Non ci si può salvare senza passare dall'amore!
Perdersi per ritrovarsi, rinnegarsi per riconoscersi, morire per vivere: l’esperienza cristiana si nutre di paradossi! D’altra parte la Croce di Cristo è il grande paradosso della storia: uno strumento di morte, il più ignominioso e violento, trasformato in un albero glorioso che dona frutti di vita eterna! Fin da subito i primi discepoli compresero che la morte cruenta di Gesù possedeva una fecondità per l’intera umanità che andava ben oltre la pura esemplarità morale di chi dà la vita per una buona causa, magari in difesa della giustizia o della verità. Lo sconfitto emerge come Vittorioso perché è morto amando l’uomo, perdonando i suoi aguzzini, offrendo tutto sé stesso! In questo modo egli ha imposto un cambio di direzione a una storia fatta di infedeltà, di peccato, di sospetto e di morte iniziata nel giardino terrestre con il fatidico frutto proibito mangiato da Adamo ed Eva. Proprio perché perdente egli ha cambiato le sorti dell’umanità riconciliandola con il Cielo e offrendole la possibilità di imparare ad amare sul serio. Con la Croce egli vince senza imporsi, trionfa senza umiliare, prevale senza soggiogare.
Soltanto la Croce di Cristo permette di comprendere il significato profondo dell’amore. L’amore che insegna il Vangelo è, anzitutto un cammino di liberazione, che conduce, non senza impegno e sofferenza, a smarcarsi da sé stessi, a spostare definitivamente il baricentro dell’attenzione dall’“io” al tu. Rinnegare sé stessi non vuol dire diventare masochisti, godere nel farsi del male, ma imparare a prendere le distanze da un amore smodato di sé che si illude di salvare la propria vita per il solo fatto di tenerla stretta. Si ama unicamente retrocedendo, facendosi piccoli, limitando le proprie pretese, godendo del piacere altrui e non del proprio.
Prendere la propria croce è un altro grande esercizio di liberazione perché significa accettare la realtà in cui si è immersi con le proprie luci e le proprie ombre, rimanere ancorati al presente, anche se doloroso e impervio, senza anacronistiche ritirate nel passato o illusorie fughe nel futuro; significa restare fedeli alla propria vocazione che alterna fatiche e slanci, vittorie e sconfitte e non da ultimo accogliere la sofferenza che nasce dalla personale relazione con Cristo, la sofferenza di chi lotta per essergli fedele in un mondo sempre più barbaro ed ostile e per far sì che il bene abbia il sopravvento sul male che è sempre accovacciato alla porta del cuore.
Prendere la propria croce significa riconoscere che Dio è sempre più saggio e lungimirante di noi e che sa trasformare anche la notte più oscura e gelida in un’alba tiepida e luminosa. Vuol dire, cioè, abdicare alla propria presunzione di avere la risposta ad ogni domanda, ad ogni problema; di poter avere sotto controllo tutto: anche il cuore di chi amiamo!
Il grande difetto di Pietro, ben evidenziato nel Vangelo di questa prima domenica di settembre, è proprio la pretesa assurda di poter governare la realtà solo con la propria ragione, le proprie idee, i propri progetti. La presunzione è la figlia prediletta della superbia: la grande madre di ogni peccato! Il pescatore di Cafarnao pecca di superbia perché si mette in mezzo tra Gesù e il progetto del Padre, il quale non vuole la morte del Figlio per soddisfare il proprio desiderio di vendetta nei confronti dell’umanità – come se la disobbedienza di Adamo dovesse, per forza, essere lavata dal sangue dell’uomo -, ma desidera mostrare quanto è potente l’amore, fino a che punto Lui è disposto a sacrificarsi per il bene e la salvezza dei suoi figli.
La tentazione di salvarci e di salvare gli altri senza passare dall’amore - cioè senza sacrificarsi e accettare di soffrire – è sempre viva ed è sempre illusoria!
Ma cosa vuol dire salvarsi? Vuol dire ritrovare la misura alta della propria umanità liberata da ogni scoria di egoismo, di orgoglio, di peccato, vuol dire accettare di amare come ama Dio senza nessuna pretesa, senza nessun possesso, senza nessuna ricerca di una propria esclusiva gratificazione. Salvarsi significa trovare una ragione valida che non sia una delle tante mutevoli e transitorie per vivere e per morire. Salvarsi significa salvare: non si raggiunge la pienezza della propria umanità – cioè la santità – senza uno sguardo attento, benevolo e misericordioso verso gli altri. Non c’è un santo che sia entrato da solo in Paradiso: ciascuno di loro ha “trascinato” con la propria parola, il proprio esempio, la propria preghiera, la propria espiazione tante anime smarrite e sole.
Pietro vorrebbe che Gesù salvi senza un coinvolgimento pieno di tutto sé stesso, magari attraverso la forza, pienamente in linea con la logica del mondo che vede nel dominio e nella potenza l’unica via per trovare un senso al vivere. Ma ci si salva soltanto se ci si perde, si vive soltanto se si muore! È così, il Cristianesimo si nutre di paradossi!
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