25 maggio 2023

La retrocessione arriva dal mercato. Con Ajeje Brazorf non si poteva fare di più

Vabbè che nessuno me lo chiede, ma se mi chiedessero quale immagine in questo momento abbinassi alla retrocessione della Cremonese risponderei: la maglietta di Ajeje Brazorf in tribuna allo Zini.

Per chi non conoscesse il personaggio creato da Aldo Baglio del trio comico Aldo, Giovanni e Giacomo, si tratta del nome inventato dal passeggero abusivo del tram milanese per non pagare la multa al controllore. Il tifoso grigiorosso che ha indossato la maglia numero 10 col nome biascicato da Aldo nell’irresistibile sketch ha colto nel segno più di qualsiasi critica al mercato estivo della Cremonese.

Collegandomi al mio ultimo commento su questa testata (perdonatemi l’autocitazione), alla vigilia dei Mondiali in Qatar quindi precedente all’arrivo in panchina di Ballardini, chiusi l’intervento sostenendo che “potrebbe arrivare un allenatore esperto, ma anche uno chef di prestigio, se gli dai insalata e maionese, può farci ben poco”. L’allenatore esperto era arrivato, gli ingredienti quelli sono rimasti.

Torniamo all’estate del 2022. Si era ancora invasi dall’euforia quando arrivavano le notizie dei nuovi giocatori della Cremonese: i nomi di Aiwu, Pickel, Lochoshvili, Tenkorang, Ascacibar eccetera cosa avevano di diverso da Ajeje Brazorf? Diciamoci la verità: la speranza era che il mago Braida, reduce dal mercato dell’anno prima quando portò a Cremona giovani di belle speranze (purtroppo tutti in prestito secco) poi rivelatisi campioncini in erba, avesse setacciato il mercato mondiale forte delle sue conoscenze garantendosi nuovi crack, sull’onda di quanto fatto dal Napoli con Kvaratskhelia (pagato poco più di Felix Afena-Gyan). Ammesso, ma tutt’altro che concesso, che il mercato l’abbia condotto l’Ariedo, il flop è stato pressoché totale. Ma se Braida non c’entra nulla con queste operazioni, e lo dimostrerebbe il fatto che mai ne ha parlato pubblicamente, perché questo profilo basso, questo suo silenzio abbinato alla presenza allo Zini, nonostante il suo ritorno a Monza venga dato per imminente? Mistero, almeno per tutti noi da questa parte della barricata cui non è dato sapere.

Sempre in estate, la scelta di fare allenare questo gruppo di sconosciuti di belle speranze ad un allenatore emergente come Massimiliano Alvini evidenziava una scelta societaria orientata verso gli allenatori “giochisti” piuttosto che i “risultatisti”. D’altra parte è vero che nelle ultime stagioni le squadre di bassa classifica che si sono salvate lo hanno fatto affrontando a viso aperto anche le grandi, come dimostrano ad esempio le salvezze ripetute di Empoli e Spezia. E anche a livello continentale nei maggiori tornei vediamo che il titolo è andato alle squadre col maggiore possesso palla: Manchester City, Napoli e Barcellona. La stessa Inter ha raggiunto due finali cambiando filosofia con Simone Inzaghi, rispetto alla grande Inter che vinse la Champions nel 2010 grazie alla difesa ermetica: fu l’ultima squadra a vincere la Champions affidandosi a una tattica speculativa. Era l’Inter di Mourinho, anche oggi un’anomalia alla guida della Roma. Lo stesso Mourinho che, da genio della comunicazione qual è, replicò dopo una vittoria risicata a un giornalista polemico in sala stampa che gli fece notare la scarsa percentuale di possesso palla: “Per me la palla se la potevano anche portare a casa. A me interessavano i tre punti”. L’Inter torna in finale dunque col possesso palla mentre Mourinho continua a centrare finali all’insegna del pragmatismo. Distinguere gli allenatori semplicemente tra quelli che arrivano al risultato attraverso la qualità del gioco e quelli per cui il risultato è davanti a tutto è una semplificazione, ma è vero che l’estetica dominante sull’avversario è la chiave di molti degli ultimi successi. Nelle sfide secche questo approccio conta meno, nel corso di una stagione vediamo che paga di più avere il controllo del gioco.

