La ricerca di un cappotto e i 50 anni dalla morte di Picasso: è finita la modernità e inizia l'oblio?
Cercavo un cappotto nuovo. Doppiopetto, in lana di cammello, chiaro e non troppo pesante. Niente. Ho girato veramente tutta la Milano che conosco senza trovare soddisfazione, a meno di spendere due o tre mila euro. Cosa che non ho fatto: non me ne vogliano stilisti e venditori, ma come diceva Woody Allen “soldo fruscia, miseria piscia” e si sta veramente esagerando… Mi sono dunque arreso all’acquisto via internet, mio malgrado, dopo una snervante maratona comparativa di offerte e immagini nessuna delle quali renderà mai la vista e il tatto dal vivo del cappotto che ho comperato fino a quando un corriere nevrotico e maleducato non me lo sbatterà in portineria dentro una triste scatola di cartone, e speriamo in bene. E’ come se si dovessero cercare in un nuovo mondo, quello della rete, gli ultimi pezzi avanzati di un mondo che non c’è più. Tristezza estrema del confine estremo del capitalismo: i negozi arrancano e chiudono; sopravvivono solo quelli del grande lusso internazionale ma soprattutto, nota assai più interessante, sta cambiando definitivamente il modo di vestirsi della massa: tute e piumini hanno definitivamente scalzato giacche e cravatte. Prova ne è che ormai se volete abiti o cappotti, appunto, di stile e qualità, dovete spendere grosse cifre, perché la produzione di massa si è spostata sul look sportivo -comodo-non stiro, quello perfetto per lo smart working e le serate davanti ai maxischermi led-tv inondati dalle serie Netflix e Amazon. A che ti serve essere elegante se non vai in società? E in effetti, la storia della moda ci insegna che i periodi di eleganza più assoluta sono stati quelli in cui si viveva la mondanità assoluta: la Milano degli Sforza, la Venezia dei Carnevali del ‘700, la Londra Vittoriana, la Parigi della Belle Epoque e la New York dei ruggenti anni ’20. Più si sta con gli altri, più si vuole essere ben vestiti, più si sta in casa meno ci si veste. E meno ci si diverte.
Il mondo cambia questo è indiscutibile, ma non necessariamente cambiare vuole dire evolversi, a volte i cambiamenti portano anche delle involuzioni. E per quanto riguarda l’abbigliamento e la vita di società, nel mondo verso il quel andiamo, ci aspettano certamente delle involuzioni. Non so perché, ma ad un certo punto di queste mie faticose e inutili peregrinazioni alla ricerca di un capotto mi è vento in mente Picasso.
A lui che aveva inventato la modernità, chiesero una volta perché a Parigi abitasse contraddittoriamente ancora in un vecchissimo appartamento di fine ‘800, e lui rispose senza tentennamenti che non avrebbe mai potuto abitare in una casa moderna. Ecco, il cappotto sta al piumino come la casa antica sta a Picasso. E se Picasso fosse vivo oggi cercherebbe anche lui un cappotto di cammello, e non vorrebbe che fosse di prezzo elitario come un eccentrico capriccio per pochi. Io abiterei molto volentieri in una casa super moderna e super minimalista, perché ormai il minimalismo è un classico. E mi piacciono moltissimo anche le tute, purché non siano nere vivaddio. Quello che non tollero è la mancanza di scelta, l’obbligo massivo di adeguarsi per forza alla casa moderna ma brutta, e ai vestiti moderni ma brutti. L’obbligo non è mai una evoluzione, la bruttezza non è mai una evoluzione: lo diceva anche Papa Ratzinger che la bellezza non è mero ornamento ma attributo essenziale di Dio e suo strumento di rivelazione. Ebbene ad un certo punto Ieri ho scattato una foto di via Torino a Milano invasa di gente per i saldi: orde di piumini e berrette ovunque. Vi sfido a confrontarla con una qualsiasi foto di una strada di Manhattan degli anni ’20 e non vederne immediatamente le differenze: tutti più eleganti di noi oggi, anche se erano tutti molti meno benestanti. Tutto col cappotto doppiopetto e con un Fedora in testa. Questione di stile, non personale, ma collettivo. Perché il ‘900 è stato veramente tutto, e il nuovo millennio sembra al momento essere il nulla.
