27 luglio 2022

La politica italiana e il teatrino dei pupi. Chi si salva?

A campo largo funestamente convertito in campo stretto, la fantasia creativa di Enrico Letta non s‘arrende e già lavora a un nuovo schema
di gioco. Detta dunque ai fedeli la strategia vincente: ”dovrete avere occhi di tigre”. Ed ecco la festa de L’Unità di colpo convertita in raduno dei tigrotti di Mompracem. Chi avrebbe detto che dietro quell’aria compostamente curiale, da frequentatore di lungo corso deipiù felpati meandri del Sinedrio politico, covasse un novello Sandokan di sguardo magnetico e mossa felina? Un attimo di sconcerto e il da farsi mi appare in luminosa chiarezza. Non esiti Giorgia Meloni, favorita da occhio ceruleo e chiome bionde, a vestire le fluttuanti sete dell’indimenticata Perla di Labuan. E lasciamo che il leggendario idillio migri dalle pagine di Salgari alle stanze di palazzo  Chigi regalandoci -nuovo di zecca e a costo zero- un rinato patto di unità nazionale. E vissero tutti felici e contenti. Miraggi di una torrida notte di mezza estate.
 
Ben altra e di desolante modestia è la realtà di una politica che, alle prese col dopo Draghi e l’elaborazione del lutto, ripiega sul classico ‘Il Re è morto. Lunga vita al Re’. E si disputa la divisione delle spoglie in spudorato crescendo di rivendicazioni ereditarie, a cominciare ovviamente dalla celebre Agenda ormai assurta a novella appendice del Nuovo Testamento. Se persino per il maschio alfa di cui il Paese disponeva le tappe del Piano di Ripresa e Resilienza furono scalata impervia e non sempre spedita, figuriamoci quando garanti dell’impresa saranno i mezzi busti dell’odierno teatrino. Il miglior
commentatore dell’attualità politica? Un certo Francesco Guicciardini che, benché morto nel lontano 1540, aveva capito tutto: il capitale vizio che azzoppa la storia d’Italia è quell’attaccamento del singolo al suo interesse ‘particulare’ che sistematicamente prevale sull’interesse generale. Ovvio che, oltre al Santo Graal dell’Agenda, tre parole si spartiranno scena e retroscena della campagna elettorale: progressismo, populismo e sovranismo. E poco conta che si tratti di parole usurate fino ai limiti dell’insignificanza e con lo stesso tasso di verginità dei politici che, a secco di più pertinenti e solidi ragionamenti, ne usano e abusano trasformandole nella fiammeggiante linea di confine fra Bene e Male, salvezza e perdizione.
 
Prendiamo, per esempio, la parola progressismo che  palesemente evoca il progresso e come tale può contare su una diffusa predisposizione
favorevole. Chi non ama il progresso?  Senonché parliamo di un concetto che più di ogni altro ha subito il lento lavorio di erosione e rimodellamento che la Storia nel suo procedere non risparmia a nessuno. Cos’è il progresso nell’anno di grazia 2022? Ogni epoca e generazione ne riscrive a modo suo profilo e sostanza. Se ieri era costruire fabbriche e innalzare ciminiere in nome dello sviluppo e della modernità industriale, oggi – sperimentato che di un certo sviluppo si può anche morire –  ecco che il progresso tende quasi a identificarsi con la famosa ‘decrescita felice’ che molti seduce per l’appunto in quell’area politica. Lecito pertanto chiedersi come il progressista doc si collochi, per esempio, dovendo concretamente
trovare la quadra fra la difesa dell’ecosistema e quella, altrettanto prioritaria, dei posti di lavoro senza i quali  le sue amate classi lavoratrici  sono  destinate a  ulteriore tiro di cinghia. Ed ecco che l’apparente linearità delle astratte etichette identitarie è destinata a sfarinarsi  nel cruciale passaggio dal dire al fare. E se il dire suona di lapidaria intransigenza, il fare è assai più elastico, come ampiamente illustra il lungo fidanzamento fra progressisti Dem e populisti Pentastellati giunto fino a programmare di metter su casa insieme. Una volta ‘sfidanzati’ a chi resta il marchio?  Conte non ha dubbi: ‘I veri progressisti siamo noi’. Ma non era l’avvocato del popolo? La confusione è servita.
 
