perplessi rischia di aprire un ulteriore e più delicato fronte critico. Siamo e restiamo ovviamente la terra in cui è vivo -non mi spingerei ad aggiungere vegeto- il sistema di libertà brutalmente negate in altre aree del mondo. Venendo a noi, per esempio, tuttora si celebra il rito democratico che chiamando gli elettori alle urne consente il periodico rinnovo delle Camere e dei relativi governi. E’ tuttavia lievemente inquietante che già si vociferi di una volontà di allungare ‘il più possibile’ la durata della legislatura in corso. Quanto a libertà di parola, pensiero e stampa, non ci facciamo mancare nulla, nemmeno la licenza di piazzare in Rete le più strampalate e tossiche fantasie. E’ tuttavia lievemente inquietante -rieccoci alla lieve inquietudine – che chiunque tenti di ragionare intorno al conflitto russo-ucraino in termini di personale libertà critica venga immediatamente artigliato dagli zelanti guardiani del pensiero ufficiale e iscritto con nome, cognome, foto segnaletica e impronte digitali nell’albo dei traditori della patria. Come non ricordare, peraltro, che la libertà prima di riguardare i piani alti della condizione umana (politica, vita intellettuale, spirituale, arte e così via) è nel suo più immediato e primario significato libertà dal bisogno. Riguarda dunque le condizioni materiali in cui si svolge la nostra vita quotidiana. Libertà vuol dire libertà dalla miseria, dalla fame, dalla sete, dall’impossibilità di proteggersi dai rigori del gelo. Spettri che per effetto congiunto di siccità, guerra e impoverimento tornano a visitarci, presentandoci fra l’altro il vergognoso conto di una rete idrica colabrodo che perde più del 40% dell’acqua immessa. Libertà è non soggiacere agli avvilenti effetti della mancanza di lavoro che nega decenti prospettive di vita a milioni di giovani. Né definirei libero il disperato datore di lavoro costretto a scegliere se pagare tasse e bollette o il salario dei dipendenti. E ancora: libertà è non vivere nel buio dell’ignoranza che in forma di analfabetismo di ritorno ci vede maglia nera in Europa e non solo. Credo che a batterci sia solo il Messico. L’80% degli italiani è ormai considerato a rischio alfabetico nel senso che non sa più utilizzare le competenze linguistiche imparate a scuola. Il 51% dei nostri adolescenti non è più in grado di comprendere il significato di un testo scritto, vuoi per discontinuità scolastica vuoi per quell’abitudine a messaggiare su whatsapp che gli ha disossato il cervello riducendolo a portatore inconsapevole di nuove schiavitù. E non avere strumenti critici per interpretare il mondo e se stessi è forse la più mortificante delle schiavitù. Schiavitù, dizionario alla mano, è il contrario di libertà.
 
Persino il più classico degli argomenti messi in campo a onore e gloria del modello occidentale -cioè l’essere il teatro in cui è storicamente nato quel moltiplicatore di vitalità economica e benessere che in effetti fu il libero mercato- esige ormai coraggiosi aggiornamenti. La facoltà che la globalizzazione dei mercati virtualmente possiede di generare crescita e sviluppo ha subìto per infinite ragioni una specie di torsione involutiva riconosciuta ormai anche dai più accesi sostenitori di un tempo. Il processo è stato monopolizzato da multinazionali che obbedendo a logiche di pura massimizzazione del profitto hanno sfasciato assetti produttivi, economici e sociali riducendo il lavoro a disumanizzanti condizioni di precarietà. Se potenzialmente l’interconnessione delle economie rappresenta uno straordinario bacino di opportunità e libertà d’intrapresa, quel che per ora ci tocca registrare è il drammatico ritorno indietro di decenni in materia di relazioni industriali, cultura d’impresa e diritti dei lavoratori. Il tutto senza reazioni adeguatamente incisive da parte dei governi.
 
Ci stiamo impoverendo, il che produce disgregazione sociale e conflittualità. Resta da capire se e quanto una proletarizzazione del ceto medio gigantesca e dolorosa come quella in corso potrà essere gestita e governata mantenendo intatto il quadro procedurale e sostanziale delle nostre libertà. In questo senso, il Novecento, che credevamo morto e sepolto, è appena dietro l’angolo col suo repertorio di dure lezioni troppo in fretta rimosse. Il trend storico è dunque chiaro: più poveri, più conflittuali, meno liberi. Il che basta e avanza per rendere desiderabile una concentrazione più sistematica, aggressiva ed esclusiva del governo sulle eccezionali criticità sociali del cantiere Italia e della sua agenda. Resta ovviamente lecito e magari nobilmente educativo continuare a chiedere all’opinione pubblica di sopportare i costi dell’economia di guerra come prezzo per la difesa dei nostri valori e delle nostre libertà. Resta lecito. Ma via, via più rischioso. Qualcuno, magari il prossimo autunno, potrebbe infatti cominciare a porre la domanda cruciale: di quali libertà stiamo parlando? E per risposta non accetterà acqua fresca.
 
vittorianozanolli.it
Ada Ferrari


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