La testimonianza delle donne da scritture segrete a voci libere . Il 25 novembre contro la violenza sulle donne
Tra pochi giorni verrà celebrata la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne istituita dall’Assemblea generale dell’ONU il 17 dicembre 1999. Ogni uomo, con un minimo di rispetto, sensibilità, cultura dovrebbe contribuire a questo sacrosanto evento prendendo posizione e informandosi su alcune storie di donne contenute in pubblicazioni, che tutti, a cominciare dalla scuola e dalle famiglie, dovrebbero leggere e meditare, coinvolgendo le ragazze e i ragazzi, e naturalmente, le loro famiglie, più bisognose di loro di adeguata formazione.
Comincerò con una vicenda tanto dolorosa quanto emblematica, contenuta in una pubblicazione di qualche anno fa, ma attualissima: Emanuela Violani, Diario segreto dei miei giorni feroci, Claudiana, 1911), con una “Premessa” di don Virginio Colmegna (presidente della Fondazione “Casa della Carità” di Milano voluta dal cardinale Calo Maria Martini per accogliere e ospitare persone in difficoltà) e una “Introduzione” di Duccio Demetrio, il più noto esperto di scrittura autobiografica in Italia). Si tratta di un diario epistolare affidato da Emanuela (uno pseudonimo) con lettere ad un’amica (forse inventata), dove si racconta la storia di un abuso subito per anni da una ragazza con gravissimi disagi familiari, che rischiavano di distruggerla nel corpo e nella psiche, compiuto da un sacerdote alla quale lei si rivolgeva per ricevere conforto, comprensione e aiuto nelle sue sofferenze.
Un ricatto feroce, che in termini espliciti, suonava così: se vuoi che io ascolti i tuoi problemi personali e familiari, tu poi ci stai a soddisfarmi sessualmente. A cui in seguito si aggiunge una altrettanto colpevole omertà, da parte di un secondo prete. Scrive Emanuela: «Prima che a te le mie lettere le scrivevo al vento, e prima ancora a don B., che un giorno le ha buttate perché i miei 'resoconti' di quanto facevamo con don G. potevano finire nelle mani sbagliate. Quando a don B. ho chiesto: 'È stata violenza?', sottovoce, in un angolo della chiesa lui mi ha detto: 'Se le cose sono andate come le hai descritte, sì, è stata violenza', e poi ssst, silenzio, e se n'è andato». Ci dobbiamo stupire se in seguito questa ragazzetta compirà atti di autolesionismo e un tentato suicidio?
“Un uomo di chiesa, educato e chiamato a discorsi e atti di compassione, carità, attenzione verso ogni dolore del mondo, è il responsabile non reo confesso di questa storia”, commenta Demetrio, e aggiunge, a proposito di vicende di donne e di vittime che vengono finalmente alla luce grazie alla parola scritta: “Ogni scrittura, anche la più “illetterata”, una frase soltanto, è simbolo di resistenza e reazione alle tragedie collettive e individuali. Dalle più manifeste, seppur poi rapidamente sepolte dall'oblio, alle più oscure. Sono le lettere, i diari, le poesie scritte sui muri, i taccuini, in molti luoghi di questa volontà laica e religiosa di opporsi, difendersi, sopportare e lottare. I più privati soprusi, taciuti o tacitati, coperti da omertà e ipocrisie, hanno potuto con un tratto di penna essere non cancellati, piuttosto venire alla luce”.
Il caso di Emanuela è esemplare in almeno due sensi. Il primo riguarda la totale assenza, ma anche il tradimento, in questo caso della cosiddetta “società educante”, famiglia e chiesa innanzitutto, che spesso si invocano per criticare coloro che vorrebbero che a scuola si affrontassero argomenti tanto delicati, drammatici, laceranti. Qualche anno fa io e mia moglie Rita fummo chiamati in una scuola media privata, gestita da suore, per parlare della scrittura autobiografica a insegnanti, ragazze e ragazzi. Portammo tanti esempi, testi, esperienze, soprattutto il valore del “non giudizio”, perché i vissuti di sé e degli altri vanno accolti, non si giudicano. Coinvolgemmo gli allievi in maniera diretta facendoli, scrivere, divertire e riflettere. Alla fine chiedemmo di scrivere in forma anonima, in stampatello per non essere riconosciuti, una pagina di diario segreto da infilare in una scatola. Quando aprimmo, fummo travolti dalla commozione per l’intensità dei vissuti espressi in quelle tacite confessioni. Eccone alcuni tra i tanti:
“Caro diario, ho tredici anni e spesso mi chiedo in che cazzo di mondo mi trovo. Mi chiedo tante cose, se valga la pena vivere e se ci sia un modo per uscire da tutto questo… Vorrei morire. Una volta ho provato a buttarmi giù da un tetto, ma sono atterrata in piedi. Non so se questo potrebbe essere un rimedio a tutto, ma in un momento di debolezza ho tentato. Ora il suicidio non mi passa neanche per la mente…”.