E dunque, tornando ai fatti nostri, questo fu il ragionamento fatto dai dirigenti grigiorossi: una scommessa doppia, fatta su un allenatore alla ricerca di una formula tutta da sperimentare per di più con giocatori nuovi e dalle potenzialità ipotetiche. Come sappiamo, è andata malissimo: Alvini ha raccolto 7 punti in 18 gare, frutto di 13 gol fatti e 32 incassati. Per la verità in diverse occasioni la Cremonese avrebbe meritato di più, ma l’inesperienza è risultata spesso fatale. Ma più di ogni cosa hanno contato le difficoltà di adattamento dei tanti nuovi, molti dei quali apparsi non attrezzati per un campionato del livello di quello italiano. La società ha atteso a lungo prima di arrivare al cambio: una scelta sofferta e non più rinviabile dopo che erano state concesse ad Alvini diverse prove di appello. La scelta non poteva che cadere su un profilo opposto, e dunque ecco il navigato Ballardini, l’uomo che aveva salvato dal naufragio diverse barche alla deriva. Motivazioni, concentrazione, poche parole, Ballardini ha ripescato giocatori prima accantonati come il pupillo Vasquez, che assieme agli altri difensori (purtroppo Chiriches quando era troppo tardi) e al rientrante Carnesecchi hanno cercato di costruire il muro su cui erigere la rimonta. È vero che qualche elemento nel frattempo si è meglio inserito nel contesto della serie A, e questo ha favorito un lieve cambio di passo, ma alla fine dei conti i reparti di centrocampo (arricchito da Benassi, non convincente fino in fondo) e di attacco non hanno dato le risposte che ci si attendeva, almeno per sperare nella risalita.

Anche Ballardini ha guidato la Cremo per 18 giornate, raccogliendo 17 punti, con 19 gol fatti e 34 subiti. Dunque, ha migliorato la media ma nonostante l’approccio più difensivista ha incassato più gol del predecessore: alle tante leggerezze non si è trovato rimedio. C’è chi sostiene che con lui in panchina dall’inizio, o almeno alle prime avvisaglie dell’infausta stagione, le cose sarebbero andate diversamente. Probabilmente saremmo comunque retrocessi, e la prima causa è proprio il livello tecnico dei giocatori della rosa. Siamo passati da un centrocampo fatto da Castagnetti, Fagioli, Gaetano e Buonaiuto in serie B (forse tecnicamente il livello medio più alto nella nostra storia) a uno decisamente più scarso nonostante la serie superiore. In attacco poi nessuno ha convinto fino in fondo, a parte l’intramontabile Ciofani che ha fatto il possibile, confermandosi (al momento) per la terza stagione di fila il bomber della squadra (rispettivamente con 11 e due volte 8 gol).

Col senno di poi sono tutti bravi, certo, ma possiamo dire che anche quest’anno chi ha pescato bene in serie B è stato premiato: il Monza ha conservato Ciurria, il Lecce Strefezza e ha acquistato Baschirotto (a Cremona lasciato andare), l’Empoli ha avuto in prestito Cambiaghi dall’Atalanta. Si sarebbe potuto andare sul sicuro con bomber come Coda e Lapadula, ma senza pretendere tanto  la serie B aveva messo in mostra elementi come Caso e Partipilo, per dirne due, che si sono confermati anche quest’anno.

Insomma, ammettiamolo: come ha riconosciuto Ballardini dopo il brutto ko col Bologna, la squadra merita di retrocedere. Tutto deriva dal mercato, dove assieme al coraggio sarebbero servite più garanzie. E probabilmente più scelte autarchiche: un gruppo base di italiani facilita la coesione soprattutto in un gruppo nuovo. Senza paragonarci al Monza berlusconiano, pensiamo che tra le rivali alla salvezza figurava un Empoli (cittadina più piccola di Cremona ed economicamente paragonabile) che davanti non ha solo Caputo, ma come alternative Destro, Piccoli e Pjaca. E come rifinitore può scegliere fra tre grandi promesse come Baldanzi, Cambiaghi e Vignato. Ma l’Empoli ha un settore giovanile che produce talenti per la prima squadra, il contrario di quel che esce dal bellissimo centro sportivo grigiorosso.

Vanni Raineri


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