Di Picasso in aprile corrono i 50 anni dalla morte, e siccome quest’anno ne sentiremo parlare in tutto il mondo, ne parliamo un pochino anche noi qui. Della sua modernità, e anche del mio cappotto.
La modernità di Picasso era lo straordinario eclettismo che lo ha visto essere in una continua inarrestabile evoluzione tutto quello che è stato il ’900: impressionista, espressionista, pre-raffaellita e metafisico, cubista, etnico e africanista, minimalista, erotico e addirittura pornografico, astrattista e surrealista, e infine perfino pop. Picasso è stato iper-produttivo come il ‘900, un vero capitalista dell’arte, che adorava spendere fiumi di denaro e pagare conti stratosferici per decine di amici nei ristoranti più costosi al mondo magari firmando un tovagliolo ( abitudine che in realtà era più di Dalì) ma che allo stesso tempo era comunista, fieramente anti fascista e non sopportava gli Stati Uniti (anche qui…quanta preveggenza…): il comunista più ricco del mondo, ed anche in questo è stato precursore di tante contraddizioni sia dell’uno che dell’altro blocco. Nella sessualità è stato moderno solo a metà: era un libertino impenitente e anche piuttosto sciovinista, eppure nessuna traccia di omosessualità ma decine di donne e relazioni al limite della poligamia… un’altra delle sue contraddizioni “moderne”. Era spiccio e cinico come il ‘900: quando un suo amico faceva romanticamente notare che nella campagna francese “le vaches non sont plus la…” (stanno sparendo le mucche, ndr) lui rispondeva che contavano i tori non le mucche, e infatti ne ha disegnati a centinaia, inimitabili.
Ha inventato la modernità perché ha potuto assorbire e rielaborare una incredibile varietà di stili, schemi e culture, ma ha sempre in comune un tratto: è sempre bellissimo, anche se non lo si capisce. Come diceva Daverio, “di Picasso non capisci quello che dice ma lo vuoi tantissimo: è il massimo lusso per l’occhio”.
Pablo Ruiz, così si chiamava alla nascita quasi 150 anni fa, scelse poi il cognome della mamma il cui nonno era genovese DOC: il più spagnolo dei cognomi è in realtà italianissimo, ed è finito per colpa dell’avidità di figli e nipoti sulla fiancata di una delle macchine più brutte mai costruite, triste e tipico destino delle grandi eredità. Emigrò quindi nella Francia della Belle Epoque da doppio immigrato, anche in questo straordinariamente novecentesco, uno spagnolo col cognome italiano, e riuscì nell’arte a fare ciò che la superba e coltissima borghesia francese tentava da anni con Cezànne, che in fondo del cubismo è stato l’inconsapevole patriarca: fare un’arte completamente libera dal significato ma talmente bella da essere indiscutibilmente universale. Cezanne ci aveva provato con le mele, l’italo spagnolo ci riuscì con le donne nude fatte a pezzi come specchi rotti: Les demoiselles d’Avignon, 1906. Da lì in poi l’arte non è più stata la stessa, è da Picasso in poi che si fa l’arte fine all’arte, che l’artista annienta il committente e il pubblico, che l’immagine prevale su qualunque significato e su qualsiasi storia.
E’ morto negli anni ’70, alle soglie dell’arrivo dei PC, dei telefoni cellulari e di internet: altro segno che ci dice che la modernità è un’era finita, e che quella di internet non è tutta un’altra epoca, ma forse proprio una nuova era che nulla ha a che vedere con quanto accaduto prima, e che di cui noi stiamo vivendo gli albori: e attenzione, perché mentre ogni epoca è una continuazione diversa di quella precedente, un’era è sempre un azzeramento di tutto quanto avvenuto prima.
Ecco perché Picasso avrebbe voluto, come me, trovare con facilità un bel cappotto cammello di qualità a buon prezzo: avrebbe così potuto sperare che non stava finendo un’era...
Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano
Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano
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