“Sono una studentessa di 14 anni. Oggi racconterò di quando io ho “sofferto” di autolesionismo, molte volte “ripenso” che ci potrei “ricadere”, anche perché mi è successo più di tre volte... La cosa che mi dà più fastidio, sono le cicatrici, che si vedono anche molto. L'unica persona che lo sapeva è l'Alessia, e anche Martina, che sono le mie due migliori amiche. Poi mi hanno “scoperto”, è la mia professoressa, poi sono andata da una psicologa, poi ci sono ricaduta e ora sono sicura che non ci ricadrò (o almeno spero). Questo è il mio segreto.”
“Eccomi qua, una ragazza di 13 anni che ogni giorno lotta per trovare una ragione per vivere, che ogni giorno ha bisogno di un abbraccio, di un ‘ti voglio bene’ per sentirsi felice, ma non sempre ci sono, o se ci sono, non sono pienamente sinceri. Ho i genitori separati e nella mia famiglia mi sento incompresa, messa da parte… Mi sento sola, abbandonata, in mezzo a gente che non pensa a me… Chiedo un po’ d’affetto, un abbraccio vero. Chiedo qualcuno che quando cado sia sempre pronto a rialzarmi.”
La seconda considerazione ci porta al valore della scrittura personale, diaristica o autobiografica, che può svolgere una funzione salvifica, in quanto lo scrivere a una/un confidente o a se stessi sollecita a credere che la propria persona, la personale voce interiore, non può essere annullata, soppressa: “lo scrivere a se stessi, non trovando lettori e orecchie benevole, diventa pertanto non solo necessario, ma un diritto civile. E tutti coloro che irridono, tacciandoli di estetismo o di sentimentalismo, questi gesti della mano non sanno che l'educazione alla scrittura di sé può rappresentare un modo incomparabile per prevenire i danni del corpo e della psiche” (Demetrio).
Queste parole si collegano idealmente a quelle di una grande scrittrice contemporanea, Dacia Maraini, che dedica un recentissimo volume alle donne amanti della lettura e della scrittura, le sue madri ideali (Scritture segrete. Le donne che hanno cambiato il mondo con la parola, Rizzoli, Milano, 2025): testimonianze e testi quasi sempre relegate nella letteratura “minore”. Nel testo cita le storie di decine e decine di autrici (più di 70) di diverse epoche storiche e svariate culture, che hanno osato scrivere, parlare di sé, della famiglia, della società, del mondo umano. “Le donne hanno sempre letto avidamente e scritto, anche se segretamente – ricordiamoci di Jane Austen che nascondeva le carte scritte sotto la biancheria da stirare perché la scrittura per una donna era un atto di presunzione un poco diabolica… ancora oggi la scrittura femminile non è considerata prestigiosa, rilevante, esemplare”.
Pur ricordando le pesantissime responsabilità del cristianesimo nell’alimentare l’immagine della donna come diabolica tentatrice, le pagine più numerose e dense di solidarietà umana e femminile, Dacia Maraini in questa raccolta le dedica giustamente a una martire cristiana, Vibia Perpetua (182-203 ca) vissuta e morta a Cartagine, praticamente sconosciuta, che menava scandalo in famiglia e nella società romana del tempo: “la dignità della persona (da cui discendeva la condanna della schiavitù), l’amore per il prossimo, l’attenzione per gli esclusi e gli umili, compresi gli animali, il voto di povertà e la rinuncia ad ogni lusso e comodità egoistica. Idee assolutamente incomprensibili per la cultura romana, basata sulla forza della guerra, sulla supremazia di una razza prediletta dagli dei che sottometteva tutti i popoli inferiori, che considerava la schiavitù come un diritto naturale e la sottomissione delle donne come un diritto inalienabile dei maschi della specie. Non accettavano che la romana Vibia trattasse da uguali i suoi schiavi, come se fossero anch’essi cittadini romani, pari nei diritti e nei doveri, Di tutto questo non sapremmo niente se non ci fosse il diario di Vibia: pagine semplici, sincere e commoventi, ma prive di autocompiacimento e di lamentele”.
Un’altra preziosa rievocazione della scrittura al femminile, e del suo inestimabile valore di testimonianza, di resistenza nascosta, di spiritualità spesso inarrivabile, di difesa dalla propria identità di donna si trova nelle pagine dedicate alla giapponese Murasaki Shikibu (973-1014 o 1025 ca), autrice del romanzo “Genji monogatari” (La storia di Genji),. “La foto di mia madre con il vestito a fiori chiari su fondo scuro e i capelli raccolti dietro la nuca mi porta, attraverso le vie misteriose della memoria letteraria, a Murasaki Shikibu, così come l’ho conosciuta nell’immaginazione, intenta a scrivere con il pennello su un largo foglio di carta di riso. Il suo romanzo è stato forse lo strumento più completo e felice per la comprensione del Giappone dell’epoca Heian”.
