7 luglio 2024

Nulla di ciò che è umano è estraneo a Cristo!

L’aspetto più affascinante dell’esperienza cristiana è che tutto ciò che umano è divino, non c’è nulla in noi – eccetto il peccato – che Cristo non abbia assunto in sé, non c’è nulla in noi che non riveli Dio: la sua natura più profonda di “amore vulnerabile”, il suo stile di azione sempre teso alla relazione, il suo essere sovranamente libero. In altre parole l’uomo non può trovare Dio se non passando attraverso la propria umanità, che non va mai rinnegata, castrata o limitata, semmai purificata e continuamente mondata da ciò che profuma di egoismo e violenza. 

Tutto le cose create non sono Dio, ma ci parlano di Lui e ci conducono a Lui: è interessante notare che solo il Cristianesimo, rispetto a tante altre religioni, non considera nulla impuro o capace di contaminare il cuore dell’uomo. La Genesi afferma che ogni cosa è buona e l’uomo – che è il vertice della Creazione – è “cosa molto buona”: il male cioè non è intrinseco nelle cose, ma è frutto della libertà dell’uomo. Tant’è vero che nel Vangelo di Marco Gesù è categorico: «Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: “Ascoltatemi tutti e comprendete bene! Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro". E diceva ai suoi discepoli: “Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo”». Non è dunque fuggendo dal mondo, anche dalla propria carnalità – cioè dalla propria fragilità – che si riesce a trovare Dio e il suo amore, ma è accettandola con tutti i suoi limiti e imperfezioni che è possibile fare esperienza del trascendente.

L’uomo può incontrare Dio in ogni azione che compie: nel lavoro inteso come costruzione del bene comune e valorizzazione dei propri talenti e del proprio ingegno, nella gioia della fraternità che consente di vincere l’idolatria arrogante e presuntuosa del proprio io, financo nell’ozio da intendere come tempo dedicato a quelle attività che non offrono un immediato tornaconto anche in termini economici, ma che permettono di umanizzare sempre di più il proprio cuore! Non è certo perdere tempo restare incantati di fronte alla perfezione un fiore, alla maestosità di una catena di monti, al placido scorrere di un fiume, alla squisitezza di un piatto di pasta all’amatriciana, alla trama avvincente di un romanzo, alla soavità di un brano musicale! Tutto, se vissuto nella logica dell’incanto che ammira ma non depreda, che ringrazia e non pretende, che rispetta e non deturpa, conduce l’uomo ad essere più uomo e quindi ad essere più vicino a Dio. La Costituzione conciliare Gaudium ed Spes è molto chiara a proposito: «L’uomo d’oggi procede sulla strada di un più pieno sviluppo della sua personalità e di una progressiva scoperta e affermazione dei propri diritti. Ma poiché la Chiesa ha ricevuto l’incarico di manifestare il mistero di Dio, il quale è il fine ultimo personale dell’uomo, essa al tempo stesso svela all’uomo il senso della sua propria esistenza, vale a dire la verità profonda sull’uomo. […] Soltanto Dio, che ha creato l’uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, offre a tali problemi una risposta pienamente adeguata e ciò per mezzo della rivelazione compiuta nel Figlio suo, fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo» (GS 41, §1446).

Nel Vangelo di questa domenica i nazaretani non riescono a riconoscere in Gesù il figlio di Dio, perché sono accecati dai loro pregiudizi: sono talmente convinti che Dio sia come loro lo immaginano che ogni aspetto che differisce lo rifiutano categoricamente. Si scandalizzano che Dio possa essere proprio Gesù così uguale a loro. Rifiutano il fatto che il Cristo abbia vissuto per trent’anni come un semplice falegname, con le stesse loro fragilità, i loro stessi problemi, le tante contrarietà che la vita riserva! Si oppongono al fatto che la potenza di Dio risieda proprio nella normalità dell’umano! Ma proprio per questo Gesù è Dio! Commenta sapientemente Silvano Fausti: «L’uomo cerca sempre di essere diverso dall’altro per essere sempre qualcosa di più. Dio invece ha scelto come via di essere in tutto simile a noi. Ha scelto di avere la nostra carne. “Carne” vuol dire debolezza, fragilità. Dio è amore e l’amore porta sempre a identificarsi con l’altro. Per questo Dio si rivela come Dio in quell’uomo lì, in quella fragilità lì, in quella debolezza lì. Per questo ogni nostra debolezza, fragilità e limite può avere un senso; perché Dio li condivide. Per questo ci salva. Noi pensiamo sempre a un Dio diverso, ma se fosse diverso non ci salverebbe».

Caro cardo salutis, la carne è il cardine della nostra salvezza, dicevano gli ottimi padri della Chiesa. La prima grande diabolica eresia è stata proprio quella di non accettare che Dio abbia assunto la carne umana! Meglio un Dio lontano, distante, diverso… e invece Egli è così simile a noi che senza di Lui non sapremmo chi siamo realmente!

Claudio Rasoli


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