Oggi giornata del dialetto: salviamo il nostro e la sua dignità di lingua
Oggi torna la “Giornata Nazionale del Dialetto e delle Lingue Locali” che si celebra il 17 gennaio in tutta Italia attraverso la rete delle Pro Loco, su iniziativa dell’Unione Nazionale delle Pro Loco d’Italia. La giornata è stata istituita dall'unione nazionale delle pro loco (Unpli) nel 2013 con il preciso intento di sensibilizzare istituzioni e comunità locali alla tutela e valorizzazione di questi patrimoni culturali; attività espletata in piena armonia con le direttive dell'Unesco.
Riproponiamo uno scritto del professor Gianfranco Taglietti (scomparso nel 2013) sul valore del dialetto cremonese.
Il dialetto cremonese, pur non meritando, nel suo complesso, lo stesso apprezzamento e pur non vantando la medesima diffusione del milanese, del veneziano, del napoletano, del siculo, ha una sua dignità meritevole di una non modesta valutazione.
La conformazione geografica della provincia di Cremona, racchiusa tra fiumi (il Po, l'Oglio, l'Adda), e la sua modica estensione, impongono dei limiti territoriali definiti; la sua conformazione, ristretta e lunga (da nord-ovest a sud-est) determina una notevole differenza tra i linguaggi delle varie zone, per cui nella provincia di Cremona si possono distinguere almeno tre dialetti: il cremasco, il cremonese, il casalasco, senza considerare le varianti.
Eppure, parlando in generale, sia pure con approssimazione, con un occhio di riguardo per il cremonese vero e proprio (ossia quello parlato in una zona semicircolare con base il Po e centro Cremona per un'ampiezza massima di trenta chilometri), malgrado questa situazione obiettiva, crediamo di poter affermare che il cremonese ha una sua dignità di lingua.
Volendo risalire alle origini, ricordiamo la nota citazione di Dante Alighieri, nel "De Vulgari eloquentia".
Per quali ragioni Dante abbia attribuito una certa qual preminenza al dialetto cremonese non sappiamo, ma possiamo ipotizzare che l'abbia udito direttamente dalla bocca dei parlanti se, come sostenne il prof. Ugo Gualazzini, egli visitò la nostra città.
Il nostro dialetto, come tutti i dialetti, è destinato all'estinzione più o meno rapida. Se siamo d'accordo su questo, salvare il dialetto, nel senso di ripristinare l'uso comune, è utopistico. Salvarlo, invece, nel senso storico-filologico, conservarlo, cioè, come documentazione di un linguaggio del passato e di una cultura degnissimi di attenzione e di rispetto, è opera non solo possibile, ma anzi auspicabile. Scavare in questo terreno è effettuare, in buona misura, un'analisi antropologica e sociologica propria. Non si tratta di un rimpianto sterile del buon tempo antico, ché... "il rimpianto è sterile se non induce a fissare in qualche modo, per i presenti e per i posteri, il volto di ciò che il tempo inesorabilmente muta e travolge" (Angelo Monteverdi).
Disseppellire questo mondo in parte sepolto per mostrare il modo di vivere e di sentire, non è soltanto fare opera di archeologia, ma può mirare a recuperare o a tentare di recuperare, almeno in parte, il vivere a misura d'uomo e allentare la tensione della follia consumistica e della velocità fine a se stessa. Questo - così ci pare - il fine odierno del recupero del dialetto: da un lato, quello di conservare certi modi di dire, certe locuzioni, certi vocaboli in via di obsolescenza (e questo fino ad un certo punto è stato fatto), dall'altro, quello di restituire agli uomini certi valori, certe caratteristiche di civiltà e di cultura, quasi ad invitarli a ritrovare quel senso locale, che è amore per la casa, per la famiglia, per il borgo, per la città, non per un particolarismo municipalistico, ma in vista di prospettive più ampie. Il folklore, poi, che trae la sua connotazione dal dialetto, non è da intendersi soltanto nel suo aspetto pittoresco, bensì come "concezione del mondo e della vita di un tempo" nella sua unitarietà, patrimonio comune degli uomini senza differenze sociali. L'uomo nuovo deve far proprio tutto quanto l'uomo ha prodotto e produce, nel passato e nel presente.
Si vuole dire, insomma, che tutto quanto è stato prodotto dall'uomo è nostro patrimonio di cultura e che, se va ripudiata la definizione che tutto quello che è moderno è buono e tutto quello che è passato è cattivo, così non è vero che tutto quanto è frutto di raffinata cultura è buono e che tutto quanto è popolare è cattivo. Studiare il passato e il dialetto come lingua del passato (definirlo “linguaggio delle classi subalterne" è mistificante) non è, dunque, uno scavo per reperire pezzi archeologici (che pure hanno un loro valore), ma è anche la ricerca di una civiltà, di una cultura, per un confronto tra quello che eravamo, quello che siamo e quello che vogliamo essere, nella prospettiva costante di un domani migliore, da raggiungere tutti, senza distinzione di classi, senza ghettizzazioni - come si dice oggi - sociali e linguistiche. Detto tutto questo, mi sono ricordato della considerazione di una persona amica, che si occupa di libri per passione oltre che per professione. Che abbia ragione quando avanza l'ipotesi che il dialetto sia la "nuova lingua della poesia", in risposta all'esigenza contemporanea di un linguaggi puro, di parole pure, diverse da quelle svilite dall'uso quotidiano?
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commenti
Michele de Crecchio
17 gennaio 2025 18:33
Davvero interessante la lettura di questo scritto del compianto e laboriosissimo Gianfranco Taglietti che, aiutato dalla consorte, fece, a favore della valorizzazione del dialetto cremonese, un lavoro davvero formidabile, soprattutto aggiornando e integrando, nel 1976, il relativo precedente vocabolario che Angelo Peri aveva pubblicato nel 1847.