Prosegue Dacia Maraini: “Buffa la storia della squisita scrittrice giapponese: nell’anno Mille in Giappone i letterati scrivevano in cinese perché quella era la lingua dei dotti, dei poeti, dei filosofi. Il giapponese, come il nostro volgare, era lasciato alle donne, ai servi. E Murasaki, piccola dama di corte dai pensieri fluidi e lo sguardo attento, ha nobilitato la lingua degli inferiori, componendo in “kama” il più bel romanzo della letteratura giapponese. I Paesi, ne sono convinta, si conoscono soprattutto attraverso i romanzi”.
Per tale motivo la scrittrice prosegue le pagine dedicate a Murasaki non parlando più di lei, che meriterebbe ben più ampie considerazioni, ma a una storia che riguarda la scrittura delle donne in Cina: “Anche le donne cinesi del millennio passato hanno inventato e utilizzato una scrittura segreta fatta di caratteri tradizionali cinesi, ma usati come veri e propri segni fonetici che ricamavano su ventagli, abiti, fazzoletti e cinture. E questo per raccontare in lettere e diari i dolori e le mortificazioni della loro condizione di sudditanza: matrimoni forzati, segregazioni, violenze, umiliazioni. Ho sempre pensato che ci fosse un rapporto segreto e profondo, di necessità e pudore, ma anche di sensualità e ardimento, fra il corpo della donna e la scrittura, che nelle sue forme istituzionali è quasi sempre stata usata, quando non proprio contro di lei, certamente senza di lei”.
Tra i tanti racconti su donne scrittrici, si cita anche un episodio della maggiore poetessa americana dell’800, Emily Dickinson: “Un giorno scrisse una lettera ad un critico famoso, che si chiamava Thomas Higginson, in cui con molta umiltà osava chiedergli di leggere le sue poesie perché teneva tanto a un suo parere. Lui le rispose - entrambe le lettere sono tuttora conservate – dicendo: Cara Emily, lei certamente ha grazia, ha uno stile personale, però io le devo dire la verità, per me le mani delle donne sono fatte per cucinare, per cucire, non per scrivere…”.
Cita anche una grande scrittrice italiana dell’800, Matilde Serao, che osò infrangere la bella cartolina di Napoli per turisti, interessandosi al “Ventre di Napoli”, a cui tra l’altro si è rifatto Pino Daniele, quando canta “Napule è nu sole amaro / (Napule è addore e’ mare) / Napule è na’ carta sporca / (E nisciuno se ne importa)”. Ecco le parole di Matilde: “Colui che doveva vivere e morire, per tutti gli sventurati, disse a Satana, signore di tutte le ricchezze tutte umane, “L’uomo non vive di solo pane”. Ogni volta che una creatura della terra preferisce la fame all’obbrobrio, preferisce il freddo alla vergogna, preferisce la fame alla viltà, ogni volta che una creatura umana in lotta con la fortuna altrui, con la potenza altrui, con la tirannia altrui non cede, non transige, non si piega, e talvolta vince e talvolta muore, muore vincendo, il grande motto ha compiuto il suo miracolo spirituale.”
Voglio concludere questo mio contributo alla giornata contro la violenza verso le donne con un piccolo ricordo personale su una piccola crudeltà contro le donne. Nel 1971 andai a convivere con quella che sarebbe diventa mia moglie e a novembre nacque il nostro primo figlio. Quando mi recai all’anagrafe del Comune a Cremona, mi comunicarono che doveva essere registrato solo a mio nome, Michele Lazzarini, mentre il nome della madre non poteva comparire. Il vecchio Diritto di famiglia, partorito dal regime fascista nel 1942, sostituito dal Nuovo Diritto di famiglia solo nel 1975, prescriveva che il figlio di una donna separata dovesse essere registrato col cognome del marito, anche se fossero passati anni dall’avvenuta separazione. Io, maschio, potevo riconoscerlo come figlio, ma la donna separata no, in quanto sempre subordinata al coniuge. Così all’anagrafe scrissero: “Michele, figlio di Carmelo Lazzarini e di donna che non vuole essere nominata”. All’ospedale la caposala strappò dal braccio di Giusi il nastro con scritto “Michele”, dicendole con cattiveria “Lei non è la madre di questo bambino”. Così lei fu umiliata. E io rimasi “ragazzo padre” per cinque anni, fino al riconoscimento.
Copia a matita eseguita da mia madre Nene Balestreri, da Vespignani, “Ragazze del Decameron”
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