Ma, in fondo, vespaio analogo solleva anche la parola sovranismo che, avendo a che fare col concetto di stato sovrano, suscita nei ‘politicamente corretti’ anatemi al solo pronunciarla,  come sommatoria delle più beluine pulsioni umane: egoismo nazionalista, oscurantismo, antieuropeismo, sfascismo e così via. Osservo, a scopo di pacifica provocazione, che se non fossimo assatanati retroscenisti tuttora chini sulle ultime ore del governo Draghi, non  saremmo qui a commentare una crisi di governo bensì la crisi della politica in quanto tale. E il fenomeno ha, sì, a che fare col declino qualitativo di ceti politici e classi dirigenti  ma anche e soprattutto col nuovo e stressante quadro operativo cui le politiche nazionali sono costrette dopo che la costruzione dell’Europa Comunitaria ha richiesto agli stati cessione di significative quote di sovranità, cioè autonomia, cioè libertà. Mettiamola così: la politica ha gli stessi compiti del passato, risolvere i problemi domestici, ma a differenza del passato non ha più completa disponibilità delle leve e degli strumenti che consentono di farlo. Leve e strumenti sono in parte migrati altrove, finiti sia nel ginepraio della globalizzazione che nelle sfiancanti complessità delle concertazioni imposte dalle burocrazie comunitarie. Vedi stallo, o fallimento, del tentativo di
mettere un tetto al prezzo del gas perché Olanda e altri si sono messi di traverso. Come se un medico dicesse: ho diagnosticato la malattia,
so che farmaco occorre, ma arrivare a metterci le mani è un rebus, darlo al paziente è una corsa a ostacoli.
 
Se, operando in queste condizioni, la politica non è più in grado di mantenere le promesse e più che mai genera legioni di delusi, di orfani, di gilet gialli e forconi, si potrebbe forse realisticamente riconoscere qualche elemento di sensatezza in chi rimpiange l’agilità decisionale e operativa del vecchio stato sovrano.  La verità storica è un prisma di cui nessuna faccia può essere pregiudizialmente ignorata.  Il Paese non merita questo teatrino dei pupi che s’illude di farla franca e superare la tagliola del voto esasperando il gioco delle identità contrapposte e presuntamente vergini. Dopo una campagna elettorale giocata su questa rabbiosa delegittimazione reciproca dove troveremo il minimo di convergenze necessario per fare le riforme e onorare gli impegni a cui gli aiuti europei ci vincolano?  Per dirla con Sgarbi: capre, capre, capre.
 
vittorianozanolli.it
 
Ada Ferrari


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commenti


Giuseppe Zagheni

31 luglio 2022 09:20

Cara Signora , ho notato che nel suo elenco di parole usurate ne manca una :Moderati , parola di cui bisogna capire il senso che vuol dire moderati ? Moderati in che cosa ,è un termine da dietologi da rotocalco patinato, potete mangiare tutto basta essre Moderati. In politica viene usato dai peggiori arraffoni e voltagabbana un po' in tutte le latitudini ma soprattutto in Italia il termine è appannaggio dei vari Berlusconi Renzi Calenda ci poteva stare anche Enrico Letta ,ma lei lo ha già collocato da un'altra parte quindi...Da quanto ho capito dal suo scritto è lei che sente (politicamente ) la mancanza di Draghi ,definito da lei maschio alfa della politica italiana.Bene Quest'uomo non aveva nessuna voglia di fare il PdC (basta vedere le nomine dei ministri) il suo obiettivo era la Presenza della Repubblica infatti non appena Conte ha chiesto dei chiarimenti ha dato le dimissioni ,e con il bailamme che è seguito. Come sappiamo Draghi era il campione dei cosiddetti moderati, ed infatti di moderato non aveva niente (vedi riforma Cartabria )