2 settembre 2021

Philippe Daverio: il ricordo del grande divulgatore a un anno dalla sua scomparsa

Je dois apprendre aux courieux”, io devo insegnare ai curiosi. Questa frase di De Maistre, ritratta in un’opera di Emilio Isgrò, ha campeggiato per anni sugli schermi degli italiani dietro a un singolare signore dagli occhiali rotondi, dal sorriso pacioso e dall’immancabile cravattino a farfalla colorato, con una faccia da cinema francese alla Michel Simon e una voce pastosa e rassicurante che metteva a proprio agio. E non c’è frase che possa meglio riassumere la vita di Philippe Daverio: un uomo che come nessun altro ha saputo insegnare ai curiosi. A milioni di curiosi, dato il successo clamoroso del suo Passepartout, un programma di venti minuti che andava in onda su Rai Tre alle 20.30 e che è arrivato a 300 puntate ed oltre 5.000 repliche, un record senza precedenti. Passeggiare con lui voleva dire essere fermati praticamente ovunque e salutati di continuo. Un successo che lo ha portato ai vertici della cultura italiana dalla Scala alla Fondazione Cini e alla Fabbrica del Duomo di Milano, fino alle amicizie con Giulio Andreotti e ai pranzi al Quirinale con Cossiga e Margareth Thatcher. Gli sarebbe tanto piaciuto fare il Ministro della Cultura, come al grande Paolo Grassi, e ovviamente non gli è riuscito, del resto siamo in Italia…

Mercante d’arte e gallerista (e quindi un po' anche furbacchione), assessore alla cultura milanese, politico, saggista, editorialista, conduttore televisivo, docente universitario, storico dell’arte, critico d’arte (definizione che non amava per nulla perché non lo era), musicologo, filologo… sempre autodidatta. Daverio è stato tutte queste cose, anche se lui amava definirsi un antropologo, perché delle varie culture umane era conoscitore e curioso, e perché l’uomo lui lo capiva davvero benissimo. Aveva una capacità di capire gli stati d’animo, i gusti, le inclinazioni e perfino i pensieri di chi gli stava davanti che aveva del sorprendente. Ricordo che una volta lo vidi spuntare nel cortile di casa da una nebbia autunnale avvolto in mantello verde e cappello bordeaux, mentre io ero torvo in pensieri di fatiche senza soddisfazione, e lui, come un personaggio manzoniano, capendo esattamente a cosa stavo pensando mi disse: “ricordati che la Provvidenza è un refolo di vento, quando meno te lo aspetti soffia dalla tua”. In fondo era credente, nel senso di cattolico, Philippe, anche se non era praticante e per nulla clericale, non disdegnava frequentare i massoni napoletani almeno quanto i francescani di Assisi, suoi grandi amici. Era un uomo decisamente libero, fuori da ogni schema, sia nella cultura che in politica: è stato leghista della prima ora, è stato a sinistra con Penati, poi coi moderati europei, quasi sempre imbarcato in battaglie perdenti. Non era un accademico, non ne aveva la precisione nè la specificità, ma nemmeno la monotonia: era un grandissimo narratore che sapeva spiegare e appassionare alle arti chi non lo avrebbe mai fatto altrimenti.

Monseigneur!” lo chiamavo sempre, perché così si chiamavano i Prìncipi di sangue nella sua Francia del Grand Siècle, e lui sempre mi rispondeva chiamandomi “Mon cher Professeur!”, e così iniziavamo a commentare reciprocamente i nostri abbigliamenti della giornata. Una mania, quella per i vestiti, che condividevamo ma che in lui era rivendicazione sociale: “io rivendico per l’uomo l’uso del colore” diceva sempre, aggiungendo che le società aristocratiche erano policrome e quelle democratiche sono monocrome: “i nobili vestivano coloratissimi, oggi tutti vestono di nero con la camicia bianca”. Ricordo le due enormi ante del suo armadio completamente ricoperte di papillon appesi come panni sulle funi delle case parigine: diceva di averne più di trecento.

I capelli se li faceva tagliare solo dalla moglie Elena, che cercava di rimettere ordine in tutti i suoi disordini, compresi i rubinetti del gas aperti e le multe stradali, e che è stata per decenni al suo fianco la custode (a volte furibonda) “dell’azienda di famiglia” che era lui, come diceva sempre lei.

Sebastiano, il figlio amatissimo, dice sempre che suo padre “era Wikipedia prima che fosse inventata Wikipedia”. E proprio nove mesi dopo la morte di Philippe, ci ha regalato un altro Daverio: il piccolo Giorgio. Philippe è nonno.

Adorava internet e ci passava ore come solo un curioso universale poteva fare: una volta mi tenne in studio dietro di lui per tre ore al computer a vedere i castelli in vendita di tutta la Francia perché voleva farci una specie di enogastronomia di lusso per ricconi mondiali. E di ogni castello criticava la mancanza di gusto dei francesi… lui poteva, lo era per più di metà.

Goloso lo era indiscutibilmente: la pasta lo rassicurava, le acciughe al mattino (tardo) lo svegliavano da buon alsaziano e il gin tonic lo accompagnava spesso nella giornata, assieme ai sigari e sigarette che forse lo hanno portato via prima del tempo.

Adorava le Jaguar, ne aveva quattro e gli piaceva tenerle tutte in cortile e guardarle dalla finestra.

Amava il suo pubblico, girare l’Italia e raccontare alla gente le cose che sapeva e che scopriva, e durante quegli incontri si lasciava spesso andare a riflessioni sulla società che stupiscono oggi più che mai per lucidità e premonizione. E aveva capito che il mondo del Covid e del post-Covid non poteva essere il suo, di questo sono certo anche se non c’è stato il tempo di parlarne con lui.

Diceva sempre che un uomo colto è fondamentalmente uno molto curioso con molta memoria. Credo che avesse ragione. Della sua memoria la famiglia ha deciso di fare un luogo: la Biblioteca del Daverio, in Piazza Bertarelli a Milano, che ha bisogno dei curiosi chi gli hanno voluto bene per tenerne vivo il ricordo (info.daverio@gmail.com).

Au revoir, Monseigneur!

 

Sovrintendente agli Archivi del Comune di Milano

Docente di archivistica all'Università degli studi di Milano

Francesco Martelli


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commenti


Annamaria

2 settembre 2021 07:45

Insostituibile Philippe Daverio, uomo colto senza la presunzione di certi "uomini di cultura".....bellissimo ricordo.